Quando si può smettere di pagare l’assegno di mantenimento per i figli?

A seguito di una separazione legale o di un divorzio, il coniuge non convivente con il figlio è obbligato a versare l’assegno di mantenimento all’altro genitore. Ma fino a quando è tenuto a pagarlo? Le cose cambiano con il raggiungimento della maggiore età? Scopriamo cosa prevede la legge, ma soprattutto come sono cambiate le regole a partire dagli ultimi mesi dell’anno 2020.

L’assegno di mantenimento è dovuto ai figli maggiorenni?

Fino a circa un anno fa, l’assegno di mantenimento per i figli era dovuto a prescindere dal compimento della maggiore età. Nello specifico, il genitore obbligato era tenuto a pagarlo fino a quando il figlio non avesse raggiunto l’indipendenza economica. Oppure, nel caso non fosse diventato autonomo per colpa sua.

Quest’ultima ipotesi si sostanziava qualora il figlio maggiorenne avesse rifiutato un lavoro che era in grado di svolgere, o nel caso di ritardato conseguimento della laurea a causa di negligenza, o ancora per mancato impegno nel trovarsi un’occupazione lavorativa dopo aver raggiunto un’età avanzata, nonché per dimissioni da un posto di lavoro senza valido motivo.

Tali regole erano abbastanza generiche e la relativa valutazione da parte di un giudice non era affatto facile in quanto avrebbe dovuto tenere conto di tutti gli aspetti, prima di arrivare a una decisione finale. Tendenzialmente, il genitore obbligato al versamento dell’assegno di mantenimento per i figli si protraeva anche per molti anni dopo il raggiungimento della maggiore età.

Le nuove regole sul mantenimento dei figli maggiorenni

Come già anticipato poc’anzi, i presupposti per il pagamento dell’assegno di mantenimento per i figli maggiorenni è cambiato da poco meno di un anno. Entrando nel dettaglio, la sentenza di Cassazione n. 17183 pronunciata il 14 agosto 2020 fa molta leva sulla responsabilità del figlio stesso. I giudici hanno ritenuto che quest’ultimo non può limitarsi ad attendere il lavoro sognato, ma darsi da fare per cercare un qualsiasi occupazione che gli consenta di sostenersi economicamente.

Quando un figlio diventa maggiorenne diventa anche capace di determinare la sua vita anche dal punto di vista economico, pertanto, dovrebbe decadere l’obbligo del genitore di mantenerlo.

Tuttavia, la Cassazione precisa che non si tratta di una regola inamovibile, ma ci sono altri aspetti da considerare. Innanzitutto, il figlio maggiorenne deve avere a disposizione un certo periodo di tempo per entrare nel mondo del lavoro. Ciò significa anche che gli si deve concedere la possibilità di ultimare il percorso di studi che ha scelto e, successivamente, un ulteriore lasso temporale che gli permetta di trovare un’occupazione lavorativa.

Dopo tali concessioni, il figlio non ha più alibi e deve impegnarsi al massimo per trovare un lavoro che gli consenta di provvedere economicamente a se stesso. Il giudice può continuare ad obbligare il genitore a corrispondere al figlio l’assegno di mantenimento, solo nel caso in cui quest’ultimo dimostri di averle provate tutte per cercare un lavoro, senza successo.

Se il mantenimento viene chiesto dal genitore convivente, è lui a dover fornire la prova. Nel caso la richiesta provenga direttamente dal figlio, allora, tocca a quest’ultimo provarlo.

In cosa consiste la prova che determina il ricevimento dell’assegno?

Per continuare a percepire il mantenimento dal genitore non convivente, il figlio deve trovarsi in una condizione di menomazione o debolezza personale come potrebbe essere una patologia. Oppure, deve dimostrare di ricevere buoni voti a scuola con l’aspettativa di continuare gli studi universitari. Se gli studi sono stati completati, deve provare che non è trascorso ancora un periodo di tempo sufficiente per trovare un lavoro. In alternativa, deve dimostrare che ha fatto di tutto per trovarlo ma che ogni tentativo è andato vano.

Entriamo ancor più nello specifico, per capire meglio quanto è dovuto o meno l’assegno di mantenimento in determinati casi.

Il mantenimento deve essere pagato se il figlio maggiorenne frequenta l’Università?

Rispetto ai tempi antecedenti la sentenza di Cassazione del 14/08/2020, qualcosa cambia. Per mantenere il diritto all’assegno, il figlio che frequenta l’Università deve conseguire buoni risultati e non andare fuori corso. Inoltre, i giudici hanno chiarito che il rischio di perdere il mantenimento è ancora più alto se egli vive lontano dalla casa di famiglia, rientrando ogni tanto come se fosse un ospite.

Cosa succede se il figlio maggiorenne che percepisce il mantenimento non ha un lavoro a tempo indeterminato?

Una volta ultimati gli studi, se il figlio trova un lavoro precario, difficilmente un giudice concederà al genitore la revoca dall’obbligo di mantenimento. In caso di occupazione a tempo determinato, la situazione cambia. Non essendo considerato, soprattutto con i tempi che corrono in cui avere un contratto a tempo indeterminato è molto difficile, un lavoro precario, il giudice può decidere di esonerare il genitore dall’obbligo di versamento dell’assegno.

Nessuna novità sul mantenimento per il figlio invalido

Come ovvio che sia, le nuove regole della Cassazione non vanno a modificare la situazione del figlio maggiorenne disabile. Va sempre valutato il grado di gravità dell’handicap, e se tale condizione non gli permette di accedere a un lavoro protetto, continuerà a ricevere l’assegno di mantenimento, anche se, in alcuni casi, parziale.

Conclusioni

Sulla base della legge in vigore che regola il diritto ad ottenere l’assegno di mantenimento da parte del figlio maggiorenne e, soprattutto alla luce delle nuove regole introdotte dalla Cassazione, resta comunque fondamentale la valutazione, caso per caso, di un giudice. Ciò vuol dire, che i genitori separati o divorziati, prima di decidere arbitrariamente di sospendere il mantenimento, farebbero bene a rivolgersi a un avvocato specializzato in diritto di famiglia, allo scopo di capire quante siano le possibilità di ottenere l’esonero dal pagamento dell’assegno da un giudice.

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Quando cessa l’assegno di mantenimento al coniuge?

Quando due coniugi decidono di separarsi legalmente, su richiesta di quello economicamente più debole o che non percepisce alcun reddito proprio, il giudice attribuisce un assegno di mantenimento che dovrà essere corrisposto dal coniuge economicamente più forte. Ma per quanto tempo, quest’ultimo, è obbligato a pagare l’assegno di mantenimento?

Quanto dura l’erogazione periodica dell’assegno di mantenimento?

Per prima cosa, è bene fare una distinzione tra assegno di mantenimento e assegno divorzile. Il primo scatta con il giudizio di separazione e termina con la sentenza di divorzio, il secondo è attivo dal divorzio in poi. Tuttavia, questa è una risposta che si basa sull’arco temporale ed è anche abbastanza generica.

Innanzitutto, l’importo dei due assegni è spesso diverso. Infatti, quello di mantenimento ha l’obiettivo di garantire al coniuge beneficiario lo stesso tenore di vita tenuto durante il matrimonio. L’assegno di divorzile, invece, punta a garantire solo all’autosufficienza economica, per questo motivo, spesso è di misura inferiore all’assegno di mantenimento.

Ma non è detto che la sentenza di divorzio faccia scattare automaticamente il relativo assegno in sostituzione dell’assegno di mantenimento. Infatti, se nel frattempo il coniuge economicamente più debole ha trovato un lavoro o ha avviato un’attività commerciale o professionale per cui il reddito percepito è tale da renderlo completamente autosufficiente dal punto di vista economico, il giudice può rifiutare la richiesta di assegno divorzile.

Inoltre, la cessazione dell’assegno di mantenimento può terminare senza la sostituzione con quello divorzile, in quanto, in sede di divorzio gli ex coniugi hanno trovato un accordo alternativo.

Quando non spetta l’assegno di mantenimento

In precedenza, abbiamo solo preso in considerazione l’ipotesi che uno dei due coniugi sia nettamente più debole economicamente. Ma cosa succede se una delle due parti non lo è? In tal caso, l’assegno di mantenimento non è dovuto.

Inoltre, non ha diritto a percepire l’assegno di mantenimento il coniuge che ne ha fatto richiesta al giudice in sede di separazione, se la causa della fine del vincolo coniugale è ad esso addebitata. Ossia, nel caso in cui il coniuge richiedente è ritenuto colpevole della fine del matrimonio a causa di una condotta contraria agli obblighi che derivano dallo stesso.

In questo caso, il coniuge a cui è stata addebitata la separazione ha diritto solo agli alimenti, ossia un minimo sostegno economico che può servire al sostentamento economico strettamente necessario.

Quando cessa il diritto al mantenimento

Qualora dovessero cambiare durante il periodo di separazione le condizioni che hanno portato il coniuge più debole a ricevere l’assegno di mantenimento, l’altro coniuge può rivolgersi al giudice per chiedere che la misura venga revocata. Solitamente, ciò accade quando il coniuge beneficiario intraprende una convivenza con una terza persona. Tuttavia, non esiste un’apposita disposizione di legge che prevede l’automatica cessazione del mantenimento nel caso appena citato.

Dunque, resta nella facoltà del giudice decidere se revocare il mantenimento tramite la valutazione del caso. Per essere più precisi, la convivenza deve provata e documentata dal coniuge obbligato a versare l’assegno e considerata stabile. Può anche accadere che il giudice di non revocare l’assegno ma di ridurne l’importo.

Il diritto al mantenimento si perde anche se il coniuge beneficiario ha trovato un buon lavoro che gli permette di mantenere il tenore di vita con riferimento al periodo del matrimonio. Anche il cambiamento della sua situazione patrimoniale può portare alla cessazione del diritto all’assegno di mantenimento. E’ il caso di una cospicua somma di denaro ricevuta in eredità, oppure se il nuovo partner provvede totalmente al suo sostentamento a prescindere da un’eventuale convivenza.

Qualsiasi tipo di aiuto economico ricevuto dal coniuge avente diritto al mantenimento, se non è elargito permanentemente, non dà luogo alla cessazione dell’assegno.

Nel caso in cui il coniuge che percepisce l’assegno dovesse lavorare in nero e percepire un ottimo reddito, il coniuge obbligato al versamento del mantenimento dovrà dimostrarlo con tutti gli strumenti possibili, ad esempio, documentandone le spese, per poterne chiedere la revoca.

Il diritto al mantenimento cessa anche nel caso di morte del coniuge erogatore e quello superstite non potrà esigerlo da nessuno. Tuttavia, può ottenere una quota dell’eredità proporzionata all’importo dell’assegno ricevuto prima del decesso del coniuge, prendendo in considerazione anche la consistenza dell’eredità, il numero e le condizioni economiche degli eredi.

C’è da dire, che lo stesso discorso vale anche per il coniuge che percepisce l’assegno divorzile, nonostante la perdita dei diritti successori che il divorzio comporta.

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Chi ha diritto all’assegno di mantenimento a seguito di separazione

Cos’è l’assegno di mantenimento? In sede di separazione legale, il giudice stabilisce un assegno di mantenimento mensile a favore del coniuge economicamente più debole che ne ha fatto richiesta. Si parla ancora di coniuge, in quanto solo dopo il divorzio si diventa ex coniuge. In tal caso, l’assegno di mantenimento si trasforma in assegno divorzile. Al contrario, quindi in assenza di richiesta, al fine di tutelare gli interessi economici e morali di eventuali figli, il giudice adotta dei provvedimenti che includono il contributo al mantenimento.

Assegno di mantenimento: quale funzione svolge

L’assegno di mantenimento ha una doppia funzione. Da una parte, fornire un sostegno economico al coniuge beneficiario al termine della convivenza ma in relativa continuità. Dall’altra, riconoscerne il ruolo e il contributo che ha dato alla formazione del patrimonio familiare e dei coniugi.

In caso di separazione consensuale, i coniugi si sono accordati sui rapporti personali e patrimoniali, quindi, sono proprio loro a fissare l’entità dell’assegno e il giudice si limita a confermare l’accordo preso senza entrare nel merito dei presupposti che hanno portato a tale decisione.

Diversamente, nella separazione giudiziale i coniugi non hanno raggiunto alcun accordo. In tal caso, spetta al giudice stabilire l’importo dell’assegno sulla base dei presupposti e dei redditi del coniuge erogante.

I presupposti per l’assegno di mantenimento

Affinché possa beneficiare dell’assegno di mantenimento, è necessario che il coniuge che lo ha richiesto non abbia subito l’addebito della separazione. Ossia, che non sia stato considerato il soggetto colpevole dell’evento a seguito di una condotta che ha reso la convivenza intollerabile e/o tale da recare grave pregiudizio all’eduzione dei figli. Tale addebito va richiesto dall’altro coniuge che deve dimostrare in sede di separazione la condotta del coniuge ritenuto colpevole e il nesso causale con la crisi della coppia. Dopodiché, spetta al giudice decidere se ci siano le condizioni per l’addebito.

Inoltre, il coniuge richiedente l’assegno non deve disporre di redditi propri, o comunque che si trovi in una condizione economica peggiore rispetto al coniuge che deve erogare il mantenimento. Quest’ultimo, però, deve anche trovarsi in una situazione economica tale da provvedere al pagamento dell’assegno.

Al fine di valutare l’adeguatezza della condizione economica del coniuge obbligato, è da prendere in considerazione lo squilibrio patrimoniale esistente tra i due soggetti separati. La relativa valutazione viene effettuata sulla base della durata del matrimonio, delle potenzialità di reddito e dell’età anagrafica.

Conseguenze della separazione con addebito

Se al coniuge richiedente l’assegno di mantenimento viene riconosciuto dal giudice l’addebito della separazione, automaticamente perde il diritto a riceverlo e anche i diritti successori. Tuttavia, in caso si trovi in stato di bisogno, non perde il diritto a ricevere gli alimenti. Il coniuge a cui viene addebitata la separazione mantiene il diritto a percepire un assegno vitalizio a carico dell’eredità, nel caso fruisse degli alimenti al momento dell’apertura della successione.

E’ bene precisare, che l’addebito della separazione non sussiste qualora la violazione degli obblighi derivanti dal matrimonio avviene con la crisi dello stesso già in corso.

La questione del tenore di vita

In precedenza, abbiamo accennato alla valutazione di adeguatezza per stabilire la sussistenza del diritto all’assegno di mantenimento. Essa, passa anche per il tenore di vita fruito dal coniuge richiedente durante il matrimonio. Tuttavia, non si può fare a meno di citare la sentenza n. 18287 della Cassazione Civile pronunciata l’11 luglio 2018 in materia di assegno di divorzio.

La sentenza ha stabilito che ai fini della determinazione dell’importo dell’assegno divorzile, non deve essere preso in considerazione il tenore di vita del coniuge che ne ha fatto richiesta. Bensì, la comparazione tra le condizioni economiche e patrimoniali degli ex coniugi, ma soprattutto il contributo fornito dall’ex coniuge che ha presentato istanza per ottenere l’assegno, alla formazione del patrimonio personale e comune in relazione alla durata del matrimonio e alle potenzialità future reddituali, nonché all’età dell’avente diritto.

Il motivo per cui abbiamo riportato in estrema sintesi il contenuto della suddetta sentenza è dovuto al fatto che la Cassazione sta adeguando le condizioni dell’assegno divorzile, anche a quello di mantenimento.

Inoltre, la Cassazione ha affermato che il coniuge richiedente l’assegno di mantenimento non deve necessariamente cercare il lavoro più affine alle proprie ambizioni e/o al livello di formazione conseguito. L’obbligo di rendersi indipendente dall’altro coniuge imporrebbe di svolgere anche un lavoro più umile. Quindi, per ottenere l’assegno il coniuge che lo ha richiesto deve dimostrare di non poter lavorare.

Per rendere meglio l’idea del significato di quanto appena detto, non si può evitare di citare l’ordinanza di Cassazione n. 5932/2021. In questo caso specifico, i giudici non hanno accordato l’assegno di mantenimento richiesto da una donna laureata in farmacia che ha rifiutato l’impiego da banconista.