Siamo limoni da spremere

Secondo uno studio Confcommercio-Cer, le tasse sugli immobili sono più che raddoppiate tra il 2011 e il 2014: gli italiani hanno pagato 31,88 miliardi. E le tasse locali sono passate dai 28,7 miliardi del 1995 ai 104,7 miliardi del 2014. E io pago!

Immobili usati o nuovi, ecco il dilemma

Il dilemma di fronte al quale si trovano le persone che vogliono comprare casa è sempre lo stesso: compare immobili nuovi o immobili usati? Un dilemma che La Ducale SpA, società di sviluppo immobiliare del Gruppo Tecnocasa ha provato a sciogliere svolgendo un’analisi sul mercato.

Nelle grandi metropoli la maggioranza del patrimonio abitativo è rappresentata da immobili usati. Infatti il nuovo sorge quasi sempre in seguito ad interventi di recupero. Se si acquistano immobili usati bisogna quasi sempre mettere in conto dei lavori di ristrutturazione, anche su ciò che non è in vista: strutture, tubature, impianti. In questo caso è bene informarsi prima sui costi, facendo fare dei preventivi ed informandosi sulle agevolazioni fiscali esistenti sia per i lavori di ristrutturazione sia per quelli di riqualificazione energetica: la legge di stabilità ha prorogato per tutto il 2015 la detrazione del 50% per le ristrutturazioni edilizie e del 65% per gli interventi di riqualificazione energetica.

Attualmente, sugli immobili usati, si possono spuntare dei ribassi di prezzo importanti e quindi si potrebbe giovare del momento per fare acquisti convenienti. Da segnalare, per l’acquisto delle abitazioni usate, anche la nuova tassazione sulla compravendita. Gli immobili usati, soprattutto quelli d’epoca, hanno sempre un certo fascino oltre a vani molto ampi. Da tenere comunque in considerazione eventuali interventi di manutenzione straordinaria e l’incidenza delle spese per il riscaldamento (soprattutto per le soluzioni con soffitti alti).

L’analisi delle compravendite realizzate dal Gruppo Tecnocasa evidenzia che nel primo semestre del 2014 l’85,7% delle compravendite riguarda gli immobili usati ed il 14,3% le tipologie di nuova costruzione.

A livello nazionale, considerando solo le compravendite di tipologie nuove, registriamo che quella più acquistata è il trilocale, seguito dal bilocale e poi dalle soluzioni indipendenti a quelle semindipendenti. La stessa analisi sulle tipologie usate vede al primo posto il trilocale, seguito dal bilocale e poi dal quattro locali.

Nelle grandi metropoli la percentuale delle compravendite di immobili usati sale al 95,9%, quella delle costruzioni nuove è al 4,1%. 

Nei capoluoghi di provincia la percentuale delle compravendite cha ha per oggetto immobili usati scende al 90,8%: il nuovo sale al 9,2%; nell’hinterland delle grandi città, invece, la percentuale degli scambi che hanno per oggetto un immobile nuovo è ancora più elevata, 16,5%, l’usato scende all’83,5%.

Questi dati confermano che le soluzioni nuove sono scambiate maggiormente nell’hinterland, dove negli anni del boom immobiliare sono stati fatti tanti interventi di nuova costruzione che all’epoca erano acquistati perché meno costosi rispetto ai prezzi delle grandi città.

In questo momento i potenziali acquirenti prediligono, in linea di massima, gli immobili usati ed in buono stato perché temono di iniziare i lavori di ristrutturazione.

Ciò non toglie che l’esistenza degli incentivi fiscali sta portando ad acquistare immobili usati da ristrutturare, ma solo se il prezzo è particolarmente conveniente e tale da giustificare il sostenimento dei lavori di ristrutturazione. Attenzione alle nuove costruzioni e ai criteri di efficienza energetica si registrano da parte di chi acquista casa in località turistiche e in parte anche dagli stranieri che acquistano nel nostro Paese.

Anche i commercialisti contro il ddl concorrenza

Dopo le perplessità sollevate nei giorni scorsi dai notai, anche i commercialisti esprimono i propri dubbi sul ddl concorrenza, definito “contraddittorio e lontano dagli obiettivi di semplificazione che dice di voler perseguire”.

Il giudizio del Consiglio nazionale dei commercialisti sul ddl concorrenza è netto e critico, come sottolinea anche in una nota il presidente nazionale della categoria, Gerardo Longobardi. “Le misure volte a favorire la liberalizzazione delle professioni penalizzano alcune categorie professionali e ne avvantaggiano altre, senza perseguire, a parer nostro, l’obiettivo della semplificazione. È quindi una semplificazione a somma zero. Per contro, nonostante la dichiarata volontà di favorire il consumatore, il disegno di legge lo priva di qualsiasi effettiva tutela circa la garanzia del rispetto delle condizioni minime  imposte dalla legge”.

I commercialisti, come del resto i notai, criticano soprattutto la norma del ddl concorrenza che prevede la possibilità di semplificare il trasferimento di beni immobili ad uso non abitativo il cui valore catastale non superi i 100mila euro, con l’autenticazione della sottoscrizione dell’atto da parte dei soli avvocati. “Se la ratio della norma è quella di allargare la platea dei professionisti a quelli che autenticano la firma del cliente nel mandato alle liti, non si comprende perché siano stati esclusi dalla previsione normativa i commercialisti, che abilitati alla difesa tributaria dei contribuenti, già autenticano la firma di questi ultimi. Se invece la ratio era quella di individuare professionisti dotati di specifica competenza in materia, ricordiamo che i commercialisti, accanto ai notai e agli avvocati, già’ dal 2005 vengono delegati alle operazioni di vendita dei beni immobili nel processo esecutivo”, dice Longobardi, il quale ne ha anche per le nuove norme relative agli atti di trasferimento delle partecipazioni di S.r.l. introdotte dal ddl concorrenza.

La modalità proposta dal Governo – spiega infatti Longobardinon fornisce al consumatore garanzie di certezza e qualità del servizio come avviene in forza della normativa attuale. Quella della cessione delle quote di s.r.l. e della costituzione di vincoli sulle stesse è un’attività ad oggi riservata al notaio e al commercialista. Si tratta di attività che i professionisti esercitano già in un regime di parziale liberalizzazione, per le competenze specifiche che ad essi sono riconosciute dalle rispettive leggi professionali. La cessione delle partecipazioni di s.r.l. e la costituzione di vincoli su quote può implicare l’emersione di questioni attinenti a delicate problematiche societarie e civilistiche che solo professionisti iscritti all’albo e con adeguata formazione possono risolvere. La redazione di questi atti dovrebbe essere appannaggio di professionisti con adeguate competenze nella materia del diritto societario e che per legge sono tenuti al rispetto della normativa antiriciclaggio”.

Per concludere le critiche al ddl concorrenza, Longobardi sottolinea che, “se l’obiettivo dell’esecutivo era quello di liberalizzare taluni servizi professionali, non si comprende come mai, rispetto ad alcune anticipazioni della vigilia, sia saltata la soppressione dall’ordinamento forense dell’esclusiva agli avvocati dell’assistenza, della rappresentanza e della difesa nelle procedure arbitrali rituali. Un ulteriore elemento che contribuisce a rendere contraddittorio un disegno di legge che, a dispetto delle dichiarazioni d’intenti, non semplifica, liberalizza dove non dovrebbe liberalizzare e difende esclusive oramai indifendibili”.

Business in Egitto? Ecco i finanziamenti

In nord Africa il momento attuale non è dei migliori per fare affari, con la Libia sotto scacco dell’Isis e molti Paesi alle prese con la minaccia terroristica. Per chi vuole fare business in Egitto, però, c’è un’interessante opportunità.

L’Abi ha infatti rilevato che le banche italiane hanno messo a disposizione 1,2 miliardi per sostenere l’operatività commerciale e finanziaria delle imprese nei settori ad alto potenziale del mercato egiziano, per fare business in Egitto.

Il dato, presentato nei giorni scorsi al Forum economico tenutosi al Cairo, in occasione della missione di sistema organizzata da banche, imprese e Istituzioni, dimostra l’attenzione delle banche italiane per le imprese che vogliono fare business in Egitto.

Alla missione ha infatti partecipato una delegazione di cinque dei principali gruppi bancari, che rappresenta circa il 60% del mondo bancario italiano in termini di totale attivo e circa il 60,5% in termini di sportelli: Intesa Sanpaolo, UniCredit, Ubi Banca, Monte dei Paschi di Siena, Ubae. “

Del plafond dei crediti messo a disposizione dalle banche italiane per le aziende che puntano al business in Egitto – 1205,9 milioni di euro – fino ad oggi è stato impiegato solo il 30%, di cui il 25 % (pari a 184,2 milioni di euro) sul breve termine. Oltre alle linee di credito, gli imprenditori che fanno business in Egitto possono avvalersi dell’assistenza degli istituti in loco, poiché una delle banche è direttamente presente in Egitto attraverso una controllata e due tra i maggiori gruppi italiani hanno uffici di rappresentanza al Cairo.

Durante gli incontri di business, le cinque banche italiane partecipanti alla missione hanno messo a disposizione altrettanti desk di assistenza, per supportare le imprese italiane ed egiziane nell’individuazione delle soluzioni finanziarie più adatte per realizzare nuove operazioni di business in Egitto.

Moda italiana, numeri da record

È pur vero che i grandi della moda italiana senza i piccoli laboratori e le eccellenze artigianali non sarebbero nessuno, o quasi; ma resta il fatto che i marchi top del fashion made in Italy nel 2013 hanno fatto registrare performance migliori di quelle della grande industria.

Lo ha rilevato un’analisi di Mediobanca svolta sui fatturati dei grandi marchi della moda italiana: se nel 2013 la grande industria italiana ha visto un calo del fatturato dell’1,9%, le aziende moda Italia nello stesso periodo hanno fatto segnare +1,4% e il TopModa addirittura un +4,4%.

Tra le aziende top della moda italiana, Prada ha fatto segnare la crescita più forte, con un +129,8% di ricavi sul 2009, seguita da Ferragamo (+103,8%). Il fatturato di Prada, la più grande fra le aziende del TopModa, è stato di 3.587 milioni, secondo Armani (2.186 milioni) e terza la OTB di Renzo Rosso (1.552 milioni). Valentino (+21%) ha fatto segnare la maggiore crescita di fatturato sul 2012, seguita da Ferragamo (+9%), Prada (+8,8%), OTB (+4,8%) e Armani (+4,5%). In calo solo, tra i big della moda italiana, Max Mara (-0,4%) e Miroglio (-6,2%).

Secondo Mediobanca, il giro d’affari mondiale della moda italiana è stato nel 2013 di circa 218 miliardi di euro. L’Europa è stata il primo mercato mondiale con circa 74 miliardi di euro (+2% sul 2012), le Americhe il secondo a 70 miliardi, seguite dall’Asia-Pacifico a 46 miliardi, mentre scende a 17 miliardi il mercato giapponese.

Mediobanca rileva anche come sia in forte espansione lo shopping turistico, del quale la moda italiana ha bisogno come dell’aria. Il cosiddetto travel retail rappresenta infatti il 50-60% del totale locale, un mercato stimato in circa 6 miliardi di euro in Italia e 40 in Europa. Lo shopping online vale circa 10 miliardi di euro, con una crescita del 20%-30% nel 2014.

Venendo ai dati macro dell’intera filiera della moda italiana, questa comprende circa il 18% di tutte le imprese manifatturiere, pari al 15% della loro occupazione. Mediobanca si attende che nel 2014 il settore della moda italiana produca un saldo commerciale positivo per oltre 25 miliardi, pari a circa il 26% del saldo commerciale manifatturiero italiano.

Un settore che fa dell’export il suo cavallo di battaglia, tirato, nel 2014, da pelletteria, tessile e abbigliamento. Nelle manifatture della moda italiana, il 56% della forza lavoro è femminile, contro il 27,5% dell’intera manifattura italiana, con una punta del 73% nell’abbigliamento. Mani di fata che decretano il successo della moda italiana nel mondo.

I conti Eni 2014 scontano il calo del prezzo del greggio

Se il calo del prezzo del petrolio è stato una benedizione per i consumatori, che hanno beneficiato di una sensibile riduzione del prezzo dei carburanti, per i big degli idrocarburi è stata una sventura.

Ne sa qualcosa Eni, che ha archiviato il 2014 con un calo degli utili. L’utile netto dello scorso esercizio si è attestato a 1,33 miliardi di euro -74% rispetto al 2013, mentre nell’ultimo trimestre del 2014 il gruppo ha registrato una perdita netta di 2,34 miliardi. L’utile netto adjusted è pari a 3,71 miliardi in calo del 16,3%rispetto al 2013.

Di certo, i punti di vista sui conti 2014 di Eni sono piuttosto differenti. Secondo l’ad del gruppo, Claudio Descalzi,”nel quarto trimestre, in presenza di un contesto di mercato sfavorevole, Eni ha ottenuto eccellenti risultati ed una generazione di cassa record negli ultimi sei anni, grazie all’elevato valore della produzione upstream e l’accelerazione della ristrutturazione dei business mid-downstream“.

Dati alla mano, nel quarto trimestre 2014 l’utile netto adjusted di Eni pari a 0,46 miliardi di euro evidenzia, riferisce il gruppo, una riduzione del 64% per effetto del peggioramento della performance operativa e dei minori proventi su partecipazioni (0,42 miliardi) relativi in particolare agli oneri (0,38 miliardi) derivanti dalla valutazione al prezzo di borsa delle partecipazioni in Galp e Snam al servizio dei rispettivi prestiti obbligazionari convertibili

Il cash flow operativo di Eni, secondo l’azienda, tocca invece il record degli ultimi sei anni nel 2014. Il flusso di cassa netto da attività operativa è stato di 15,09 miliardi di euro (+4,06 miliardi rispetto al 2013) nonostante 0,96 miliardi di minori crediti commerciali ceduti in factoring con scadenza successiva alla chiusura del periodo contabile rispetto a quanto fatto a fine 2013.

Sul fronte dividendi, quello che più interessa i risparmiatori, il cda dell’Eni intende proporre all’assemblea degli azionisti la distribuzione di un dividendo di 1,12 euro per azione (era di 1,10 nel 2013).

Voluntary disclosure, occhio alla Svizzera

Il rientro in Italia dei capitali esportati all’estero, o voluntary disclosure, ora ha un’arma in più. Almeno che per chi vuole attuare la voluntary disclosure sui capitali esportati in Svizzera. La Confederazione Elvetica ha infatti firmato uno storico accordo in materia fiscale che mette fine al segreto bancario grazie allo scambio di informazioni tra i due Paesi.

L’accordo tra Italia e Svizzera consente immediatamente alle autorità italiane di individuare potenziali evasori che celano patrimoni in territorio svizzero e, secondo il ministero delle Finanze, sarà quindi di stimolo al rientro dei capitali nel nostro Paese con la voluntary disclosure.

La firma in calce all’accordo è stata messa dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e dal consigliere federale elvetico Eveline Widmer-Schlumpf. Contestualmente, Padoan ha annunciato che il 26 febbraio l’Italia firmerà un accordo in materia fiscale anche con un altro dei paradisi fiscali europei fino ad ora inviolabili, il Liechtenstein, con l’obiettivo di favorire anche lì la voluntary disclosure.

In un’ottica di lungo termine l’accordo con la Svizzera porterà grandi benefici per le finanze pubbliche”, ha commentato Padoan, che ha aggiunto: “A bilancio questo accordo è postato un euro, ma azzardo una previsione, sarà più di un euro. Mi fermo qui non vado oltre”.

Confapi Giovani e Aiga, confronto sulla giustizia

I Giovani di Confapi provano a mettere la giustizia al centro dell’attenzione. Va in questo senso, infatti, il confronto organizzato dalla Fondazione Aiga Bucciarelli che si terrà a Roma al Campidoglio giovedì 26 febbraio dalle 16 nella Sala Pietro da Cortona dei Musei Capitolini, sul tema “Giustizia civile ed alternativa:  l’armonizzazione dei sistemi giuridici al tempo della globalizzazione delle professioni, esperienze internazionali a confronto, proposte e novità normative”.

Un tema importante e di spessore intorno al quale discuteranno, tra gli altri, il presidente nazionale dei Giovani di Confapi Angelo Bruscino, il sottosegretario al ministero della Giustizia Cosimo Ferri e il capogruppo dei Socialisti e dei Democratici al Parlamento Europeo Gianni Pittella.

Da anni – dichiara il presidente dei Giovani Imprenditori di Confapi Bruscino – si parla di riforma della Giustizia, in un’ottica di revisione costituzionale. A noi imprenditori, invece, piacerebbe parlare di un cambiamento della giustizia finalizzato a obiettivi pragmatici, come quelli di ridare efficienza e modernità a un paese come il nostro, nel quale la durata dei processi civili di primo grado è di 493 giorni, mentre nei Paesi aderenti al Consiglio d’Europa è di 287 giorni”.

Che cosa significa per questo Paese – prosegue Bruscinouna giustizia civile inefficiente? Si traduce in una riduzione degli investimenti, soprattutto di quelli provenienti dall’estero; crea asimmetrie nei tassi d’interesse tra diverse regioni del Paese; comporta rigidità nel mercato del lavoro; limita la concorrenza nei settori produttivi, nei servizi, e nelle professioni; provoca una distorsione della struttura delle imprese. Per fermarsi solo ai danni più rilevanti”.

Per attuare una riforma della giustizia che ridia a questo Paese anche la dignità giuridica che merita e che rilanci l’economia e gli investimenti utili per la crescita, basterebbero poche cose: disincentivare l’abuso processuale che rallenta le cause reali adeguando ad esempio il tasso legale a quello di mercato; incentivare la sottoscrizione di polizze di tutela legale a copertura dei costi processuali, sul modello di diversi Paesi europei; introdurre i sistemi di Alternative Dispute Resolution, come la negoziazione diretta con valore di titolo esecutivo in presenza degli avvocati, tavoli paritetici, mediazione e arbitrato; incentivare i tribunali che adottino più rapidamente il processo telematico; introdurre la pratica dei giovani nell’Ufficio del Giudice, ossia laureati selezionati secondo criteri qualitativi che affianchino il giudice, configurando la pratica (tra l’altro positivamente sperimentata a Milano) come normale procedura concorsuale per ottenere l’accesso alla magistratura e come tirocinio abilitante per l’avvocatura. Basterebbe poco, per dare una sterzata al nostro sistema”.

La filiera moda lombarda e la Milano Fashion Week

La Milano Fashion Week che si apre domani è la vetrina mondiale della filiera moda italiana. Una filiera che trova nel capoluogo lombardo e nella regione terreno assai fertile. Secondo quanto emerge da un’elaborazione della Camera di commercio di Milano su dati del registro delle imprese al terzo trimestre 2014 e 2013, nella regione sono 35mila le imprese attive nella filiera moda, di cui circa una su tre si concentra a Milano (13mila). La filiera moda in Lombardia vede oltre 14mila imprese attive nella produzione e 20mila nel commercio; insieme danno lavoro 234mila persone, di cui quasi 100mila a Milano.
Dopo Milano, la provincia più attiva nella filiera moda è Brescia, che conta oltre 4mila imprese; seguono Varese e Bergamo con oltre 3mila, Como con quasi 3mila, per un totale di oltre 20mila addetti. Nonostante i numeri incoraggianti, la Camera di commercio rileva come rispetto al 2013 sono in calo le imprese della filiera moda in Lombardia, passate da 34.868 a 34.525. Crescono, invece, a Milano: da 12.626 a 12.740.

Secondo i dati della Camera di commercio, sono a conduzione maschile due imprese su tre di produzione nel settore della filiera moda regionale (65%); sono di più a Varese, Milano, Bergamo e Brescia (dove sono sette gli uomini su dieci imprese), meno a Bergamo e Brescia (sei su dieci).

E la filiera moda regionale va forte anche nell’export: +5,3% in un anno per la moda lombarda. Tra le province che esportano più di 100 milioni di euro, nei primi nove mesi del 2014 crescono di più Como (+13%) e Mantova (+7%). Milano nella media lombarda (+5,4%). I maggiori esportatori lombardi sono a Milano (1,5 miliardi di moda esportata nei primi nove mesi del 2014), Como (380 milioni), Mantova (292 milioni), Bergamo, Varese e Brescia (intorno ai 200 milioni). Per un totale di 3,1 miliardi in nove mesi. Sono in forte crescita i mercati della Cina e di Hong Kong (+28%), ma anche quello degli Stati Uniti (+11%).

Il grande bluff delle liberalizzazioni

Quando se ne cominciò a parlare diversi anni fa, le liberalizzazioni sembravano la soluzione unica e irripetibile per fa risparmiare agli italiani carrettate di soldi e rendere finalmente felici le associazioni dei consumatori, da sempre impegnate a combattere monopoli e oligopoli che andavano a danno dei cittadini.

Invece, pare che nei i settori interessati dall’apertura alla concorrenza avvenuta con le liberalizzazioni, negli ultimi 20 anni si sia mosso assai poco, a eccezione di medicinali e telefonia. Anzi, nonostante le liberalizzazioni, i prezzi e le tariffe sono aumentati più dell’inflazione, con il risultato che i consumatori ci hanno rimesso un’altra volta

È quanto emerge da un’analisi dell’Ufficio studi della Cgia, che hanno messo i fila i settori nei quali, dal 1994 a oggi, si sono registrati gli aumenti tariffari più eclatanti, nonostante l’apertura del mercato con le liberalizzazioni. Al primo posto ci sono le assicurazioni sui mezzi di trasporto, le cui tariffe sono aumentate del 189,3%, contro una crescita dell’inflazione del 50,1%.

Seguono i servizi bancari e finanziari, con una crescita del 115,6% (inflazione +50,1%). Al terzo posto i trasporti aerei, +71,7% dal 1997 a oggi (inflazione +41,5%). Tocca poi ai pedaggi autostradali, liberalizzati dal 1999 (+69,9%, inflazione +36,5%), al trasporto ferroviario dal 2000 (+58,3%, inflazione +33,1%), al gas dal 2003 (+43,2%, inflazione +23,1%), alle poste dal 1999 (+40,4%, inflazione +36,5%), ai trasporti urbani dal 2009 (+27,3%, inflazione +9%) ed elettricità dal 2007 (+21%, inflazione +13,6%)

In controtendenza e favoriti dalle liberalizzazioni solo la telefonia (23%, inflazione +38,8%), e i medicinali (-12,1%, inflazione +50,1%). Saldi, quindi, ancora negativi.

Per onestà di ricerca, l’Ufficio Studi della Cgia ha anche precisato che l’andamento delle tariffe di energia e trasporti è stato in parte condizionato dai costi delle materie prime e da aggravi fiscali di cui non è stato possibile tenere conto nell’analisi sugli effetti delle liberalizzazioni.

I rincari avvenuti nel settore del gas – dice il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi hanno sicuramente risentito del costo della materia prima, mentre l’energia elettrica è stata influenzata dall’andamento delle quotazioni petrolifere e dall’aumento degli oneri generali di sistema, in particolare per la copertura degli schemi di incentivazione delle fonti rinnovabili. I trasporti urbani, invece, hanno subito gli aumenti del costo del carburante e quello del lavoro. Non va dimenticato che molti rincari sono stati condizionati anche, e qualche volta soprattutto, dall’ aggravio fiscale. Tuttavia, nonostante le liberalizzazioni avvenute negli ultimi decenni abbiano interessato gran parte di questi settori, i risultati ottenuti sono stati deludenti. In linea di massima, oggi siamo chiamati a pagare di più, ma la qualità dei servizi resi non ha subito miglioramenti sensibili, anzi in molti casi è addirittura peggiorata”.