Quando si interrompe un rapporto di lavoro, indipendentemente dalle cause, capita che i “vecchi”datori di lavoro accusino gli ormai ex dipendenti di concorrenza sleale quando iniziano a lavorare, appunto, per un diretto concorrente.
Citare l’ex lavoratore per danni è inutile perché la fedeltà al datore di lavoro, e quindi all’azienda, cessa nel momento in cui si esauriscono i rapporti di lavoro.
Per salvaguardare, però, entrambe le parti, esiste il patto di non concorrenza, previsto dal codice civile, secondo il quale il datore di lavoro ed il lavoratore possono accordarsi, dietro pagamento di un compenso al lavoratore, per “limitare” il diritto di iniziativa economica, costituzionalmente garantito, del lavoratore stesso.
In questo caso, è più facile trovare un punto di equilibrio tra gli interessi dell’azienda a non creare, o comunque a non favorire la concorrenza e quelli del lavoratore a garantirsi un reddito dopo la cessazione del rapporto di lavoro.
Che il datore di lavoro sia a capo di una multinazionale o di una piccola ditta artigiana poco importa: in tutti i casi il compenso corrisposto al lavoratore deve essere stabilito in maniera congrua in riferimento alle limitazioni contenute nel patto di non concorrenza.
Un compenso puramente simbolico o comunque irrisorio avrebbe l’effetto di rendere nullo il patto di non concorrenza; tutto ciò ovviamente per evitare la stipula di patti “imposti” al lavoratore da parte di datori di lavoro poco rispettosi della legge.
Occorre poi tenero conto di altri elementi, quali:
Vera MORETTI
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