La manovra di primavera è diventata legge e, tra le altre cose, prevede l’avvio della sterilizzazione delle clausole di salvaguardia relative alle aliquote dell’Iva e delle accise.
Nel dettaglio, per il 2018 viene attuata una correzione di 3.829 milioni di euro, per il 2019 di 4.363 milioni, per il 2020 di 4.088 milioni e per il 2021 di 3.679 milioni; mediamente l’intervento nel quadriennio ha disattivato il 17,9% degli aumenti previsti.
Nonostante questo intervento piuttosto drastico, rimane ancora elevato l’aggiustamento di bilancio affidato ad un aumento dell’Iva e delle accise, con maggiori entrate per 15.743 milioni di euro nel 2018 e di 18.887 per il 2019.
Le clausole di salvaguardia, lo ricordiamo, si attivano nel caso in cui la manovra di bilancio non reperisca risorse alternative in termini di minori spese, maggiori entrate ovvero con un incremento del disavanzo ottenibile con una maggiore flessibilità di bilancio.
Dopo le modifiche introdotte con il DL 50/2017, nel 2018 l’aliquota Iva del 10% salirebbe all’11,5% determinando maggiori entrate per 3.479 milioni di euro e l’aliquota Iva del 22% salirebbe al 25% con maggiori entrate per ulteriori 12.264 milioni.
Nel 2019 si registrerebbe un aumento dell’Iva ordinaria dal 25% al 25,4% con maggiori entrate per 13.899 milioni ed un aumento delle accise di 350 milioni.
Per disattivare queste clausole, dunque, serve prima di tutto una maggiore flessibilità di bilancio, serve un intervento sulla spesa pubblica, sia in termini di quantità che qualità e in tal senso la politica fiscale italiana presenta ancora margini di azione.
La manovra di primavera che ha corretto il bilancio 2018 per 3,1 miliardi di euro è per il 94,2% centrata su maggiori entrate mentre le minori spese influiscono per un limitato 5,8%. La stessa Legge di bilancio 2017 ha aumentato la spesa corrente di 5,4 miliardi di euro.
Nonostante gli importanti risultati della spending review, la spesa corrente primaria (al netto degli interessi) nel 2017 cresce dell’1,5% rispetto ad un anno prima, ma vi sono spazi concreti per ridurre le uscite delle PA.
La distribuzione della spesa evidenzia squilibri relativi alle infrastrutture e alla qualità dell’offerta dei servizi pubblici. In Italia la spesa corrente primaria è 19,8 volte la spesa per investimenti, rapporto ben più elevato del 16,0 registrato nella media Uem. Inoltre nonostante la spesa corrente primaria in Italia sia superiore di 1,4 punti alla media europea, solo il 23% dei cittadini italiani giudica buona la fornitura di servizi pubblici nel proprio paese, meno della metà del 52% della media europea che colloca l’Italia al 27° posto nella classifica europea in davanti solo alla Grecia.
Vera MORETTI
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