Fallimenti in aumento anche nel 2013

Il 2013, ormai abbondantemente iniziato, non ha portato molte buone notizie, oltre alla consapevolezza di essere sopravvissuti alla fine del mondo prevista per il 21 dicembre 2012.
Ma, per le aziende, la sopravvivenza è una questione molto più difficile da affrontare, e nessuna profezia Maya riuscirebbe a fermare l’inesorabile caduta delle pmi, falcidiate dalla crisi, ancora molto presente nel nostro Paese.

La notizia di questi giorni è che, anche nel primo trimestre 2013, i fallimenti delle imprese si sono moltiplicati, raggiungendo il preoccupante record di 3.500 chiusure, che in percentuale sono segnale di un aumento del 12% rispetto allo stesso periodo dell‘anno scorso.

Non sono solo i fallimenti a salire, ma anche le liquidazioni: sono infatti 19mila le aziende che hanno deciso di chiudere volontariamente l’attività 19mila aziende in bonis, un dato in aumento del 5,8% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

Secondo il Cerved, gruppo specializzato nell’analisi delle imprese e nei modelli di valutazione del rischio di credito, il fenomeno più rilevante è il forte incremento dei concordati preventivi, che fanno registrare un aumento del 76% su base annua, un boom che porta al 13% l’incremento delle procedure di insolvenza diverse dai fallimenti.

Lo studio, a questo proposito, afferma: “Un’analisi sui dati del Registro delle imprese indica che all’origine di questo incremento vi sono le nuove norme con cui e’ stata riformata la disciplina fallimentare e, in particolare, l’introduzione del cosiddetto concordato in bianco“.

In questo scenario, le aziende hanno apprezzato la possibilità di presentare una domanda priva del piano di risanamento e di bloccare le azioni esecutive, anche con effetti retroattivi: con l‘entrata in vigore delle nuove norme nel settembre 2012, al 31 marzo 2013 erano state presentate ben 2.700 istanze, oltre il doppio dei concordati tradizionali presentati in tutto lo scorso anno.

Volendo localizzare i fallimenti del primo triennio dell’anno in corso, il Nord Est, ha fatto registrare una forte impennata delle procedure, con un incremento di quasi un quarto rispetto al primo trimestre del 2012 (+24%).
Ma anche nelle atre aree del Paese c’è ben poco da sorridere, perché si registra un aumento delle chiusure anche nel Nord Ovest (+15%) e a ritmi leggermente inferiori nel Centro Italia (+9%), nel Sud e nelle Isole (+3%).

Vera MORETTI

Ho fatto crack. Ma non mollo

di Davide PASSONI

La crisi. Non è fatta solo di imprenditori che si uccidono, è fatta anche di una tendenza sotterranea ma non per questo meno triste: i fallimenti. Non fanno notizia come chi si dà fuoco sulla pubblica piazza o si spara al cuore nel garage di casa, ma uccidono allo stesso modo. Uccidono un tessuto produttivo, un indotto, il sogno e la fatica di chi ha messo in piedi un’azienda, spesso dal nulla, la vita quotidiana di centinaia, migliaia di famiglia. Certo, il fallimento fa parte del gioco, del rischio d’impresa. E far fallire un’azienda non significa certo essere dei falliti nella vita. Ma certi numeri mettono i brividi.

I falllimenti, secondo i dati Cerved – gruppo specializzato nell’analisi delle imprese e nella valutazione del rischio di credito – analizzati dall’ANSA, stanno colpendo il cuore produttivo dell’Italia, il Nord: dal 2009, quando la crisi è esplosa in tutt la sua drammaticità a livello globale, sono 17mila i fallimenti al Nord, con Lombardia, Piemonte e Liguria in difficoltà mentre tiene meglio il Nord Est, anche se il Veneto arranca. Un dato che vale oltre la metà del totale dei fallimenti in Italia (33mila circa), data la maggiore concentrazione di imprese al Nord. Un quarto delle chiusure viene invece dalle imprese meridionali (8358), il 22% dal Centro (7284).

C’è poi un valore racchiuso da due paroline, una inglese e una latina, che si chiama Insolvency Ratio, ossia la frequenza dei fallimenti (numero di imprese chiuse ogni 10mila attive), che mette ansia. Un valore che vede la Lombardia prima con un tasso di oltre 27 aziende chiuse per crack ogni 10mila e Milano prima tra le province con un Insolvency Ratio di 34.

Quasi la metà dei 33mila fallimenti totali (oltre 15mila) ha riguardato imprese del terziario, il 23% aziende dell’edilizia (7.535), il 21% società manifatturiere (poco meno di 7mila). Ma, mettendo a confronto le procedure con il numero di imprese operative, si nota che i crack hanno colpito con maggiore intensità l’industria (con un Insolvency ratio dal 2009 pari a 38,7) e le costruzioni (28,5), rispetto ai servizi (16,9) e gli altri settori (9,1).

La cosa preoccupante è che, secondo Cerved, la situazione è in fase di radicamento: nel solo anno scorso la Lombardia è arrivata a un Insolvency ratio di 30,7, Milano di 39. Ma nel 2011 il trend peggiore è stato accusato da altre due Regioni: per maggior numero di fallimenti in assoluto la prima resta la Lombardia (2673, +9,8%), ma in Campania la crescita è stata quasi del 30% (esattamente del 29,6%, oltre quota 1000) e nel Lazio del 23,4%, a un totale di 1253 crack aziendali.

La soluzione? Al di là dello sperare in una improbabile ripresa globale (almeno nel medio periodo) sarebbe cosa buona e giusta cominciare a tagliare il costo del lavoro e le tasse alle imprese, reperendo i fondi necessari dai tagli alla spesa pubblica inutile, ai privilegi e ai finanziamenti a pioggia alle società statali improduttive. Perché senza stimolo alle imprese non c’è ripresa. E senza impresa (piccola e media, naturalmente…) non c’è Italia. Non molliamo, l’Italia non ce la può fare senza di noi!