Lodevole l’opera del Governo Monti per lo sforzo di razionalizzare l’apparato statale, tagliare le spese inutili, incanalare la fiscalità verso una più efficace lotta all’evasione. Però, nonostante il premier e la sua squadra lavorino come bulldozer, forti della non necessità di un consenso elettorale, ogni tanto cadono anche loro nella trappola in cui finiscono i politici: di fronte a chi alza di più la voce per difendere i propri interessi, mollano il colpo. Lo abbiamo visto in parte con i tassisti, con alcuni ordini professionali, ora tocca alle banche.
Le teatrali dimissioni di Mussari e dei vertici dell’Abi di una settimana fa ha sortito il risultato sperato: è infatti saltato dal decreto legge l’emendamento per modificare la norma che vieta le clausole sulle commissioni bancarie, per tutte le linee di credito. La modifica alla norma dovrebbe passare dal dl liberalizzazioni al decreto legge fiscale. “L’emendamento non verrà presentato” ufficialmente, ha spiegato ieri il relatore Stefano Saglia, “perché era troppo forte il rischio di inammissibilità“. Sarà. Intanto, però, le banche se la sono cavata. Aspettiamo e vediamo.
E, già che ci siamo, ecco che anche il tetto allo stipendio dei manager pubblici non sarà fissato: “Il Governo – ha detto il ministro della Funzione Pubblica, Filippo Patroni Griffi – non presenterà emendamenti a dl Semplificazioni sui tetti ai manager per non rallentare l’approvazione del decreto“. Lo stesso Patroni Griffi che, con la decisione di pubblicare le cifre degli stipendi dei manager pubblici, aveva sollevato un polverone; le cifre imbarazzanti, senza senso e fuori mercato che guadagnano i top manager della Pa avevano fatto montare un’ondata di indignazione. Mettiamo il tetto a 294mila euro, si era detto (che, per inciso, sono comunque bei soldoni, per nulla parametrati, in alcuni casi, alle responsabilità di molti satrapi della Pa). E ora? Sparito.
Prego signori, c’è posto: chi urla di più oggi?
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