L’Agenzia delle Entrate ha ritenuto opportuno chiarire alcuni dubbi circa il tema della convivenza di fatto e l’impresa familiare.
A questo proposito, è stato detto che il reddito spettante al convivente di fatto derivante dalla partecipazione agli utili dell’impresa è tassato in proporzione alla quota di partecipazione, anche se si configura un rapporto che comporta lo status di familiare.
Il problema era sorto poiché la legge prevede una differenziazione fra unione civile e coppia di fatto per quanto riguarda le normative sulla partecipazione agli utili dell’impresa familiare, con conseguenze sul corretto regime di tassazione applicabile. Nel caso dell’unione civile, la legge estende ai partner le disposizioni che si riferiscono al matrimonio. Quindi, il partner in unione civile è a tutti gli effetti equiparato al coniuge, ed è di conseguenza un parente.
Per quanto riguarda i diritti del convivente che entra nell’impresa familiare come socio, invece, sono regolamentati introducendo nel codice civile l’articolo 230-ter, in base al quale “al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente” è riconosciuto “il diritto di partecipazione agli utili dell’impresa familiare e ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato”.
Il diritto di partecipazione non spetta nel caso in cui tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato.
Il regime tributario applicabile all’impresa familiare è invece regolato dal comma 4 dell’articolo 5 del Tuir, il testo unico imposte sui redditi, in base al quale il 49% dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore va riferito, proporzionalmente alle quote di partecipazione agli utili, a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa.
Per questa tassazione proporzionale delle quote i soggetti devono avere lo status di familiare, che si riferisce a coniuge, parenti entro il terzo grado, affini entro il secondo grado. E non c’è alcun riferimento diretto all’articolo 230-ter del codice civile, che riguarda appunto i conviventi di fatto.
Vera MORETTI
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