Venture Capitalist in Italia? Una cosa per pochi

di Emilano RAGONI

Italia paese di vecchi? Stando agli ultimi accadimenti tale affermazione assume purtroppo i connotati di veridicità. L’occasione per riaccendere il dibattito è quella del finanziamento da parte di un gruppo tedesco, di Cibando, una startup italiana. Cibando è un motore di ricerca di ristoranti realizzato per iPhone e basato non sul rating degli utenti, spesso alterato dai ristoratori stessi a loro favore, bensì su un gruppo di foodbloggers accreditati che recensiscono man mano i locali associati al servizio.

Un progetto interessante e dalla sicura utilità, ed infatti l’App è stata scaricata oltre 300.000 volte, con più di 170 ristoranti presenti nel database. Qual è stato l’inghippo quindi? Semplice, il fondatore del progetto Cibando, tale Guk Kim, ha cercato di reperire dei fondi per poter dare forma concreta alla sua idea, quelli che assumono il nome di venture capitalist. Ebbene, Kim non è riuscito a trovare i fondi necessari in Italia e si è dovuto quindi rivolgere altrove. Il risultato è stato che ha ottenuto in poco tempo un finanziamento da parte della Point Nine Capital, società tedesca.

L’esempio di Cibando è piuttosto emblematico e ricade in quella categoria che si può definire “fuga di cervelli”, dove troppo spesso per realizzare i propri progetti si è costretti a rivolgersi altrove.

Fortunatamente ci ha pensato Mike Butcher a non mandare dispersa questa notizia, pubblicando sull’autorevole TechCrunch un post molto molto critico sulla situazione italiana, definendola statica ed incapace individuare le aziende a forte crescita. L’articolo, com’era abbastanza prevedibile, ha acceso un vero e proprio dibattito sul venture capitalist italiano al quale hanno partecipato esponenti di spicco del settore.

Le opinioni sulla situazione del venture capitalist in Italia sono molto discordanti; Stefano Pochet e Luca Spoldi, seguono, pur tenendo un profilo più moderato, la linea di Butcher, definendo il panorama italiano poco concreto. Il risultato di questo acceso dibattito è comunque l’evidenza che il contesto italiano, pur essendo intriso di progetti di indubbio valore, si trova spesso a cozzare con gli investitori nostrani che non hanno le competenze per comprendere il potenziale di una startup destinata ai servizi di nuova generazione. Se poi si paragona la situazione italiana con quella degli altri paesi europei ed extraeuropei, il confronto è imbarazzante.

Forse però il dato più desolante è quello che la stampa non si occupa mai o quasi mai di questo settore; è eloquente che sia stata una rivista straniera come TechCrunch a dare spazio alla questione. Ed è per questo che infoiva ha deciso di dare il giusto risalto ad un argomento che quasi sempre finisce nel dimenticatoio.

Fortunatamente non mancano manifestazioni italiane di incontro tra startup e venture capitalist, come Working Capital, Mind the Bridge e Kultur Convivio, tanto per citarne alcuni. Ma questo non è ancora abbastanza perché purtroppo la mancanza strutturale di investimenti in Italia nel settore tech è una realtà con cui le startup devono fare i conti.

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