Il Made in Italy pronto a sbarcare in Borsa

Il Made in Italy non si ferma, anche quando si tratta di sbarcare in Borsa.
Se, infatti, questo è stato l’anno di Unieuro, doBank, Banca Farmafactoring e Indel B, entro fine 2017, ma anche nel 2018, potremmo assistere ad altri importanti e prestigiosi debutti, o di clamorosi ritorni.

Considerando i più che positivi risultati ottenuti, ad esempio, di doBank, che ha ricevuto ordini per oltre 4 volte l’offerta, la spinta per fare il grande passo c’è eccome, poiché la liquidità c’è, soprattutto all’estero, dove colossi bancari sono pronti a supportare le promettenti matricole Made in Italy.
Requisiti delle aziende? Prima di tutto una equità story adatta, ma anche un trend di crescita solido anche in previsione del futuro, e ovviamente una cedola interessante per gli investitori internazionali.

Facciamo qualche nome:

Pirelli, ad esempio, sta preparando il suo rientro in Borsa, previsto per il prossimo 4 ottobre, con il supporto di grandi banche internazionali, tra le quali spicca ChemChina, che conbtrolla la creatura di Marco Tronchetti Provera dal 2015.

C’è poi Gima, azienda specializzata nel confezionamento di sigarette, controllata del colosso del packaging Ima. In questo caso, il gruppo ha tra gli azionisti la famiglia Vacchi. In Borsa verrà collocato il 30% del capitale ed usciranno i manager fondatori di Gima, mentre la capogruppo manterrà la maggioranza.

Anche se, occorre ricordarlo, l’esercito più folto che si prepara ad approdare in Borsa appartiene al settore del lusso, a partire da Valentino Fashion Group, controllata della holding dei reali del Qatar Mayhoola for Investments. In settembre infatti si potrebbero trarre le conclusioni finali. A seguire, Furla e Versace.

Per quanto riguarda l’energia, entro fine anno dovrebbe debuttare la Compagnia Valdostana delle Acque, ora di proprietà di Regione Valle d’Aosta al 100%.

Passando ai trasporti, Ferrovie dello Stato dovrebbe arrivare in borsa nel 2018, tallonata da Italo che, forse, potrebbe operare un clamoroso sorpasso e precederla nel debutto.

Vera MORETTI

Made in Italy? Passa lo straniero

Premessa: noi di Infoiva siamo sostenitori del made in Italy senza se e senza ma, ma siamo di quelli che non gridano allo scandalo né si stracciano le vesti se pezzi di made in Italy finiscono nelle mani degli stranieri.

Questo perché, spesso, l’intervento dello straniero serve a dare continuità a un brand e a favorirne i livelli occupazionali, evitando che aziende anche blasonate possano chiudere. Se gli stranieri portano idee, capitali, valorizzano la forza lavoro e non snaturano l’essenza dei marchi made in Italy che acquisiscono, ben vengano.

Alla luce di questo, non ci scomponiamo più di tanto di fronte ai dati che emergono da un’analisi di Unimpresa che ha rilevato come gli investitori esteri abbiano superato per la prima volta il 50% di possesso del made in Italy quotato alla Borsa di Milano.

L’analisi di Unimpresa si basa sull’andamento del valore delle aziende italiane nell’ultimo anno, precisamente tra giugno 2014 e giugno 2015, periodo nel quale la capitalizzazione a Piazza Affari delle imprese made in Italy è aumentata di 36 miliardi (+7%), toccando il totale complessivo di 545 miliardi.

Allo stesso tempo la parte di questo made in Italy nelle mani dei grandi gruppi internazionali è salita al 51%, +52 miliardi. Il totale delle loro partecipazioni è ora di 278,7 miliardi di euro. Di contro, il 43% di tutte le imprese, quotate e non, è controllato dalle famiglie, il cui peso nel capitale sociale è pari a 891,2 miliardi, in calo di 28,4 miliardi.

Lo Stato, da ultimo, a giugno 2015 aveva in portafoglio titoli azionari quotati made in Italy per 15,7 miliardi, pari al 2,9% del totale, in calo di 1,1 miliardi (-6,8%) rispetto ai 16,8 miliardi di giugno 2014.

Gli stranieri tornano ad investire nel Made in Italy

Il Made in Italy sta ricominciando ad essere appetibile agli investitori internazionali.
Dopo un periodo nero, con gli investimenti ridotti all’osso, che aveva determinato, tra il 2007 e il 2013, un crollo del 58%, il 2014 ha finalmente registrato una ripresa, con un’impennata di acquisizioni di imprese italiane per un controvalore di 20 miliardi di euro.

Questi dati sono stati resi noti dal rapporto Italia Multinazionale dell’agenzia Ice, in cui, comunque, si evidenzia ancora un gap da recuperare con gli altri paesi europei.
Se, infatti, il rapporto tra investimenti esteri e Pil del nostro Paese è di circa il 20%, meno della metà rispetto alla media Ue, che è assestata al 49%.

Ma secondo Riccardo Monti, il presidente dell’Ice, questi segnali di ripresa rappresentano una rinnovata fiducia nei confronti dell’Italia.

Le premesse ci sono, e sembrano molto chiare: il 2015 è iniziato con l’acquisizione di Pirelli da parte di ChemChina, una maxi opa da 7,5 miliardi di euro, e quella del progetto urbanistico di Milano Porta Nuova, 2 miliardi di valore ora in mano al fondo del Qatar.

Ma, se questi sono investitori orientali, la maggior parte di coloro che sono interessati al Made in Italy provengono da Nord America ed Europa, circa l’85% del totale.
Ma potrebbe trattarsi di una percentuale destinata a scendere, in favore proprio dei Paesi emergenti, come Cina, India, Russia e altri Paesi asiatici, i cui investimenti sono cresciuti del 255% dal 2000 a oggi, contro il +17,5% di Usa e Ue.

Lo stesso trend si nota negli investimenti in Borsa: in 20 società nazionali quotate, è presente almeno un investitore rilevante, con più del 20% delle azioni, che arriva da Paesi Arabi, Cina e Russia.

Altri esempi illustri sono Dainese, lo storico brand di abbigliamento per motociclismo ceduto al fondo d’investimento del Bahrain Investcorp, e la casa di moda vicentina Pal Zileri venduta al fondo del Qatar Mayhoola for Investment.

A farla da padrone, comunque, rimane il settore della manifattura, che è interessato da un terzo degli investimenti. Alcuni pezzi importanti dell’industria tricolore sono, infatti, finiti in mani esperi, come la società di compressori per elettrodomestici Acc di Belluno, passata sotto il controllo dei cinesi di Wanbao Group; Mangiarotti SpA, produttore di componenti per l’industria nucleare, petrolio e gas con sede a Pannellia di Sedegliano (Udine) e stabilimento a Monfalcone, finita nel perimetro degli americani di Westinghouse.

L’interesse degli investitori, inoltre, è sempre più pressante nei confronti di Generali, dove Blackrock, colosso americano del risparmio gestito, ha in mano il 2,61% del capitale, e People Bank of China possiede il 2,2%.

C’è da dire, a onor del vero, che le imprese italiane non fanno esclusivamente la parte delle prede, poiché il saldo entrate-uscite è ancora favorevole al Made in Italy. Sono 11.325 le imprese italiane con partecipazioni all’estero per 1,537 milioni i dipendenti e un fatturato di 565,3 miliardi di euro.
Nel 2013 i maggiori gruppi manifatturieri italiani con organizzazione multinazionale hanno prodotto il 67% dei loro beni all’estero e solo il 9% del fatturato è realizzato in Italia contro il 91% all’estero.

Vera MORETTI

La moda italiana approda in Borsa

L’eccellenza Made in Italy della moda e del design è pronta a fare il grande salto e ad approdare in Borsa.

Secondo Pambianco, società di consulenza nel campo della moda, dopo il debutto, previsto per oggi, di Moncler, altre prestigiose aziende seguiranno questa strada, per arrivare in Piazza Affari entro il prossimo quinquennio.

Nel 2012, le 50 big della moda italiana hanno registrato 15 miliardi di ricavi (+8,1%), ma in rallentamento rispetto al 2011 (quando le vendite erano salite del 10,8%) con una redditività media sui ricavi del 16,9% e un patrimonio netto complessivo di 10,4 miliardi.
Con questi numeri, secondo le stime di Borsa Italiana, le 50 matricole potrebbero raccogliere sul mercato tra 9 e 11 miliardi di euro di risorse da investire nella crescita.

Carlo Pambianco ha dichiarato: “Se tutte le aziende della moda e del lusso si quotassero raggiungerebbero una capitalizzazione di 26,1 miliardi“.
In pratica si raddoppierebbe il valore del comparto visto che l’attuale capitalizzazione delle aziende della moda e del lusso si attesta a 29,7 miliardi, di cui però Luxottica (17 miliardi) pesa per oltre la metà.

Pambianco mette sul podio della moda Giorgio Armani, Ermenegildo Zegna e Dolce&Gabbana, mentre su quello dell’arredamento compaiono Kartell, Flos e B&b.

Luca Peyrano, responsabile per l’Europa dei mercati azionari del London Stock Exchange Group, ha aggiunto: “Quasi il 60% delle quotazioni europee del lusso degli ultimi 4-5 anni sono state fatte a Piazza Affari. Milano vanta dunque una leadership nel settore. Del resto se il mercato italiano è spesso valutato a sconto rispetto ad altre piazze finanziarie, il settore del lusso italiano quota a premio“.

Nella lista delle future quotabili c’è Harmont & Blaine, che pensa a un Ipo per il 2017 e che sta per cedere una quota a un partner di private equity, prima di allora tra chi ha già venduto parte del capitale e non esclude la quotazione c’è Pianoforte Holding, Twin-Set Simona Barbieri, Elizabetta Franchi, Stroili Oro.

Al grande salto, comunque, sarebbero pronte tante grandi, a cominciare da Versace, che sta trattando la vendita di parte del capitale a un fondo, per arrivare a Furla, che ha valutato anche una quotazione a Hong Kong, sono tante le griffe italiane pronte al grande salto.

Vera MORETTI

Tecniche di hedging per le aziende

Le aziende che utilizzano materie prime, di qualunque genere, possono tutelarsi dai rischi di variazione dei prezzi delle medesime attraverso l’utilizzo di strumenti finanziari derivati. I derivati sono nati proprio per questo preciso scopo, fissare un prezzo, una quantità e una data di consegna del bene,  tutelando venditore e acquirente.

Il bene oggetto del contratto si definisce “sottostante”. Per evitare di impegnare troppi capitali, il derivato serve anche ad impegnare le controparti con un esborso ridotto di denaro, rispetto al valore della quantità complessiva del bene in oggetto.

Coprirsi dal rischio aiuta le imprese a raccogliere più facilmente capitale sul mercato. Attraverso le tecniche di hedging le imprese sono in grado di ridurre i costi di raccolta di capitale esterno, con la conseguenza di essere avvantaggiate rispetto ad altri competitor.

Le più recenti ricerche condotte negli Stati Uniti, in particolare rispetto alla copertura del rischio sui tassi di cambio e sul prezzo delle commodities, avvalorano questa ipotesi: le imprese che decidono di adottare tecniche di hedging su ricavi e costi operativi sono significativamente più favorite nel raccogliere capitale sul mercato, sia sotto forma di debito, che di equity.

L’abbattimento del rischio, ottenuto riducendo la volatilità dei flussi di cassa, consente innanzitutto di ridurre il costo del capitale. Inoltre la decisione di ricorrere a tecniche di hedging rappresenta un “buon segnale” rispetto agli

investitori, che apprezzano la maturità manageriale dell’impresa ritenendola più capace di affrontare eventuali crisi di liquidità e di gestire in modo più professionale i propri investimenti.

In questo momento di crisi industriale e di incertezza creditizia, coprirsi dal rischio – attraverso contratti derivati – può quindi costituire un vantaggio competitivo non indifferente.

Gli studi professionali che sono in grado di aiutare l’azienda ad acquisire questo vantaggio, sono senz’altro pochi e quindi ricercati da quei potenziali clienti che abbiano la lungimiranza di comprenderne i benefici.

Inoltre, lo studio professionale che propone un servizio di copertura dal rischio è valutato positivamente anche dai clienti meno attenti a queste problematiche, in quanto si evidenzia loro un problema e si fornisce la soluzione contemporaneamente. Può essere anche un’occasione per ottenere contatti da nuovi clienti.

Da ricordare che la maggior parte delle materie prime è quotata in Borsa e quindi le aziende che le utilizzano possono coprirsi dal rischio. A titolo di esempio posso citare oro, argento, palladio, nichel, rame, grano, caffè, cotone, carne di maiale, succo d’arancia, petrolio…

Inoltre possono essere coperte le variazioni dei tassi di cambio tra euro ed altre valute. Ricordo che le materie prime sono quotate in dollari Usa ed è quindi necessario coprirsi anche dal rischio cambio euro/dollaro.

dott. Marco Degiorgis – Life Planner / Consulente indipendente per la gestione dei patrimoni familiari, Studio Degiorgis

Quanto vale in Borsa la tua città?

Spread, Bot, indici, Ftse… La crisi economica che attanaglia il mondo ci sta facendo familiarizzare, nostro malgrado, con un sacco di termini proprio del mondo borsistico. Pochi però, forse, si rendono conto del fatto che la Borsa è qualcosa che, nella realtà, è molto più vicino alle imprese e alle famiglie di quanto non sembri. Qualcuno si è mai posto il problema, per esempio, di quanto possa valere (o meglio, capitalizzare) in Borsa la propria città?

Lo ha fatto Simon-Kucher & Partners, società di consulenza aziendale, che ha studiato la capitalizzazione azionaria delle imprese nelle varie città italiane. Risultato: Roma, Milano, Torino e San Donato Milanese restano anche per il 2012 le città di maggior capitalizzazione.

La Capitale, nonostante il suo “vestito” da vecchia signora della burocrazia e di centro dei maneggi politici, con 8 aziende e 132 miliardi di euro è ancora in vetta alla classifica. Sebbene vi sia una sola azienda in più quotata rispetto a Milano (8 contro 9), il valore è ben superiore, più del doppio. Anche se si raggruppassero le altre città in provincia di Milano al top della classifica – San Donato Milanese (4°), Sesto San Giovanni (6°) e Basiglio (11°) – la capitalizzazione risulterebbe ancora inferiore rispetto a Roma, nonostante le 13 aziende in confronto alle 9 della Capitale.

Roma deve il suo successo a Eni ed Enel, che da sole superano i 90 miliardi di euro di capitalizzazione. Milano vanta Luxottica e Telecom Italia, Torino Intesa San Paolo, Fiat Auto e Fiat Industrial. San Donato deve la sua presenza in classifica a Saipem e Snam Rete Gas, mentre Trieste, anche quest’anno quinta, deve tutto a Generali.

Lo studio di Simon-Kucher & Partners rileva anche l’incidenza della crisi. Rispetto al 2011 la maggior parte delle città ha subito infatti una diminuzione della capitalizzazione azionaria. Uniche eccezioni Milano, che resta stabile, e Firenze che, grazie a Salvatore Ferragamo, guadagna 10 posizioni passando da una capitalizzazione di 0,71 a quasi 3 miliardi di euro. Brescia con A2A dimezza la propria capitalizzazione ed esce dalla Top 10, perdendo 10 posizioni. Genova, invece, continua a non classificarsi tra le prime 10 città, anzi risulta essere all’ultimo posto. New entry è Modena che raggiunge il 17° posto.

Nella classifica si ritrovano, oltre alle grandi metropoli, anche una serie di piccoli centri urbani: Sesto San Giovanni con Campari, Collecchio con Parmalat, Sant’Elpidio a Mare con il gruppo Tod’s. Tutte città che devono la loro comparsa nel ranking a una sola azienda e, spesso, dipendono fortemente da essa.

La struttura economica decentralizzata è una delle caratteristiche dell’Italia. Le aziende non sono completamente concentrate nella Capitale, come avviene a Parigi o Londra. Siamo più paragonabili alla Germania, dove vi è una maggiore decentralizzazione – spiega Danilo Zatta, Partner di Simon-Kucher -. Ciò rende più regioni partecipi alla vita economica e non solo poche metropoli“.