Pmi, il pricing come chiave dello sviluppo


di Davide PASSONI

Dopo l’intervista al prof Hermann Simon – presidente e cofondatore di Simon-Kucher & Partners – Strategy & Marketing Consultants -, pubblicata mercoledì scorso, oggi tocca al dott. Danilo Zatta – Senior Director Simon-Kucher & Partners Italia – parlare di piccole imprese e politiche di pricing.

Cogliere con successo le sfide della modernità: quali strumenti possono utilizzare le Pmi per riuscire in questo obiettivo?
C’è una serie di strumenti molto importanti sul lato ricavi. Se guardiamo ai profitti secondo la elementare formula economica che li vede come il risultato di prezzo X volumi – costi. In molte Pmi italiane sul lato costi è stato fatto molto, perché si tratta di un aspetto tradizionalmente ben presente al manager; sul lato prezzi, invece, ciò che è stato fatto è sempre nato grazie al fiuto dell’imprenditore, mentre sul lato volumi è difficile muoversi perchè ci troviamo spesso su mercati maturi e togliere qualcosa a un competitor grazie a un comportamento aggressivo, non fa altro che innescare una guerra che, alla fine, si ripercuote in modo negativo sui margini.

E quindi?
La Pmi italiana deve capire come passare, sul lato pricing, da un approccio “di pancia” a uno più sistematico. Molte aziende sono infatti brave nella “value delivery”, ossia danno molto valore ai propri clienti, con un approccio che però porta a minor eccellenza sul piano della cosiddetta “value extraction”, ossia l’estrazione di valore dal mercato. Per migliorare in questo ambito ci sono accorgimenti sui quali poter essere più bravi a cogliere valore e portare l’impresa a un aumento in termini di marginalità e a farsi pagare dal mercato ciò che realmente essa merita.

Di quali strumenti parliamo?
Uno di questi strumenti è il peer pricing, che permette di capire come indirizzare la performance dei venditori e vendere non quello che viene facile, ossia lo sconto, ma vendere il valore. Per far in modo che non sia il direttore commerciale a imporre le politiche di vendita ma che queste vengano impostate confrontando le performance dei migliori venditori e allineando le performance di tutti verso l’alto, verso quella di colui che vende con meno sconto, vendendo il valore. Da qui si originano altre tematiche, come allineare il proprio partner commerciale agli obiettivi aziendali, quando, come spesso capita, una piccola impresa non è in grado di dotarsi si una propria forza commerciale e si affida a degli intermediari. Anche in quel caso, è necessario offrire uno sconto non fine a se stesso ma subordinato a obiettivi: se mi paghi in tempo, se mi esponi in un certo modo all’interno della tua catena, se spingi i prodotti che per me sono più importanti, ecc… Per tutte le realtà imprenditoriali c’è una serie di possibilità per assicurarsi una crescita che io definisco profittevole, ossia assicurarsi che la Pmi possa prosperare e diventare quello che noi chiamiamo un “campione nascosto”: piccole e medie realtà di successo. Capire quali sono i fattori di successo che li hanno fatti diventare leader nei loro settori di mercato per poterne replicare il successo da parte di altre imprese.

Quanto il tessuto produttivo italiano può essere un freno e quanto uno stimolo all’adozione degli strumenti di cui parla?
Il nostro tessuto produttivo può dare più opportunità perché, se vediamo il saldo commerciale dell’Italia, gran parte delle esportazioni viene da realtà di piccole e medie dimensioni: riuscire a fare un upgrade di queste realtà da semplici player a leader di settore può fare la differenza per il benessere dell’Italia tutta. Ecco perché Paesi come la Germania hanno un numero elevato di “campioni nascosti”, ossia imprese poco note al grande pubblico ma leader mondiali nelle loro nicchie di mercato.

In un periodo difficile come questo, per una impresa italiana è più importante sopravvivere o avere il coraggio di innovare?

Questa è stata per noi una domanda chiave nel 2009, quando ci siamo trovati faccia a faccia con la crisi. Allora pubblicammo un libro dal titolo “Battere la crisi” in cui illustravamo 33 azioni a rapido impatto per superare la crisi, libro nel quale indicammo misure rapide per poter sopravvivere. Nel momento in cui ci si trova di fronte a una crisi così forte è importante assicurarsi ossigeno per sopravvivere nel breve termine, ma non può essere questo l’obiettivo; è fondamentale capire come assicurarsi una posizione nel lungo andare e l’innovazione è lo strumento principale che si può usare per farlo: con questa si avrà un vantaggio competitivo in più nei confronti dei concorrenti e non si rischierà di finire di nuovo stretti all’angolo delle commodities.

Come si pongono altre realtà europee di fronte a questo dilemma, secondo la sua esperienza?
Nella mentalità italiana c’è più paura a entrare in nuovi concept imprenditoriali, mentre nel mondo anglosassone e tedesco vedo maggior apertura, forse anche perché le imprese piccole e medie tedesche sono più grandi di quelle italiane in termini di dipendenti e fatturato, più lontane da una gestione e da una mentalità familiare tipica nostra che, spesso, è un ostacolo al cambiamento. Inoltre, i tedeschi sono più presenti di noi sui mercati esteri, il che favorisce una maggiore apertura mentale e la volontà di capire e conoscere approcci nuovi. In Italia gli imprenditori vogliono essere convinti dalle esperienze e dai casi di aziende simili alla loro per poter abbattere la diffidenza. Quando in Italia si fanno interventi di questo genere si tratta di veri e propri casi di change management: cambiare il modo in cui le Pmi approcciano i mercati e vendono, aiutarle a cambiare mentalmente.

La globalizzazione: una scusa o una opportunità per le Pmi?
Penso sia una grandissima chance, tuttavia bisogna capire che cosa significa precisamente in termini di presenza sui mercati. A tal proposito abbiamo battezzato un nuovo segmento emergente che è quello dell’ultra low cost, che può rappresentare un’opportunità importante anche per le aziende che operano in settori di mercato elevati, proprio perché questo segmento ha un numero molto elevato di clienti potenziali. Vedo come opportunità il continuare a servire segmenti di nicchia del medio e alto di gamma, ma capire come poter cambiare l’offerta commerciale sviluppando in loco prodotti diversi, che permettano di piazzarsi in nuovi settori. Pensiamo all’Adidas, che ha sviluppato una scarpa a 1 euro per i mercati emergenti: cambiando packaging e caratteristiche del prodotto si possono servire segmenti insospettabili di mercato.

Adidas è un colosso, ma si tratta di strategie replicabili in scala minore per realtà imprenditoriali più piccole?
Sì, nel nostro Paese in questo senso c’è un potenziale molto interessante da cogliere anche nel breve, anche da parte delle piccole imprese artigiane.