Accordo tra Barilla e gli agricoltori del Sud per tutelare il grano italiano

Barilla ha presentato, nello stabilimento di Marcianise, in provincia di Caserta, dove si produce la pasta Voiello, l’accordo siglato dalla multinazionale di Parma con gli agricoltori italiani, per l’acquisto di 900mila tonnellate di grano duro.

Si tratta di un’intesa pluriennale, dal 2017 al 2019, e prevede la partecipazione di 65mila aziende del Paese, per un totale di 200mila lavoratori.

Questo importante accordo vuole premiare in primo luogo gli agricoltori del Centro-sud, in particolare provenienti da Abruzzo, Molise, Campania e Puglia, che in tre anni dovranno produrre 210mila tonnellate di grano duro, tra Aureo (130.000 tonnellate) e Svevo (80 mila tonnellate), per un investimento totale da parte di Barilla di circa 62 milioni di euro.
Anche per le aziende la remunerazione sarà elevata, con 270 euro a tonnellata come prezzo minimo di vendita.

Luigi Ganazzoli, responsabile del Settore Acquisti del Gruppo Barilla, ha dichiarato: “La Campania è la Regione in cui i contratti di coltivazione del grano duro hanno avuto lo sviluppo più significativo: nel nuovo accordo i volumi di acquisto del grano Aureo da parte di Barilla sono infatti aumentati del +30% rispetto al 2016. La durata triennale dei contratti permette poi alle aziende di programmare e crescere”.

Maurizio Martina, ministro delle Politiche Agricole e Forestali, ha aggiunto: “Uno degli obiettivi del Governo è quello di aumentare la capacità produttiva di grano in modo da divenire autosufficienti. Importiamo ancora troppo grano dall’estero”.

Un obiettivo importante sarebbe quello di diminuire drasticamente l’importazione del grano, che ad oggi arriva dall’estero in 2 milioni di tonnellate. Per arrivare a buoni risultati, si sta pensando ad introdurre forme di sostegno al reddito.

Vera MORETTI

Il cibo Made in Italy conquista Mumbai

Il cibo italiano è sempre più amato, anche negli angoli del mondo che fino a poco tempo fa sembravano inespugnabili, perché dalle culture completamente diverse dalla nostra.

In questo caso, il food Made in Italy ha saputo conquistare l’India, grazie alla nuova edizione di Food Hospitality World, la mostra professionale che mette a frutto l’esperienza acquisita da Fiera Milano con Tuttofood, dedicata all’agroalimentare e Host, dedicata all’ospitalità professionale.

Il FHW è sbarcato a Mumbai per la terza volta dal 23 al 26 gennaio, ed ha fatto bella mostra di sé con ben 5.000 metri quadrati di spazio espositivo e una forte rappresentanza italiana, che comprendeva alcuni dei marchi simbolo della gastronomia del Belpaese.

Tra le oltre 60 aziende e i 115 marchi presentati, c’erano anche Barilla, Divella, Garofalo, Rustichella, Balocco, Pastificio di Martino, ospiti dello spazio curato da Aidepi (Associazione dell’industria del dolce e della pasta Italiane) e Ita (Italian trade promotion agency), dove 18 espositori diretti hanno animato le giornate espositive con degustazione di prodotti tipici che spaziavano dalla pasta al vino al gelato, senza disdegnare i prodotti da forno e il caffè.

Le regioni chiamate a partecipare a FHW Mumbai sono state Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte, riunite nel Progetto interregionale del ministero dello Sviluppo Economico e Ita, e Calabria.

Paolo Borgio ha commentato così l’evento: “FHW India è ormai un punto di riferimento nel calendario delle mostre estere di Fiera Milano. La manifestazione è cresciuta molto e stiamo raccogliendo sempre più consensi su un mercato in continuo fermento. La popolazione indiana spende in media il 57% del reddito familiare in acquisti legati al food e all’ospitalità ed è oggi più propensa al consumo di prodotti alimentari stranieri. Con queste premesse siamo convinti della bontà del nostro evento che, con la sua terza edizione a Mumbai, è pronto alla definitiva consacrazione. Abbiamo scelto Mumbai perché è la capitale finanziaria dell’India, ma non solo. Mumbai infatti vanta la più alta capacità d’importazione di alimenti e bevande di tutto il Paese”.

Vera MORETTI

Nella ristorazione il Made in Italy è senza rivali

Il gusto italiano a tavola, si sa, è uno dei punti di forza del made in Italy. Negli ultimi mesi sono sempre di più le attività imprenditoriali aperte all’estero dai nostri connazionali in questo settore: dai ristoranti ai wine bar, dalle formaggerie alle salumerie.  A novembre Barilla aprirà a New York, nell’inconfondibile location di Madison avenue, il primo ristorante Academia; Rosi ha avviato la seconda salumeria a Manhattan, sempre nella Grande Mela; Vladimir Dukcevich (titolare del prosciutto San Daniele King’s) ha tagliato il nastro alla prima osteria a New York e insieme alla famiglia Zonin ha inaugurato il secondo ristorante-wine bar a Tokio; il celeberrimo Giovanni Rana ha alzato la saracinesca a New York al Chelsea market (140 coperti, laboratorio e Take away) e l’offensiva di Eataly è al rush finale per i negozi di Detroit, Istanbul e Dubai.

L’industria alimentare italiana quest’anno dovrebbe fatturare, secondo Federalimentare, 133 miliardi di euro, con una crescita del 2,3%. Numeri impressionanti, in controtendenza rispetto alla crisi economica attuale, che certificano sempre più il valore inestimabile del brand Italia.

Niente crisi per le aziende familiari

Gli esperti di economia che hanno passato al setaccio la situazione economica italiana, cercando di dare una spiegazione alla situazione di “stallo” attuale, hanno individuato, tra le principali cause, il numero elevato di aziende familiari.

Le imprese di questo tipo, infatti, spesso sono definite chiuse e poco avvezze al cambiamento, ma soprattutto incapaci di adeguarsi alla globalizzazione e ai canoni Ue.

In concreto, però, sembra che non sia così: a testimoniarlo è uno studio condotto da Guido Corbetta, titolare della cattedra AIdAF – Alberto Falck di Strategia delle Aziende Familiari all’Università Bocconi di Milano e presentato all’Incontro tra imprenditori e studiosi del settore organizzato dall’Associazione Borgo di Castellania: le imprese familiari vengono definite un “patrimonio di rilevanza sociale ed economica” per tutte le economie avanzate del mondo.

E a dimostrarlo sono i dati, sorprendenti e di gran lunga migliori di quelli statunitensi: se in Italia le aziende familiari sono l’82% della popolazione totale di imprese e rappresentano il 57% delle 7.105 aziende con ricavi superiori a 50 mln di euro in presenza di un trend occupazionale crescente anche in tempi di crisi, negli USA, il Paese considerato più avanzato in termini di funzionamento dei mercati, rappresentano oltre l’80% del totale delle aziende e il 50% delle imprese, assorbono il 59% della forza lavoro e generano il 49% del PIL.

E ancora, nei Paesi del G20 rappresentano il 50% delle imprese in Canada e il 90% in Turchia, con valori intermedi per Paesi come la Germania (79%, occupando il 57% della forza lavoro) e la Francia (83%, occupando il 49% della forza lavoro).

Sempre oltreoceano, ma questa volta in Brasile, le imprese a conduzione familiare costituiscono il 75% delle aziende di maggiori dimensioni e sono molto diffuse in India e in molti altri Paesi asiatici.

Inoltre, Achille Colombo Clerici, presidente dell’Istituto Europa Asia, ha dichiarato: “Tra il 2000 e il 2010 la capitalizzazione totale di borsa delle imprese familiari asiatiche è pressoché sestuplicata. Tendono a operare prevalentemente in settori tradizionali, in particolare quello finanziario (banche e immobili), industriale, dei beni di consumo ciclici e nei beni di prima necessità, poiché le aziende di proprietà di una famiglia sono storicamente conservative in termini di innovazione e investimenti in nuove attività ad alto rischio.
Solo nella Corea del Sud, a Taiwan e in India è presente una maggiore concentrazione di imprese familiari in campo tecnologico, in quanto tali economie hanno una struttura industriale a orientamento tecnologico.
Le aziende asiatiche a proprietà familiare costituiscono la spina dorsale delle rispettive economie. In termini di distribuzione regionale, si evidenzia una maggiore concentrazione di aziende nell’Asia meridionale, dove ha sede il 65 per cento di tutte le società quotate, rispetto al 37 per cento presente nell’Asia settentrionale.
L’India è il Paese che ospita il maggior numero di imprese familiari, il 67 per cento, mentre in Cina si riscontra la percentuale più bassa (13 per cento), a causa della sua struttura economica a gestione statale
”.

L’analisi di Corbetta ha contribuito a sfatare anche un altro mito, ovvero la scarsa longevità delle imprese familiari.
Infatti, tra le aziende italiane con ricavi superiori a 50 mln di euro, almeno una quarantina hanno più di 100 anni: alcuni esempi sono Barilla, Beretta, Buzzi, Cotonificio Albini, Falck, Fedrigoni Cartiere, Fiat, Fratelli Branca, Italcementi, Vitale Barberis Canonico, Zambon, Ermenegildo Zegna.

Per quanto riguarda le perfomance, invece, pare che le imprese familiari rappresentino un convincente modello di “capitalismo multiforme” in termini di struttura proprietaria, modelli di governance e di gestione adottati, oltre che di dimensioni conseguite e strategie competitive perseguite.

In Italia, poi, nonostante le aziende familiari abbiano sofferto molto la grave crisi economica, la maggior parte di esse ha saputo resistere continuando a creare ricchezza e a garantire occupazione, a testimonianza di un tessuto economico-produttivo “sano” e “vitale”.

Sono inoltre state individuate quattro condizioni che favoriscono la continuità e lo sviluppo di un’impresa familiare:

  • una proprietà responsabile;
  • una leadership aziendale capace e motivata;
  • una governance moderna;
  • un sistema di regole per la gestione del cambiamento dei fattori precedenti.

Vera MORETTI