No mutuo? No riparti

Uno degli indicatori più significativi di quanto il settore dell’edilizia stia soffrendo la crisi nel nostro Paese è sicuramente quello legato alla richiesta di mutui e alla compravendita di immobili. I dati recentemente forniti dall’Istat non lasciano spazio alla poesia.

Facciamoci male, partiamo subito parlando di mutui. Nel secondo trimestre 2012, secondo l’Istituto nazionale di statistica, i mutui, i finanziamenti e le altre obbligazioni con costituzione di ipoteca immobiliare hanno fatto registrare una flessione tendenziale del 41,2%. Strage in tutte le macroaree del Paese: Nordovest -38,6%, Centro -36%, Sud -44,8%, Isole -58,3%. Cifre da far accapponare la pelle, cifre che dimostrano tre cose: le famiglie non ne hanno più, le banche sono sempre meno propense a prestare denaro, senza domanda l’offerta non c’è e chi la deve sviluppare, le imprese edili e le immobiliari, naufragano.

A picco anche le compravendite immobiliari nel secondo trimestre 2012. Nel dato Istat anno su anno siamo a -23,6% per gli immobili residenziali -24,8% per quelli a uso economico. Anche qui, non si salva nessuna zona d’Italia: sia per il residenziale sia per l’economico le Isole registrano un -30,8%, il Nordest -26,1%, il Nord-ovest -22,6%, il Sud -19,9%. Siamo alle variazioni tendenziali peggiori dal 2008, l’anno di esplosione della crisi a livello mondiale, sia per le convenzioni di compravendite immobiliari nel complesso, sia nello specifico tanto per gli immobili ad uso abitativo, quanto per le quelli ad uso economico.

Spacchettando residenziale da economico, vediamo che, nel caso della seconda tipologia sono le Isole (-38,4%) a registrare il calo tendenziale più marcato, il Sud è a -23,5%, il Nordovest a -22,2%, Centro e Nord-est intorno al 25%. Le compravendite di unità immobiliari ad uso residenziale, infine, calano del 21,8% nelle città metropolitane e del 25,1% nelle altre città, quelle ad uso economico diminuiscono nelle altre città del 27% e del 21% nelle grandi città.

Allora, vi abbiamo storditi con tutte queste cifre? Ne volete ancora? Vi bastano? Noi pensiamo di sì, anche perché, se volete risparmiare tempo, concentratevi su due aspetti: ci sono solo segni meno e sono tutti numeri a doppia cifra. Pensate ancora che ci sia futuro per un Paese così? Vedete ancora la luce in fondo al tunnel, tanto cara all’ormai ex premier Monti? Qualcuno, cinicamente, dice che quella luce siano le fiamme dei disoccupati che si danno fuoco, qualcuno ancora che è il faro della locomotiva che ci sta travolgendo. Noi, modestamente, pensiamo solo che sia la un’illusione ottica.

Edilizia, la strage silenziosa

di Davide PASSONI

Un Paese che non è più in grado di costruire case o grandi opere è un Paese che non è in grado di costruire il proprio futuro. No, non stiamo esagerando, stiamo prendendo atto di un fenomeno che sta investendo uno dei settori che, tradizionalmente, è stato la locomotiva dell’Italia in tanti momenti di congiuntura difficile e che da questa congiuntura economica sta uscendo con le ossa rotte, almeno quanto il Paese: quello dell’edilizia.

A parlare meglio, come sempre, sono i numeri: in tanti provano interpretarli e piegarli ai propri interessi, ma sempre numeri rimangono. In sei anni, dal 2008 al 2013, il settore avrà perso circa il 30% degli investimenti, pari a 360mila posti di lavoro in meno: più o meno come 72 Ilva, 450 Alcoa, 277 Termini Imerese. Lo dice Paolo Buzzetti, presidente dell’Ance, l’associazione nazionale costruttori edili il quale, presentando nei giorni scorsi questi dati atroci ha messo tutti in guardia: “La situazione è drammatica e, considerando anche i settori collegati, emerge con tutta evidenza il rischio sociale a cui stiamo andando incontro: infatti, la perdita occupazionale complessiva raggiunge circa 550mila unità“.

Un calo che non lascia superstiti praticamente in nessun comparto. La produzione di nuove abitazioni alla fine del 2013 sarà calata del 54,2%, l’edilizia non residenziale privata segnerà -31,6%, le opere pubbliche saranno crollate del 42,9%. In controtendenza solo il comparto della riqualificazione del patrimonio abitativo, in progresso del 12,6%.

Nubi nere anche sul fronte delle compravendite, calate nei primi 9 mesi del 2012 di quasi il un quarto (-23,9%), a fronte di un fabbisogno potenziale di 600mila abitazioni. Tutti dati che inducono l’Ance a constatare come sia “l’estrema incertezza che scoraggia e rinvia le decisioni di investimento delle famiglie, per le difficili prospettive del mercato del lavoro e per la flessione del reddito disponibile“.

E vogliamo parlare di mutui? Parliamone… Secondo l’Istat, nel secondo trimestre 2012 mutui, finanziamenti e altre obbligazioni con costituzione di ipoteca immobiliare hanno registrato una caduta anno su anno del 41,2%. Se delle compravendite di immobili residenziali si è detto, sul fronte di quelle relative a immobili ad uso economico (esercizi commerciali, uffici, laboratori, capannoni) si è andati ancora peggio: -24,8%.

Guardando ai diversi ambiti territoriali, sempre nel secondo trimestre di quest’anno tanto le compravendite per i fabbricati destinati all’abitazione quanto quelle per i fabbricati finalizzati all’attività economica, hanno registrato cali in tutta Italia, in particolare nelle Isole: -30,3% residenziale, -38,4% economico. Cali più netti nei centri più piccoli (-25,1%), più contenuti nei grandi centri (-21,8%).

Dulcis in fundo, la pillolina dell’Imu che, secondo l’Ance (ma secondo il buon senso, diremmo…), scoraggia l’acquisto da parte delle famiglie che godono ancora di scarsa fiducia da parte delle banche, sempre più restie a concedere mutui e finanziamenti.

Una considerazione finale. Per dare un’idea della drammaticità della situazione in cui versa il settore dell’edilizia è stato utilizzato il paragone di crisi ben più reclamizzate a livello mediatico come quelle dell’Ilva, dell’Alcoa, della Fiat a Termini Imerese. Tutte crisi per le quali il governo si è mosso (più o meno rapidamente) per elaborare se non soluzioni, almeno palliativi. Perché di fronte alla strage dell’edilizia, invece, il silenzio?

Forse perché certe crisi fanno più notizia di altre perché qualcuno è più bravo a “far casino” intorno a esse; forse perché certe crisi sono figlie dell‘insipienza decennale della politica (chi ha permesso di far costruire il mostro Ilva in riva al mare, senza alcuno scrupolo per gli sversamenti in acqua e per le emissioni nell’aria, permettendo poi che tutto intorno nascessero abitazioni senza colpo ferire, perché serbatoi di voti prima che alloggi per la forza lavoro?) che ora cerca di salvarsi la faccia con provvedimenti al limite del ridicolo; forse perché ci sono, per lo Stato, settori produttivi di serie A e di serie B e chi sta zitto ha sempre torto, anche e soprattutto se cerca di salvarsi con le proprie mani. Serie A o serie B, l’unica cosa che vediamo noi e che, di fronte a certe stragi produttivi l’Italia non rischia solo la retrocessione ma il fallimento.

Pmi, l’emorragia dei posti di lavoro

Ce la faremo a superare questa crisi? Se lo chiedono, ogni giorno, impiegati, imprenditori, professionisti, operai. E se lo chiede anche la Cgia di Mestre, che non ha perso la buona abitudine di elaborare cifre, studi e statistiche per metterci di fronte alla cruda realtà, ma anche per proporre soluzioni valide.

Secondo l’associazione mestrina, nel secondo semestre di quest’anno in Italia si rischiano oltre 200mila posti di lavoro. Di questi, 172mila sono tra le piccole e medie imprese. La stima è risultata incrociando i dati occupazionali dell’Istat e quelli di previsione realizzati da Prometeia.

Secondo il segretario Giuseppe Bortolussi, “premesso che negli ultimi quattro anni la variazione dei posti di lavoro riferiti alla seconda parte dell’anno è sempre stata negativa, la stima riferita al 2012 è comunque peggiore solo al dato di consuntivo riferito al 2009. Purtroppo in queste ore non si sta consumando solo la drammatica situazione dei lavoratori dell’Alcoa o dei minatori del Carbosulcis, ma anche quella di decine e decine di migliaia di addetti delle Pmi che rischiano di rimanere senza lavoro“.

Come detto, però, dalla Cgia non mancano proposte costruttive per aiutare le Pmi: “Le ristrutturazioni industriali avvenute negli Anni ’70, ’80 e nei primi anni ’90 – dice Bortolussi, presentavano un denominatore comune. Chi veniva espulso dalle grandi imprese spesso rientrava nel mercato del lavoro perché assunto in una Pmi. Oggi anche queste ultime sono in difficoltà e non ce la fanno più a creare nuovi posti di lavoro. Per ridare slancio alle piccole realtà imprenditoriali che continuano ad essere l’asse portante della nostra economia diventa determinante recepire in tempi brevissimi la Direttiva europea contro il ritardo dei pagamenti, per garantire una certezza economica a chi, attualmente, viene pagato mediamente dopo 120/180 giorni dall’emissione della fattura. Bisogna trovare il modo per agevolarne l’accesso al credito, altrimenti l’assenza di liquidità rischia di buttarle fuori mercato. Infine, bisogna alleggerire il carico fiscale premiando anche i lavoratori dipendenti, altrimenti sarà estremamente difficile far ripartire i consumi interni“.

Rientro amaro per gli operai di Alcoa

Hanno occupato la nave Sharden per alcune ore e poi, dopo le 9 di questa mattina, gli operai Alcoa sono scesi, con la stessa rabbia e delusione che avevano quando vi erano saliti.

Niente violenza, niente disordini: è stata una manifestazione del tutto pacifica, accolta dalla nave della Tirrenia con disponibilità e calore.
Ma, se la battaglia è conclusa, apparentemente senza danni, la guerra è ancora aperta, come hanno confermato i protagonisti dell’occupazione.

La prossima tappa è Portovesme, verso la quale gli operai si dirigono amareggiati e non ancora sicuri di cosa faranno. Una cosa è certa: qualunque sarà la decisione, si tratterà di una scelta di gruppo.
In tutto, gli operai che, da Roma, dove avevano manifestato ieri davanti al Ministero per lo Sviluppo economico, sono tornati ad Olbia sono 350 e tutti coesi.

Ciò che ha portato i lavoratori a manifestare e poi ad occupare pacificamente la Sharden, è il desiderio di lanciare un segnale chiaro e forte al Governo, segnale che continuerà con una manifestazione al giorno, fino alla chiusura della vertenza, quella che dovrebbe portare alla chiusura dell‘impianto.

Ma cosa è successo a bordo della nave? Tutti, manifestanti ed equipaggio, hanno rilasciato le stesse dichiarazioni: nessun disordine tra gli occupanti, solo un malumore diffuso dovuto alla preoccupazione per il proprio futuro, da parte degli operai che rischiano di ritrovarsi senza un lavoro.

La protesta, sulla Sharden, è stata cadenzata dal battere degli elmetti, che indicavano l’indignazione, la rabbia e la delusione dovuti al confronto avvenuto a Roma con il ministero dello Sviluppo economico, la Regione Sardegna e la Provincia Carbonia Iglesias.

E infatti, viste le conclusioni assolutamente inadeguate, i sindacati non hanno deciso di sottoscrivere i verbali.
La conclusione di questa amara vicenda è ancora lontana.

Vera MORETTI

Alcoa Sardegna: il Consiglio Regionale a sostegno dei lavoratori

La protesta dei lavoratori dell’Alcoa di Portovesme non accenna a diminuire. I dipendenti dello stabilimento sardo, del quale la multinazionale statunitense ha annunciato la chiusura, sono in mobilitazione da giorni e a nulla è valso l’incontro di qualche giorno fa a Roma con i vertici del Ministero per lo sviluppo economico.

Una nota positiva arriva però dalla Presidenza del Consiglio Regionale della Sardegna: i fondi delle spese di rappresentanza della Presidenza verranno infatti messi a disposizione dei lavoratori in sciopero, cui era stato chiesto di versare il corrispettivo di due giornate lavorative per poter sostenere le iniziative necessarie a portare avanti la vertenza.

E’ stata Claudia Lombardo, Presidente del Consiglio Regionale a rendere nota la disponibilità di fondi da parte della Regione a sostegno dei lavoratori in protesta: “L’onere economico della mobilitazione non può ricadere sui lavoratori già duramente colpiti dal dramma della perdita del posto di lavoro – ha annunciato la Lombardo. – Il Consiglio regionale è al fianco dei lavoratori e delle loro famiglie, ed è pronto alla mobilitazione, per salvare l’Alcoa”.

La Presidente ha anche sottolineato la volontà da parte del Consiglio Regionale a opporsi “ai comportamenti inaccettabili della multinazionale che, dopo aver sfruttato il territorio, pensa di disimpegnarsi e andarsene dal Sulcis chiudendo la fabbrica come se niente fosse. Dobbiamo assolutamente trovare una soluzione per non chiudere la fabbrica – ha continuato la Lombardo – l’effetto domino sarebbe devastante non solo per il Sulcis, ma per la Sardegna e per l’economia dell’Italia intera”.