Le pmi agroalimentari nel mirino degli acquirenti esteri

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Finora, le aziende italiane oggetto di acquisizione da parte di gruppi esteri erano avvenute nei comparti maggiormente significativi per il Made in Italy, primo fra tutti la moda.

Ma ora le attenzioni da parte degli stranieri sembrano rivolgersi anche al settore dell’agroalimentare, e non solo per le imprese di medio-grande dimensione, ma anche, e soprattutto, per le pmi legate a prodotti di eccellenza.

Motivo di questa inversione di tendenza è la notorietà che il cibo italiano ha raggiunto ne mercati emergenti come Cina, Russia e Arabia.
Ma questo trend non è propriamente una buona notizia, poiché chi intraprende un’acquisizione fuori dai confini nazionali lo fa anche per sfruttare economie di scala che solo una dimensione d’azienda significativa riesce a generare.
Altro motivo riguarda la gestione delle aziende di questa natura, che non sempre è compatibile con le dinamiche finanziarie dei fondi. Infatti la peculiarità del territorio, e i metodi di produzione risultano quasi sempre il fattore vincente. Replicare modelli gestionali e produttivi sulle regole del capitale, non è pensabile in questo tipologie di imprese dove a fare la differenza sono altre cose, come i fattori individuali della passione e della competenza, che il produttore riversa nell’attività di impresa e che costituisce quasi sempre il fattore di eccellenza che attrae potenziali investitori.

Nell’agroalimentare, il successo di un’impresa legata in modo molto stretto alle capacità gestionali e alla presenza fisica dell’imprenditore, rischia di affievolirsi notevolmente se a costui si sostituisce un soggetto che non ne padroneggia anche i contenuti intangibili.

La crisi economica ha reso vulnerabili gli imprenditori italiani, per questo alla ricerca sempre più frequente di capitali esteri.
Ovviamente, a pagarne le peggiori spese sono state proprio le pmi, prive delle risorse necessarie ad intraprendere efficaci politiche di espansione internazionale che possano risultare particolarmente colpite da una contrazione della domanda interna che mette a dura prova la tenuta dell’intero comparto.

Il rischio principale è snaturare il profilo tradizionale di un settore nel quale, spesso, i volumi di produzione sono legati a caratteristiche della terra e dei territori e non possono soddisfare la domanda di mercati giganteschi stravolgendo una scala basata su uno sviluppo sostenibile.

L’apertura indiscriminata a investitori esteri può essere un rischio per il sistema Paese, e la vulnerabilità alla crisi rischia di consegnare aziende con un importante patrimonio di competenze a investitori internazionali che non sempre possiedono la capacità (fatte salve le risorse finanziarie) per valorizzarle. In altri casi, ancora peggiori, esiste il rischio che capitali di provenienza illecita, possano trovare facile impiego e inquinare un settore che continua a rappresentare un biglietto da visita dell’Italia all’estero.

Vera MORETTI