L’imprenditoria in rosa vuole un primato di quantità e di qualità

Le imprenditrici in Italia hanno raggiunto un importante primato, sbaragliando le “colleghe” europee e ponendosi in vetta nel vecchio continente in quanto a numero di lavoratrici autonome.

E’ ciò che emerge dall’Osservatorio sull’imprenditoria femminile curato dall’Ufficio studi di Confartigianato.
Con 1.531.200 imprenditrici e lavoratrici autonome, dunque, l’Italia “batte” Germania, seconda con 1.383.500 imprenditrici e il Regno Unito, terzo con 1.176.500 donne lavoratrici autonome. Questa leadership italiana nell’Ue viene confermata anche dal peso che l’imprenditoria femminile ha sul totale delle donne occupate: in Italia è del 16,4%, di gran lunga superiore al 10,3% della media dell’area Euro.

Ovviamente, non si tratta di dati che interessano equamente tutto il territorio nazionale e, per quanto riguarda il belpaese, pare che l’habitat migliore sia in Friuli Venezia Giulia, che guida la classifica delle regioni con le condizioni ideali perché si sviluppino l’imprenditorialità e l’occupazione femminile. Sul podio anche Emilia Romagna e Umbria.
Per quanto riguarda le provincie, invece, quelle “amiche” del lavoro in rosa sono Udine, Gorizia e Rimini. Agli ultimi posti finiscono invece la Campania, la Sicilia e la Puglia. E tra le province con le peggiori condizioni per l’occupazione femminile si trovano Napoli, Palermo, Caltanissetta.

Franca Compestella, presidente regionale di Donne Impresa Emilia Romagna, ha commentato positivamente questo risultato: “Credo siano dati di cui andare fieri, siamo in presenza di una imprenditoria femminile forte e dinamica che va incoraggiata. Per farlo servono ovviamente quelle semplificazioni burocratiche e quelle riduzioni di costo che soffocano le iniziative delle imprese siano esse condotte da uomini o donne”. Anche se le esigenze specifiche delle donne lavoratrici andrebbero riviste e sviluppate con “maggiori interventi sul welfare che permettano loro di non rimanere schiacciate dall’impossibilità di conciliare lavoro e famiglia. Non possiamo nasconderci dietro un dito, sono le donne a portare il carico maggiore quando si tratta della cura dei figli, dei familiari anziani o nona autosufficienti, in questi campi ci attendiamo maggiore attenzione dalle amministrazioni, soprattutto quelle locali”.

Nonostante, però, questi dati, c’è il rovescio della medaglia che non è del tutto roseo, dal momento che la partecipazione femminile al mercato del lavoro rimane tra le più basse d’Europa. Il tasso di inattività delle donne nel nostro Paese è del 48,9%, a fronte della media europea del 35,5%.
Ciò significa che l’Italia arranca nei confronti dell’Europa, e il divario da coprire è ancora molto ampio, dal momento che il nostro attuale tasso di inattività delle donne è uguale a quello registrato nel 1987 dai Paesi dell’allora Comunità europea. E questa distanza diventa ancora più evidente nelle regioni del sud.
La Campania, tra le 271 regioni europee, fa registrare il più alto tasso di inattività femminile: 68,9%. All’altro capo della classifica la Provincia autonoma di Bolzano dove il tasso di inattività si dimezza al 34,9%. A livello provinciale la maglia nera va a Napoli, dove il tasso di inattività delle donne sale addirittura al 72,4%. Ravenna, invece, conquista il primato positivo della provincia con la più bassa percentuale di donne inattive: 30,7%.

E a spiegare questi numeri così “desolanti” è ancora una volta lo scarso investimento nei servizi di welfare che dovrebbero favorire la conciliazione tra attività professionali e cura della famiglia. Non investire in famiglia e maternità è una mossa non solo azzardata, ma anche controproducente per l’occupazione femminile, ormai indispensabile per trainare l’Italia fuori da una crisi infinita. Ma per ora non sembra che questo rappresenti, per lo Stato, un problema urgente, se pensiamo che nel nostro Paese solo l’1,3% del Pil è stato speso a favore di interventi per famiglia e maternità.

Tradotto in cifre, significa che in Italia la spesa pubblica per famiglia e maternità è pari a 320 euro ad abitante, vale a dire 203 euro in meno rispetto alla media dell’Europa a 27.
Nei maggiori paesi europei si spende ben il doppio: in Germania il 2,8% del Pil e in Francia il 2,5%. E nei Paesi del Nord aumenta ancora: in Danimarca il 3,8% del PIL viene destinato a spesa pubblica per la famiglia, in Irlanda la quota è pari al 3,1%, in Finlandia e Svezia è del 3%.

Di pari passo vanno i servizi pubblici per l’infanzia, altamente carenti da noi, con una percentuale di bambini che usufruiscono di asili nido e micronidi che non supera il 12,5%, ovvero un terzo dell’obiettivo di Lisbona del 33% programmato per il 2010.

Non va meglio per i servizi di cura e assistenza agli anziani. L’indicatore esaminato da Confartigianato è dato dalla percentuale di anziani trattati in assistenza domiciliare integrata (ADI) rispetto al totale della popolazione con 65 anni e oltre. Anche tale indice, in media nazionale, è sostanzialmente modesto e pari al 4,3%.

Ma se si vuole crescere ed essere all’altezza degli altri Paesi Ue, la mentalità deve cambiare.

Vera Moretti