Ma la politica s’è accorta della svolta epocale decisa da Marchionne?

di Gianni GAMBAROTTA

Mentre i palazzi della politica sono tutti impegnati a contare voti e a immaginare coalizioni governative, maggioranze improbabili, o ricorsi al popolo sovrano, fuori da queste segrete stanze succedono cose davvero importanti che lasceranno un segno nella storia del Paese. Il manager con il maglione, l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne, ha deciso che d’ora in poi la prima fabbrica italiana farà a meno della Confindustria. Tratterà i suoi rinnovi contrattuali in assoluta indipendenza, concluderà gli accordi con i sindacati che vorranno sottoscriverli e andrà avanti così, incurante di pressioni, suggerimenti alla prudenza, proteste di piazza.

Perché ha preso questa decisione, che del resto era nell’aria da settimane, è noto. La Fiat ha assunto il controllo della Chrysler, è diventata davvero una multinazionale impegnata su tutti i mercati mondiali. E da azienda globale qual è adesso, deve seguire le regole che si applicano appunto a livello globale. Se non fa così, non può sperare di sopravvivere alla competizione internazionale ogni giorno più dura. Che cosa vuol dire questo? Quale novità reale, sostanziale porta il nuovo corso di Marchionne?

L’Italia, dalla fine della guerra e in maniera più accentuata dall’autunno caldo del 1969 in poi, è stata pesantemente condizionata dalla presenza sindacale. Per 60 anni, la cosiddetta Triplice (Cgil, Cisl, Uil) ha avuto un potere decisivo non solo su temi retributivi e normativi relativi al mondo del lavoro, ma su tutti gli aspetti della politica che, direttamente o indirettamente, toccavano l’economia. Non c’è stata decisione che non sia stata affrontata al cosiddetto tavolo delle parti sociali, vale a dire governo, sindacati e organizzazione degli imprenditori (Confindustria).

Questo ha portato a una lentezza del processo decisionale che non ha confronti nei moderni Paesi industrializzati. Ha creato inefficienza. Ma fosse stato solo questo: ha creato una situazione che, nel tempo, ha palesato un contenuto di profonda ingiustizia politica e sociale. Con un simile sistema si è dato vita a un Paese diviso a metà: una parte più privilegiata fatta da imprese e lavoratori rappresentati sindacalmente, più protetta, più forte, con più diritti; l’altra, formata da tutti quelli che non appartengono alle suddette categorie e assai più numerosa, esclusa da privilegi e aiuti, ridotta al rango di Serie B.

La scelta di Marchionne, che ha deciso che disegnerà le future strategie Fiat senza passare sotto le force caudine della potentissima Fiom-Cgil e risparmiandosi le liturgie confindustriali, manda in pensione due elementi che sono stati determinanti nel sistema di potere nazionale. Se ne stanno accorgendo i signori del Palazzo? Riescono a vedere che fuori dall’emiciclo di Montecitorio e lontano dai riflettori dei talk show televisivi tanto amati, il Paese sta andando avanti per la sua strada? E che fa scelte storiche senza neppure interpellare la politica?

Consolidare il debito pubblico? Caro Della Vedova, pesa bene le tue parole…

di Gianni GAMBAROTTA

Futuro e Libertà, il movimento che fa capo al presidente della Camera, Gianfranco Fini, annovera nelle sue schiere molti esponenti che in queste settimane hanno goduto di grande attenzione mediatica. E non potrebbe essere diversamente, visto che da loro dipende il futuro del governo: è ovvio che giornali e tv seguano con interesse le loro dichiarazioni, le loro prese di posizione. Fra questi esponenti politici ce n’è uno che conta in modo particolare, tanto da essere considerato il braccio destro di Fini, ascoltato dal capo su tutti gli argomenti, in particolare su quelli che hanno attinenza con l’economia.

Si tratta di Benedetto Della Vedova, ex militante del Partito Radicale, politico raffinato ed esperto che, qualche giorno fa, parlando in uno dei tanti talk show televisivi ha affrontato il tema spinoso del debito pubblico, un macigno che grava sull’Italia da anni e finisce persino per condizionarne la sovranità. Della Vedova ha detto, senza scomporsi, che la soluzione è molto semplice: l’Italia dovrebbe fare come ha fatto tempo fa l’Argentina, che ha consolidato il debito. Che significa? Questo: che non lo ha restituito alla scadenze previste, ma lo ha dilazionato. Della Vedova ha detto che questa è una ricetta validissima: per esempio i titoli di Stato in scadenza fra cinque anni, si potrebbero rimborsare fra 50 anni. Così si sposta il problema e, anzi, lo si annulla perché in mezzo secolo l’inflazione si occuperà di azzerare (o quasi) il valore reale di quel debito.

Ora ci si domanda: ma com’è possibile che un leader politico faccia affermazioni di questo genere? Non sa Della Vedova che il Tesoro italiano nel 2011 dovrà collocare sui mercati titoli per 200 miliardi di euro? Stiamo parlando di un quarto di tutto il debito pubblico che sarà emesso in Europa nei prossimi 12 mesi. Per convincere gli investitori a sottoscriverlo, il Tesoro dovrà già pagare interessi più alti rispetto alla Germania e avrà bisogno di trovare sui mercati un clima di fiducia nei confronti dell’Italia. Clima che, come tutti sanno, non c’è. Anzi, c’è diffidenza, timore che la crisi finanziaria, dopo aver colpito Grecia e Irlanda e minacciato seriamente il Portogallo, punti direttamente verso di noi dato il caos politico che regna dalle nostre parti. E a questi mercati, Della Vedova, sostanzialmente dice che il nostro governo, a suo avviso, in futuro non dovrebbe onorare gli impegni.

C’è da sperare che il Financial Times e gli altri media sempre molto critici con l’Italia, ma seguitissimi dalla business community, non si siano accorti delle dichiarazioni di Della Vedova, o che non le abbiano ritenute degne di attenzione. E c’è da augurarsi che il prossimo governo (qualunque sia) sia formato da persone che pesino bene le parole quando toccano argomenti delicati come il debito sovrano.

Da WikiLeaks più che rivelazioni scottanti, la scoperta dell’acqua calda

di Gianni GAMBAROTTA

Il titolo più forte è stato quello, lunedì mattina, di Repubblica: “WikiLeaks, tempesta sul mondo”. Soltanto un po’ più debole della dichiarazione (apparsa ai più un po’ fuori misura) del ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, che aveva parlato di “un 11 settembre della diplomazia”. Comunque tutti i media hanno dato – ci mancherebbe altro – grande rilievo ai 250mila report messi on line dal sito di Julian Assange, che ha rivelato decenni di rapporti segreti (o per lo meno riservati) della diplomazia americana.

Le osservazioni da fare su quanto è successo sono essenzialmente due. La prima riguarda l’efficienza del sistema America. Come è possibile che quella che tuttora si considera (ed è considerata) la prima potenza del mondo sia attaccabile in una simile maniera da questo signore di 39 anni dall’aspetto un po’ stralunato che non si sa bene da dove venga? Come ha potuto avere tranquillamente accesso al sistema informatico del Dipartimento di Stato? Si dice: ha avuto l’appoggio di qualche insider contrario alla politica di Barack Obama, desideroso di screditarla. D’accordo. Ma questo qualcuno è stato libero di scorazzare per i computer del ministero degli Esteri statunitense mettendo in piazza la corrispondenza intercorsa per decenni (si parte dal 1966) con tutte le sue sedi diplomatiche in giro per il mondo. Questo è un colpo letale per la credibilità degli Stati Uniti, per la loro ambizione di restare il Paese leader del mondo. Da oggi la diplomazia americana è screditata. Pensiamo alle zone di tensione come l’Afghanistan o il Medio Oriente: con quale credibilità gli ambasciatori o emissari di vario tipo di Washington potranno interloquire con le diverse controparti? Chi li ascolterà e parlerà con loro sapendo che quanto viene detto potrà un domani essere comunicato ai quattro venti?

La seconda osservazione da fare è sul contenuto di questi 250mila file che giorno per giorno vengono messi sul sito. Potranno riservare rivelazioni eclatanti, certamente. Ma quello che si è visto finora, francamente, non è granché. E di nuovo getta un’ombra sull’efficienza della diplomazia americana. Ci vogliono davvero degli agenti segreti, degli specialisti per dire che Ahmadinejad è il nuovo Hitler? Che Sarkozy è arrogante e, in fondo, un pallone gonfiato? Che la Merkel è un po’ una signora tentenna? Che Berlusconi ha l’abitudine di passare serate in festini non proprio raccomandabili? Per avere queste informazioni, bastava leggere i giornali o abbonarsi a una rassegna stampa. Se questa è l’intelligence americana, si può fare un solo commento: Barack Obama deve tagliare le spese pubbliche per ridurre il deficit di bilancio. Potrebbe dare una bella sforbiciata anche qui.

Montezemolo, un politico vero che ancora non è sceso in politica

di Gianni GAMBAROTTA

Care Signore e Cari Signori delle Partite Iva, vi è piaciuto domenica sera Luca Cordero di Montezemolo?
Immagino che molti di voi si siano messi davanti alla tv a guardare il programma “Che tempo che fa” di Fabio Fazio che aveva come pezzo forte la partecipazione del presidente della Ferrari, ex  presidente della Fiat e della Confindustria. La sua apparizione era molto attesa: sono mesi (se non anni) che si parla di un’imminente discesa in campo di questo imprenditore-manager-comunicatore che non si accontenta più del lavoro (peraltro ricco di soddisfazioni) svolto finora, ma aspira a un ruolo di più ampio respiro, a qualcosa che ha a che fare direttamente con la politica. Ha creato una fondazione, Italia Futura, che usa come think tank per elaborare, studiare, dibattere; ma anche per rappresentare, per esprimere la sua opinione. E negli ultimi mesi l’ha usata come tribuna per criticare con grande severità il governo e la sua azione. Domenica, da Fazio, non ha cambiato i suoi toni. Il governo è stato liquidato così: “Siamo al cinepanettone. Stanno scorrendo i titoli di coda“.

Certo che lo spettacolo offerto dal governo non è entusiasmante: a parte tutte le vicende personali (il riferimento è ovviamente alle escort) quello che più conta – credo – per persone concrete, operative come il popolo delle Partite Iva sono i risultati, i bilanci. E in oltre due anni di vita, quanto portato a casa da questo governo non è entusiasmante. Ma ancora meno lo è lo spettacolo offerto dall’opposizione. Indecisa su tutto, capace solo di sventolare la bandiera dell’antiberlusconismo, non è stata in grado neppure di vincere le sue elezioni interne, come nel caso delle primarie del Pd a Milano.

Insomma, c’è da essere presi dallo sconforto di fronte a questo spettacolo complessivo della politica italiana. Per questo da parte di molti, soprattutto nel mondo produttivo che deve risolvere quotidianamente problemi concreti, c’è una grande curiosità verso un’offerta di politica nuova. E con questo atteggiamento di disponibilità, di interesse, penso che moltissimi abbiano seguito l’intervento di Montezemolo. Ma penso anche che abbiamo trovato nelle sue parole un tasso di novità inferiore alle aspettative. Abile e diplomatico, ha dato l’impressione di essere già un politico di professione, che non si sbilancia sul futuro, che non dice una parola che possa compromettere i rapporti con questa o quella parte, che sa navigare. In fondo non così diverso dai personaggi che compaiono quotidianamente nei telegiornali.

Forse anche voi, Signore e Signori delle Partite Iva, vi aspettavate qualcosa di più.

La crisi politica rischia di lasciare sole l’Italia e la sua economia

di Gianni GAMBAROTTA

I numeri sono quelli che sono. Lo spread fra il bund tedesco e i titoli di Stato italiani ha ormai superato i 2,4 punti. Peggio di noi sta la Spagna (ma di poco) e, in ordine crescente, il Portogallo, l’Irlanda e la Grecia. Il che vuol dire due cose. La prima: collocare sui mercati il debito pubblico italiano sarà sempre più difficile e costoso. E trattandosi di un debito di oltre 1800 miliardi di euro, si capisce che la vicenda è assai delicata. La seconda: la speculazione finanziaria internazionale, prima o poi, rischia di affacciarsi anche dalle nostre parti.

L’estate scorsa ha colpito la Grecia, provocando una crisi quasi fatale dell’euro. Ora si è concentrata sull’Irlanda, sta assaggiando il Portogallo e prende le misure anche alla Spagna. E soprattutto la speculazione sta a guardare quale sarà la reazione dell’Europa, se interverrà a difesa dei Paesi deboli o se lascerà che le cose vadano seguendo un corso naturale. Con particolare attenzione vengono seguite le mosse della Germania: le banche tedesche sono le più esposte verso l’Irlanda, così come lo erano con la Grecia. Comunque, in questa aria di crisi permanente e di potenziale caos monetario, l’Italia è tenuta sotto stretta vigilanza. Sia per l’enormità del suo debito (il terzo al mondo, ma l’Italia non è la terza economia mondiale), sia per la situazione politica in cui Roma è finita e che viene guardata con crescente sospetto dalla finanza internazionale.

Lo scenario non incoraggiante. È vero che i contendenti politici hanno trovato, per lo meno, l’accordo per far passare la Finanziaria. Ma poi? Molto probabilmente si andrà alle elezioni anticipate che si terranno a marzo-aprile. Quindi per quattro-cinque mesi il Paese affronterà una delle campagne elettorali più dure della sua storia recente e tutti saranno concentrati a vincere le elezioni, a qualsiasi costo. Nessuno darà un’occhiata a quello che succede nel mondo, sui mercati. E se la bufera monetaria aumenterà di intensità (evento per nulla improbabile) chi prenderà, assieme agli altri Paesi europei, delle misure per contrastarla? Un premier e un ministro dell’Economia dimissionari e impegnati (soprattutto il primo) in estenuanti comparsate tv, comizi, incontri per conquistare consensi e voti?

Così l’Italia e la sua economia saranno lasciate da sole, le decisioni che contano saranno prese altrove. Ci si sveglierà a marzo-aprile con un Parlamento nuovo, passerà ancora parecchio tempo per formare un governo. E poi ci si occuperà del debito, dell’aumento degli spread. Sperando non sia troppo tardi.

Instabilità politica e crisi, anche la Costituzione ha le sue responsabilità

di Gianni GAMBAROTTA

Forse questa crisi politica che si è aperta di fatto, anche se non ancora ufficialmente, con il discorso di Gianfranco Fini, è davvero diversa dalle altre. Questo interminabile braccio di ferro fra due dei fondatori del Popolo della Libertà, ha messo sotto gli occhi di tutti che c’è qualcosa di profondo, di storico, di radicato che non funziona nel sistema italiano. Per l’ennesima volta un governo cade (a quello attuale non è ancora successo, ma basterà aspettare e non a lungo) non perché l’opposizione lo abbia stretto in un angolo e obbligato a gettare la spugna, ma per la litigiosità interna alla maggioranza che lo sostiene.

Gli episodi del recente passato sono indicativi. Vi ricordate il primo governo di Silvio Berlusconi? Ottenne la fiducia il 10 maggio del 1994 e cadde il 17 gennaio del ‘95, quando il premier fu costretto a dimettersi per l’uscita della Lega dalla maggioranza. In tutto rimase in carica 252 giorni, neppure un anno. Oppure prendete il secondo governo formato da Romano Prodi, quello che batté Berlusconi alle elezioni politiche del 2006. Nato il 17 maggio di quell’anno, sorretto da una maggioranza composita formata da tanti partiti e partitini, non riuscì neppure a compiere i due anni e si dimise il 7 maggio 2007 perché la coalizione che avrebbe dovuto sostenerlo era in disaccordo su tutto.

Nella prima Repubblica questo copione si ripeteva con sistematicità. I governi, in media, duravano un anno e cadevano anche per motivi molto banali. Si pensava che il passaggio alle seconda Repubblica, l’avvio del bipolarismo avrebbe cambiato la situazione, portato a una maggiore governabilità. I due precedenti citati di Berlusconi e Prodi, e quanto sta avvenendo in questi giorni dimostrano che non è così.

L’Italia deve accettare l’idea che le servono riforme profonde se vuole raggiungere quel minimo di efficienza politica indispensabile per un Paese che aspira a essere moderno. Molti osservatori, giornalisti, editorialisti sostengono che quella italiana è una bellissima Costituzione, che va difesa, che non bisogna dare spazio a chi vuole modificarla. In parte è vero: la Costituzione nata nel 1948 introduce dei principi, dei valori che sono assolutamente positivi e vanno difesi. Ma è anche vero che ha disegnato un meccanismo di gestione del sistema politico che non funziona e difficilmente si metterà a funzionare in futuro. Già in passato si è accettato il principio che una riforma è indispensabile: la Bicamerale era stata concepita per questo, ma senza risultati. Oggi penso che quel cammino andrebbe ripreso.

Da Confindustria serve chiarezza per aiutare il Paese a uscire dalle secche

di Gianni GAMBAROTTA

“L’Italia è alla paralisi”, titolava in prima pagina ilSole24Ore di domenica scorsa, presentando l’intervento del presidente della Confindustria sul palco dei Giovani Industriali riuniti nel convegno di Capri. “C’è uno smarrimento forte nel Paese – ha detto Emma Marcegaglia, è necessario trovare il senso delle istituzioni e della dignità. Il parlamento non funziona più, manca ancora il presidente della Consob. Siamo alla paralisi“. E qual è la soluzione per uscire da “questa ondata di fango che investe le istituzioni“? Non le elezioni anticipate, perché “sarebbero sei mesi di campagna elettorale drammatica“. E allora? Qual è la strada virtuosa da imboccare per uscire da questo pantano, secondo il leader degli imprenditori nazionali? La Marcegaglia non lo dice perché non spetta alla Confindustriadire alla politica che cosa deve fare“, anche se – aggiunge – gli imprenditori non vedono di buon occhio “alchimie partitiche che discutano per mesi di legge elettorale“.

L’Italia ha un grave problema di leadership, la sua classe dirigente si sta dimostrando assolutamente inadeguata a fronteggiare i problemi di crescita che il Paese deve affrontare, come stanno facendo in partner europei; non sembra esserci nessuno, a destra come a sinistra, in grado di immaginare un futuro e farlo diventare un obiettivo condiviso da una parte determinante degli italiani. Il Paese è senza una guida e – fatto ancora più grave – questa situazione è chiaramente percepita.

In passato, a una simile carenza (perché non è la prima volta che si manifesta) il mondo produttivo sapeva offrire un’alternativa, una supplenza; riusciva a colmare un vuoto che veniva dalle stanze ufficiali del potere. Forse ciò non sempre è stato un bene, spesso ha anzi rappresentato un precedente che alla lunga si è rivelato scomodo. Però, nei momenti di impasse, arrivavano delle indicazioni di tendenza e di priorità che erano utili, nelle quali molti si riconoscevano.

Questo è proprio uno di quei frangenti in cui il Paese del fare dovrebbe lanciare quei segnali. Invece da viale dell’Astronomia, quartier generale degli industriali italiani, arrivano messaggi incerti, contraddittori. Emma Marcegaglia alterna momenti di affiancamento al governo (sono di pochi giorni fa le sue parole di apprezzamento per il ministro Giulio Tremonti e, in generale, per tutta la politica economica) ad attacchi aperti e severi come, appunto, quello di Capri. Sarebbe meglio una maggiore chiarezza, una scelta precisa: al Paese sarebbe utile sapere da che parte sta Confindustria che è – o almeno pretende di essere – una parte di spicco della sua classe dirigente.

Caro Fini, caro D’Alema: le rendite finanziarie non si toccano

Cari lettori, da oggi, 26 ottobre 2010, inizia a scrivere per Infoiva Gianni Gambarotta, firma di prestigio del giornalismo economico italiano. Nella sua rubrica Baracca&Burattini, Gambarotta commenterà ogni settimana i fatti grandi e piccoli dell’economia, italiana e non, con lo stile chiaro e diretto e con l’equilibrio che contraddistinguono un professionista di lungo corso quale è lui. Buona lettura. Il Direttore – Davide PASSONI

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di Gianni GAMBAROTTA

Gianfranco Fini e Massimo D’Alema hanno parlato insieme nel weekend scorso ad Asolo. Hanno detto molte cose, hanno scoperto di andare d’accordo su svariati temi. Bene, non voglio qui entrare nel merito di dibattiti politici. Non è quello che mi interessa in questa sede e in questo momento. Quello che mi ha colpito (e non solo me) negli interventi dei due leader è stata la loro perfetta intesa sul tema della tassazione delle rendite finanziarie: “Vanno raddoppiate, portate dall’attuale 12,5 per cento, al 25 per cento. Un’aliquota in linea con quelle in vigore nei maggiori Paesi europei nostri partner“.

Per me questa proposta che trova allineati Fini e D’Alema è sbagliata. Non parlo di giustizia sociale: da questo punto di vista in teoria potrebbe anche  starci. Parlo dell’efficacia economica di una misura certo non neutra come il raddoppio, di punto in bianco, del prelievo fiscale sul risparmio. È qui che le cose non funzionano.

L’Italia ha, fra i tanti, un problema: le decisioni economiche, nella loro grande maggioranza, transitano dai partiti. È la classe politica che decide dove indirizzare risorse, investimenti, finanziamenti. E lo fa seguendo i segnali di un radar che non cerca il successo e lo sviluppo del Paese nel suo complesso, ma capta soprattutto le convenienze elettorali. Gran parte della spesa, detto in parole molto povere, è un immenso, gigantesco voto di scambio che si ripete anno dopo anno. E questo succede con qualsiasi guida politica, chiunque sieda al volante, sia di centro-destra, sia di centro-sinistra.

Ora la pressione fiscale in Italia si aggira attorno al 46 per cento della ricchezza totale prodotta dal Paese. Questo significa che i partiti ogni anno intermediano, decidono che destinazione dare a quasi la metà del Pil. Un qualsiasi aumento della pressione fiscale non farebbe che aumentare questo stato di cose.

L’Italia non ha bisogno di questo. Anzi ha bisogno, e rapidamente, di imboccare esattamente la strada opposta. Quindi io credo che qualsiasi misura che miri ad aumentare anche di un solo euro quanto lo Stato prende dai cittadini è sbagliata e va evitata per ragioni di strategia politica del Paese.

E c’è un’altra osservazione da fare. Il risparmio è stato agevolato negli anni perché rappresenta uno dei pochi fattori positivi su cui l’Italia possa contare: il ministro Giulio Tremonti si è giocato, eccome, l’enorme patrimonio di risparmio privato nazionale quando si è trattato di rinegoziare in sede europea il patto di stabilità. Quindi bisognerebbe rifletterci bene prima di buttare tutto all’aria.