Saldi estivi avanti piano

Il bello dei saldi, siano essi estivi o invernali, è che viene data al primo giorno una smisurata importanza riguardo alla sua capacità di determinare l’andamento dell’intera stagione, o quasi. Nel caso del primo giorno di saldi estivi 2016, però, questi dati previsionali sono tutto sommato poco significativi poiché, secondo una prima rilevazione condotta da Confesercenti, l’andamento è grosso modo in linea con quello del 2015.

Secondo una nota di Confesercenti, “a pesare durante la mattina è stato soprattutto il caldo soffocante registrato in molte città e il conseguente esodo verso il mare. Chi tra i clienti italiani ha sfidato la calura, ha cercato soprattutto capi leggeri: maglie, magliette e pantaloni, ma sempre con un occhio al prezzo”. Nessuna novità anche da parte dell’approccio ai saldi da parte dei turisti stranieri, i quali “sono andati come sempre alla ricerca di abbigliamento e accessori made in Italy, premiando la qualità dei prodotti e facendo meno caso al prezzo sul cartellino”.

Venendo ai numeri dei saldi, sempre secondo Confesercenti “per chi ha scelto di fare acquisti nel giorno dell’avvio, la tendenza è stata quella di mirare ai capi con alte percentuali di sconto, a partire dal 30%”.

Ma quanti sono coloro i quali hanno dato l’assalto ai saldi sin dalle prime ore? Confesercenti li stima in oltre 22 milioni, con una spesa media prevista di circa 220 euro a famiglia, in linea con lo scorso anno. A questi 22 milioni bisogna però aggiungerne altri 15 milioni che ancora non hanno deciso se acquistare con i saldi, mentre il 35% di chi comprerà, ancora non si è dato un budget.

Intanto, arrivano i primi dati dalla capitale italiana dello shopping e dei saldi, Milano. Secondo le prime rilevazioni raccolte da FederModaMilano, il primo giorno si saldi ha fatto registrare un + 1% rispetto a un anno prima, con un andamento stabile o leggermente positivo per il 64% degli operatori. Lo scontrino medio si è attestato a 83 euro.

Una prima giornata spezzata anche dal maltempo e con risultati altalenanti, ma il segnale è moderatamente positivo anche in considerazione del raffronto con lo scorso anno in pieno periodo di Expo. Ribadiamo la nostra fiducia: i consumatori hanno ottime opportunità d’acquisto con questi saldi estivi”, ha commentato Renato Borghi, presidente di FederModaMilano.

Qualche indicazione positiva dalla prima giornata di saldi è emersa anche da punti vendita non in centro o nei maggiori assi commerciali, mentre si è registrato, invece, un andamento meno soddisfacente nei negozi dei centri commerciali.

Brexit, è ora di comprar casa a Londra

Quanti sostengono che la Brexit non avrebbe alcun impatto immediato sulla vita quotidiana di britannici ed europei, forse non hanno una casa a Londra né hanno intenzione di comprarla. Secondo il Centro Studi di Casa.it, infatti, dopo la Brexit a Londra i valori delle trattative immobiliari sono calati del 5,5%, mentre la domanda è diminuita del 19% in 4 giorni. Anche il mercato degli immobili di pregio ha subito un rallentamento, soprattutto nelle zone top come il quartiere di Kensington e l’area di Notting Hill. Boom delle richieste di case in Scozia (+150%) da parte di famiglie del Regno Unito.

Secondo Alessandro Ghisolfi, responsabile del Centro Studi di Casa.it, “lo spettro di una ‘Bolla Brexit’ sul mercato residenziale londinese viene considerata più che probabile dalla maggioranza degli operatori locali, soprattutto per quanto concerne il segmento top del mercato. Sebbene nell’ultimo trimestre i valori di vendita delle case a Londra abbiano registrato una nuova crescita del 9,8%, la Brexit, nel giro di poche ore, ha fatto scendere i valori delle trattative di 5,5 punti percentuali. Oggi le case di Londra valgono in media 33mila euro in meno rispetto ai prezzi record registrati 7 mesi fa, il costo medio di un appartamento è valutato intorno ai 590mila euro”.

Un calo a cui è seguita anche la frenata della domanda: “I dati registrati sui principali portali immobiliari inglesi – prosegue Ghisolfi – dicono che le richieste per le case a Londra sono calate del 19% in 4 giorni, mentre la domanda di chi cerca casa in Scozia, proveniente dalle famiglie del Regno Unito, è curiosamente cresciuta del 150% in soli 5 giorni”.

La Brexit ha portato una ventata gelida anche sul mercato degli immobili di pregio londinesi, soprattutto sul fronte della domanda interna, che si spera possa essere compensata da una crescita della domanda estera, in particolare da Asia e Usa.

Gli ultimi dati registrano una caduta della domanda per le zone top di Londra del 2,5% nell’ultimo trimestre, rispetto al trimestre precedente – sottolinea ancora Ghisolfi -; un dato negativo che non si registrava da oltre un anno e mezzo e che contrasta con il dato annuale, giugno su giugno, che registra una crescita dell’8,2%. In particolare le aree urbane più prestigiose del West End sono state quelle più colpite dalla Brexit: il quartiere di Kensington nel secondo trimestre ha registrato un calo della domanda dell’11,8%, seguito da un -10,7% per l’area di Notting Hill”.

Secondo Ghisolfi, infine, i più colpiti dall’esito del referendum sulla Brexitsono sicuramente gli azionisti delle società di sviluppo che stanno operando sul mercato londinese. Le loro azioni hanno già subito delle riduzioni di valore superiori al 25% un’ora dopo l’apertura dei mercati il 24 giugno, a urne chiuse e risultati acquisiti”.

Il rito pagano dei saldi

Il rito pagano dei saldi si ripete anche in questa estate segnata da stragi islamiste contro gli italiani e da brucianti sconfitte sui campi di calcio. Nulla che possa fermare la gente a caccia di sconti e di occasioni, anche se per questa stagione di saldi estivi le previsioni sotto tutte sotto il segno della prudenza, positiva ma prudenza. Previsioni aiutate anche dalla scelta della data unica per l’inizio dei saldi: il 2 luglio, a parte la Sicilia che ha iniziato l’1.

Una strategia, quella della data unica, che viene così giustificata da Roberto Manzoni, presidente di Fismo Confesercenti: “Quest’anno abbiamo raggiunto un accordo politico presso il tavolo di coordinamento interregionale del commercio per fissare la partenza dei saldi estivi in contemporanea praticamente sul tutto il territorio nazionale – ha affermato -. Riteniamo infatti che la data unica di avvio sia positiva per il commercio: impedisce fenomeni di ‘dumping, tra le regioni, garantendo così l’equilibrio concorrenziale e tutelando allo stesso modo piccole e grandi imprese”.

Il fatto di aver concordato una data unica va, secondo Manzoni, anche a beneficio di chi acquista, poiché “offre anche una maggiore chiarezza ai consumatori, mettendoli nelle condizioni migliori per usufruire di questo importante appuntamento commerciale. Proprio nell’ottica di una maggiore tutela di imprese e consumatori, con Federconsumatori attiveremo presto un Osservatorio dedicato ai saldi per verificare la regolarità dell’avvio e dello svolgimento delle vendite di fine stagione”.

Si diceva, all’inizio, delle stime prudenziali. “I prossimi saldi – sostiene Manzonisaranno un banco di prova per confermare la ripartenza dei consumi di moda (+1,4%) registrata nel 2015 e che nel 2016 sembra aver perso velocità. Ma l’esigenza è di accelerare, perché la strada da fare è ancora tanta: dal 2012 la spesa delle famiglie italiane in abbigliamento e calzature è calata di oltre 5,7 miliardi, a questi ritmi ci vorranno ancora anni per tornare ai livelli pre-crisi”.

A differenza della data d’inizio, la data di fine dei saldi cambierà da regione a regione. Finiranno prima in Liguria a Ferragosto, chiuderanno il 30 settembre in Valle d’Aosta e in Friuli Venezia Giulia. In mezzo la Lombardia (30 agosto), il Lazio (seconda metà di agosto) e la Sicilia (15 settembre).

Anche le associazioni dei consumatori sono prudenti sui volumi d’affari previsti per i saldi. Secondo il Codacons, le vendite saranno stabili rispetto al 2015, anche se l’andamento degli sconti, non sarà omogeneo in tutta Italia, con notevoli differenze in base alla tipologia di esercizio commerciale.

Sulla stessa linea le previsioni di Federconsumatori: solo una famiglia su tre sceglierà di acquistare con i saldi, spendendo in media 116 euro, per un giro d’affari che non toccherà il miliardo di euro. Stime che in parte collimano con quelle di alcune associazioni territoriali come Confcommercio Toscana (da 80 a 140 euro) e Confcommercio Veneto (da 70 a 140 euro).

Fiere italiane in salute

Le fiere italiane se la passano tutto sommato bene. La 28esima rilevazione trimestrale sulle tendenze del settore fieristico, condotta dall’Osservatorio congiunturale di AEFI per il periodo gennaio-marzo 2016, indica infatti un quadro in generale stazionario.

L’indagine, che ha coinvolto 25 poli fieristici italiani associati AEFI, evidenzia – attraverso i saldi positivi e negativi definiti in base alle risposte degli associati che hanno partecipato all’analisi – un trend positivo per tutti gli indicatori considerati, salvo che per il numero di manifestazioni e fiere.

Infatti, seppur la maggioranza dei quartieri coinvolti nell’indagine (52%) abbia registrato una situazione di stabilità, per la prima volta il saldo – risultato della differenza tra coloro che prevedono un aumento e coloro che una diminuzione – è negativo (-16%). Questo dato sulle fiere è anche conseguenza del fatto che diverse manifestazioni si sono concentrate nel 2015 per cogliere gli effetti di Expo. Si conferma inoltre stabile, con un saldo nullo, l’andamento degli espositori, con una lieve crescita (+ 4%) degli italiani e degli europei.

La superficie espositiva occupata dalle fiere registra un leggero aumento, mentre sono incoraggianti le performance relative ai flussi di visitatori: in aumento per il 48% degli associati coinvolti nell’indagine, invariato per il 28% e diminuito per il 24%. Il saldo, pari al +24%, rimane ampiamente positivo anche se meno brillante sia rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, sia a fine anno.

Lo spaccato della provenienza dei visitatori nelle fiere indica una crescita più significativa degli italiani, +20%, seguiti dagli europei (+12%) e da quelli provenienti dai Paesi extra Ue, che registrano un saldo positivo del +8%.

Infine, a sottolineare la fase di assestamento della ripresa, anche l’andamento del fatturato delle fiere risulta stabile. Le aspettative per i prossimi mesi, in questo quadro generale, continuano dunque a essere positive per tutti gli indicatori considerati.

Coldiretti e la difesa dell’identità alimentare italiana

Quella appena iniziata sarà un’estate all’insegna del made in Italy agroalimentare. È quanto sostengono i giovani di Coldiretti, analizzando un’indagine Ixè dalla quale emerge che il 78% degli italiani in vacanza, quando mangia fuori, ricerca la cucina tipica del luogo in cui si trova.

I giovani di Coldiretti partono da questo dato per commentare il decreto legislativo che contiene una importante norma secondo la quale i comuni, sentite le Regioni, avranno la facoltà individuare al proprio interno zone di particolare valore storico, artistico, archeologico e paesaggistico, dove vietare o limitare l’esercizio di attività commerciali che non siano non compatibili con le esigenze di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale locale.

Il decreto, che sarà trasmesso al Parlamento di fatto vorrebbe tutelare la presenza nei centri storici italiani di locali che servono cibo tipico, sempre più a rischio di sparizione, soppiantati dai locali di cucina etnica che, nonostante il positivo messaggio multiculturale che portano, c’entrano nulla con le tradizioni autoctone dei centri italiani, grandi o piccoli che siano.

Per il baccalà fritto a Roma, l’intruglio della Versilia o il panino e milza a Palermo i turisti sono ormai costretti a cercare su internet o nelle guide. I turisti italiani e stranieri, quando arrivano nelle città, si aspettano di mangiare prodotti della tradizione locale che sono la vera forza della vacanza made in Italy, conquistata con la distintività, la biodiversità e il legame con il territorio”, sostengono i giovani di Coldiretti.

Come è già stato proposto in alcune realtà – ricorda infine il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo -, l’introduzione di un regolamento che obblighi le future attività a proporre prodotti locali significa imprimere un impulso economico ai sistemi agroalimentari locali, ma anche qualificare l’offerta delle città minacciata dalla banalizzazione e dall’omologazione”.

Dal canto suo, conclude Moncalvo, Coldiretti offre “la massima disponibilità a collaborare con le Amministrazioni mettendo a disposizione imprese e prodotti grazie alla Fondazione Campagna Amica che è la più vasta rete di vendita diretta organizzata dagli agricoltori a livello mondiale”.

Nuovi chiarimenti sul canone Rai in bolletta

La follia del canone Rai in bolletta sembra non avere mai fine. Approvata la furbata pur tra mille distinguo e ricorsi, ora l’Agenzia delle Entrate ha dovuto emanare l’ennesima circolare per chiarire diversi punti collegati all’assurda misura.

Ricordiamo che la Legge di Stabilità 2016 ha stabilito in 100 euro annuali l’importo del canone Rai, da addebitare in dieci rate mensili sulle fatture per la fornitura di energia elettrica (con scadenza di pagamento successiva a quella della rata) degli utenti che non hanno dichiarato di possedere i requisiti per non pagare il balzello. Infatti, la norma totalmente presuntiva associa a un’utenza per la fornitura di energia elettrica il possesso di un televisore.

A fronte dei continui distinguo sollevati nei confronti dell’iniqua misura, le Entrate, relativamente al canone Rai in bolletta, hanno chiarito che:

  • le utenze elettriche su cui addebitare il canone Rai sono quelle indicate con le sigle D1, D2 e D3. L’utente può verificare se la propria utenza ha queste caratteristiche controllando se ricade nella categoria “clienti residenti”, ossia clienti domestici ai quali sono applicate le tipologie tariffarie D1, D2 o D3 relativamente ai contratti conclusi dal 2016, per i quali l’utente ha dichiarato all’impresa elettrica la propria residenza nel luogo di fornitura; oppure se ricade nella categoria “altri clienti domestici”, ossia clienti ai quali è applicata la tipologia D3 per contratti conclusi fino al 2015, la cui coincidenza tra luogo di fornitura dell’energia e residenza non è stata dichiarata dai clienti stessi ma è stata individuata dall’Anagrafe tributaria sulla base delle informazioni disponibili nel proprio sistema informativo;
  • la composizione dell’importo di 100 euro annui è la seguente: 92,18 euro di canone, 3,69 euro di Iva, 4,13 euro di tassa di concessione governativa. Gli importi dei versamenti semestrali e trimestrali, al netto di tasse e imposte, sono rispettivamente di 47,03 euro e 24,46 euro.

Questi i chiarimenti più significativi offerti dalle Entrate sul canone Rai in bolletta. Nella circolare sono affrontati anche i punti relativi al possesso di più utenze residenziali da parte dello stesso soggetto e dalle procedure da utilizzare per il calcolo del canone in caso di disattivazione e successiva riattivazione della fornitura elettrica durante l’anno.

Clicca qui per scaricare il testo della circolare delle Entrate sul canone Rai in bolletta.

Pressione fiscale sempre più su

Ci risiamo. Ogni volta che escono i dati sulla pressione fiscale in Italia, è un pianto greco per tutti. Questa volta i numeri sono quelli elaborati dal Centro studi di Unimpresa nel rapporto “Pressione fiscale e conti pubblici nel confronto internazionale”, che certificano ancora una volta come il nostro Paese abbia in record europeo di tasse e una pressione fiscale tra le più elevate dei Paesi industrializzati.

Unimpresa rileva infatti che la pressione fiscale è salita dal 39% del 2005 al 43,5% del Pil nel 2015. Questo il dato assoluto, ancora più impietoso se comparato a quello degli altri Paesi avanzati. La pressione fiscale media nell’area Euro, nello stesso periodo è passata dal 39,4% al 41% del Pil, in Germania dal 38,4% al 39,6%, nel Regno Unito dal 35,7% al 34,8%, negli Usa dal 26,3% al 26,4%.

E il dato italiano rilevato da Unimpresa non tiene conto dell’incidenza del sommerso, che nel nostro Paese è fortissima e fa lievitare la pressione fiscale reale di alcuni punti percentuali.

Ciò che più rammarica, però, è il fatto che alla crescita delle entrate, nel decennio preso in esame non ha fatto seguito un miglioramento del debito pubblico. Se, infatti, la pressione fiscale era al 39,1% del Pil nel 2005 ed è salita fino 43,5% nel 2015, sono cresciute contemporaneamente le entrate per l’erario (dal 42,5% del Pil al 47,6%) ma lo stesso ha fatto il debito pubblico, anzi, peggio: dal 101,9% del 2005 al 132,7% del 2015.

Anche in questo caso, sul fronte del rapporto debito-Pil, siamo messi peggio degli altri. Nella media dell’area euro, Italia esclusa, nel 2015 questo rapporto si è attestato all’83,3%, a fronte di una pressione fiscale del 41% e di entrate pubbliche al 46,3%; nel Regno Unito le tasse erano al 34,8%, le entrate al 38,8% e il debito pubblico all’89,2%; negli Usa, 26,4% di tasse (dato però riferito al 2014), 33,1% di entrate (sempre 2014) e 111,7% di debito (nel 2015); in Germania tasse al 39,6% del Pil, entrate al 44,6% e debito al 71,2%; in Francia tasse al 47,8%, entrate al 53,2%, debito al 95,8%.

Inoltre, secondo lo studio di Unimpresa, la pressione fiscale in Italia colpisce a tutti i livelli: abbiamo la percentuale più alta per le imposte sui consumi (Iva, aliquota massima al 22%), per le imposte personali sul reddito (Irpef, aliquota massima al 48,9%), per le imposte sul reddito delle società (Ires, aliquota massima al 31,4%).

Amaro il commento di Claudio Pucci, vicepresidente di Unimpresa con delega al fisco e ai bilanci: “La pressione fiscale è il principale ostacolo alla crescita economica del nostro Paese. Un primo passo è stato attuato con le modifiche introdotte dal governo attualmente in carica, che ha abolito l’Irap sul costo del lavoro. Tuttavia, continua a permanere l’incidenza di una imposta che non ha nessuna ragione di esistere, se non quella di fare cassa”.

Pec e professionisti, dal Senato una risposta all’interrogazione

E’ giunta, in Commissione Finanze e Tesoro del Senato, la risposta del Mise all’interrogazione presentata dal Sen. Federico Fornaro sulla problematica dell’inserimento degli indirizzi pec dei professionisti di cui alla Legge n.4/2013.

L’interrogazione, presentata su sollecitazione dell’Istituto Nazionale Tributaristi, chiedeva l’intervento dei ministeri competenti per risolvere una carenza normativa relativa all’indice nazionale INI – PEC, che contiene gli indirizzi di imprese e professionisti di area ordinistica, ma non quelli dei professionisti di area associativa.

Il Mise il 28 giugno scorso presentava, per voce del Sottosegretario allo Sviluppo Economico Antonio Gentile, la risposta che, effettuati una serie di rilievi circa la non obbligatorietà per i professionisti associativi di avere un indirizzo pec e specificando che servirà un intervento normativo, così conclude: “… il ministero dello Sviluppo Economico approfondirà gli aspetti segnalati e gli ulteriori che potrebbero rilevarsi, coinvolgendo in tal senso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il ministero della Giustizia e soprattutto l’AgID, quali attori principali sull’argomento”.

Il senatore Fornaro, il quale si è dichiarato parzialmente soddisfatto, ha auspicato che il Governo si attivi al fine di superare gli ostacoli normativi la cui sussistenza è stata riconosciuta dal Sottosegretario Gentile.

Una risposta a luci ed ombre, sottolinea il Presidente dell’Istituto Nazionale Tributaristi (INT) Riccardo Alemanno, che già dal 2013 ha più volte sottoposto la problematica ai titolari del Mise che si sono succeduti in questi anni – segnalazione già inviata anche al ministro Calenda -. Ha infatti dichiarato Alemanno: “Ringrazio il Sen. Fornaro per l’impegno e per avere ben compreso il problema ed il Mise per la celerità di risposta, prendo atto della volontà del ministero di volere approfondire la problematica e a tal proposito ho richiesto un incontro al Sottosegretario Gentile per potere ripresentare tutte le nostre proposte di possibile modifica legislativa. Rimango però perplesso sul fatto che l’utilizzo di uno strumento come la pec sia legato a degli obblighi e non a delle opportunità. Ritengo che l’implementazione dell’indice INI – PEC, oltre ad essere utile per la Pubblica Amministrazione (in termini di tempo e costi) e necessaria per i professionisti di area associativa (i tributaristi hanno subito disagi a causa di ciò nell’ambito della loro attività professionale di intermediari fiscali), rappresenti un passo in avanti circa la modernizzazione dei sistemi di comunicazione tra cittadini e P.A.; pertanto deve essere incentivata e la normativa resa meno rigida. Quindi ribadisco come sia molto importante che il dicastero competente abbia dichiarato l’interesse ad approfondire la problematica”.

Ora il Presidente dell’INT, anche nella sua veste di Vice Presidente vicario di Confassociazioni, seguirà con ancora maggiore attenzione l’evoluzione della vicenda al fine di tenere alto l’interesse delle istituzioni.