di Davide PASSONI
Il fenomeno è salito alla ribalta delle cronache nello scorso autunno, ma in realtà esiste da tempo: in Veneto e in Friuli vengono regolarmente organizzati dei “tour” in Carinzia per imprenditori che vogliono trasferire là le proprie aziende, stanchi della burocrazia, della predatoria pressione fiscale e delle svariate trappole che l’amministrazione pubblica e quella tributaria quotidianamente allestiscono per far cadere chi vive d’impresa e produce ricchezza e occupazione in Italia. E tanti sono gli imprenditori che, da queste due regioni, sono già migrati in Austria.
Il fenomeno fa notizia perché stiamo parlando di una delle zone a più alta produttività italiana e perché mette clamorosamente in luce molte di quelle mancanze che, tanto lo Stato quanto le regioni (anche quelle “virtuose” come il Veneto), hanno nei confronti della piccola impresa italiana. La spina dorsale dell’economia italiana si sta sempre più piegando sotto il peso della burocrazia (6-8 mesi per avere i permessi per avviare un’attività) e della pressione fiscale (quella sulle piccole imprese è cresciuta di oltre il 22% dal 2011 al 2012) ed è comprensibile che chi d’impresa vive, pur di non vedersi costretto a chiudere bottega, complice anche la crisi, cerchi la soluzione migliore per salvare vita e azienda. Se questa soluzione, poi, è all’estero… chissenfrega, pensa: l’importante è continuare a dare lavoro e creare ricchezza.
E siccome in Italia e nel Nordest le eccellenze produttive e tecnologiche ci sono eccome, agli austriaci non sembra vero di vedersele offrire su un piatto d’argento da uno stato e da un fisco che, invece di salvaguardarne futuro e investimenti, fanno di tutto per metterle in fuga. Basta applicare una tassazione da fantascienza sugli utili (25%), eliminare imposte odiose come l’Irap, erogare incentivi con intelligenza, azzerare o quasi i tempi per l’avvio di un’impresa e tanti saluti ai Fratelli d’Italia e alla retorica dell’impresa tricolore.
Nei prossimi giorni cercheremo di conoscere qualche storia di chi ha preso questa decisione e di chi ci sta pensando, di vedere che cosa nel concreto offrono i nostri vicini di frontiera alle imprese e, soprattutto, per rispondere a chi riduce la questione a “è il mercato, bellezza…”, che cosa può fare l’Italia per non consegnare all’estero un patrimonio di qualità e “saper fare” che la rende unica nel mondo. Perché, d’accordo la globalizzazione, ma anche l’Italia fa parte del mercato globale: e allora perché da noi le imprese scappano, anziché investire?
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