Il parere numero 19 della Fondazione Studi chiarisce che il rapporto che si instaura con il collaboratore familiare non può essere equiparato né a un rapporto di lavoro dipendente né a un rapporto di collaborazione, purché non vi siano nell’impresa dipendenti e collaboratori coordinati e continuativi o a progetto.
L‘impresa familiare resta un soggetto individuale esercente attività d’impresa.
Dal punto di vista previdenziale i contributi relativi al collaboratore familiare saranno determinati e versati dal titolare in base al minimale contributivo. Infatti, data l’identità tra base imponibile fiscale e base imponibile previdenziale, si spiega, “in assenza di imputazione del reddito al collaboratore, non vi è base imponibile sulla quale calcolare il contributo a percentuale”.
E questo anche qualora non vi sia alcun atto pubblico o scrittura privata che attesti il rapporto di impresa familiare instaurato tra un imprenditore individuale e un collaboratore familiare.
I consulenti del lavoro ricordano che l’impresa familiare è regolata dall’art. 230 bis del Codice civile: “La disposizione disciplina i rapporti che nascono nell’ambito dell’impresa individuale laddove un familiare dell’imprenditore presta la propria opera in maniera continuativa nell’ambito della famigliia o nella stessa impresa. L’impresa familiare, affinché si formi, non necessita di un atto in forma scritta, essendo sufficiente la realizzazione dei presupposti indicati“.
Qualora l’impresa fosse stata costituita con atto scritto autenticato o atto pubblico, la situazione dal punto di vista previdenziale non si modificherebbe, dal momento che, si precisa, “nel regime dei minimi l’imposta sostitutiva è dovuta dal titolare sull’intera base imponibile senza alcuna ripartizione al collaboratore”, che “è soggetto esclusivamente al minimale contributivo Inps“.
Marco Poggi
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