Burocrazia, il mostro occulto che stritola le imprese italiane

di Davide PASSONI

Che fare impresa in Italia non sia una vocazione ma un martirio è risaputo. Mercato interno bloccato, fiscalità folle, banche che da tempo hanno smesso di essere partner per diventare avversari sono solo alcuni degli ostacoli con i quali l’imprenditore deve lottare ogni giorno.

Ma c’è un mostro che, più di tutti questi messi insieme, spaventa chi fa impresa e fa desistere sul nascere dal diventare imprenditore chi vuole mettersi in proprio: è la burocrazia. Chili e pile di carta per ottenere un’autorizzazione, file e uffici infiniti per avere un timbro, mesi passati ad aspettare invano per poter avere l’ok a costruire un capannone o ad ampliare l’esistente.

I numeri parlano chiaro: la burocrazia costa alle imprese italiane 31 miliardi all’anno. In un momento nel quale di soldi non ce n’è, buttare via in questo modo i pochi che ancora circolano è una bestemmia per chi fa impresa.

Tutto il gran parlare che si fa di digitalizzazione delle pratiche, utilizzo dell’online a scapito della carta, autorizzazioni telematiche per tagliare tempi e costi si riduce, quando va bene, a uno zerovirgola di casi in cui qualcosa funziona e in un novantanovevirgola nei quali siamo alle prese con faldoni e pile di carte bollate da età della pietra.

Questa settimana Infoiva cercherà di capire perché zavorre come queste ancora stanno ai piedi dell’Italia che vuole crescere ma non può. Perché se certi adempimenti burocratici per le imprese sono surreali, gli imprenditori sono invece persone serie e concrete che non vogliono morire di burocrazia. O almeno ci provano.

Apprendistato, questo sconosciuto…

di Davide SCHIOPPA

Paradossi di un’Italia che non vuole crescere. Non che non può, non vuole. Abbiamo uno dei mercati del lavoro più rigidi d’Europa, pur con tutta la buona volontà del ministro Fornero e della sua riforma, e quando si mettono sul piatto strumenti utili a togliere un po’ di gesso facciamo di tutto per non applicarli.

Parliamo, per esempio, del contratto di apprendistato, al quale Infoiva ha dedicato un focus nella settimana appena trascorsa. Lo abbiamo fatto proprio perché, da più parti, abbiamo letto del disappunto per la mancata o farraginosa applicazione della normativa che regola l’apprendistato e della conseguente difficoltà, da parte delle aziende, a proporre questa tipologia di contratto ai neolaureati o, comunque, ai giovani.

Abbiamo voluto vederci un po’ più chiaro, per capire quanto di vero ci sia in questo impasse e, in effetti, abbiamo constatato che sì, il problema esiste: uno strumento dalle buone potenzialità viene tarpato dalla troppa burocrazia. Ma che futuro ha un Paese così? Non che l’apprendistato sia la formula magica che risolve il problema della disoccupazione giovanile in Italia ma, chiediamo, perché non siamo capaci di fare bene una cosa dall’inizio alla fine? Perché siamo sempre il Paese delle cose fatte a metà? Ai giovani il compito di giudicarlo, quando si troveranno senza un futuro.

Leggi i risultati dello studio di Bachelor sugli annunci di lavoro per neolaureati

Leggi l’intervista al Professor Maurizio Del Conte dell’Università Bocconi

Leggi l’intervista al presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, Rosario De Luca

Leggi l’intervista a Enrica Carminati, responsabile di Fareapprendistato.it

L’Italia maglia nera delle tasse

E’ stato reso noto il report annuale redatto da , che analizza le norme fiscali di 185 paesi del mondo e l‘Italia ne esce davvero malconcia.

Romania a parte, il Belpaese è la nazione europea dove il carico fiscale è il peggiore. Facendo una somma tra tasse sugli utili (22,9%)e sul lavoro (43,4%), infatti, va allo Stato ben il 68,3% dei profitti, contro una media europea che arriva al 42,6%.
Gli indicatori con i quali è stata fatta questa classifica, che ha piazzato l’Italia al 133esimo posto, comprendono non solo gli adempimenti fiscali annui, ma anche il tempo speso per portarli a termine.

In base a questi calcoli, l’Irlanda, come lo scorso anno, rimane il paese europeo con la tassazione alle imprese più conveniente, visto che si ferma ad una percentuale di 26,4%, con soli otto adempimenti l’anno. Seguono Danimarca, Lussemburgo, Gran Bretagna, e Olanda.
Nel complesso, le tasse meno elevate si pagano in Lussemburgo (21%) e a Cipro (23%).
Ecco la top ten internazionale: Emirati Arabi, Qatar, Arabia Saudita, Hong Kong, Singapore, Irlanda, bahrein, Canada, Kiribati (Oceania), Oman.

La maglia nera attribuita all’Italia è dovuta soprattutto al numero di pagamenti, che nel corso dell’anno è pari a 15. Ma, se questo dato, preso singolarmente, sarebbe anche positivo, tanto da farci risalire posizioni fino ad arrivare al 59esimo posto, è la burocrazia ad appesantire il meccanismo, visto che per tutti gli adempimenti un’impresa perde mediamente 269 ore l’anno.

L’unico paese europeo in cui le tasse sul lavoro sono più alte che in Italia è il Belgio, al 50,8%, livello però compensato dal 5,4% di imposte sugli utili.

Vera MORETTI

Confcommercio boccia l’aumento dell’Iva

Dopo avere ripetutamente dichiarato che il primo obiettivo della spending review e della legge di stabilità sarebbe stato quello di evitare, a partire dal prossimo mese di luglio, l’aumento di due punti percentuali delle aliquote IVA, il Governo ha deciso, nella seduta del Consiglio dei Ministri di ieri conclusasi a notte avanzata, di procedere alla riduzione di un solo punto dei programmati aumenti IVA e, contestualmente, di ridurre di un punto l’aliquota Irpef sui primi due scaglioni di reddito. E’ il caso di dire che la notte non ha portato consiglio“.

Bocciata su tutta la linea da parte di Confcommercio-Imprese per l’Italia la manovra elaborata dal Governo con la Legge di Stabilità che prevede un incremento per le aliquote Iva dal primo luglio 2013 dal 21 al 22%, per l’aliquota ordinaria e dal 10 all’11% per l’aliquota agevolata, cui fanno da contraltare le riduzioni delle aliquote Irpef dal 23 al 22% per il primo scaglione (fino a 15.000 euro) e dal 27 al 26% per il secondo scaglione (da 15.001 euro a 28.000 euro).

Per Confcommercio si tratta, infatti, di un duplice errore di metodo e di merito: di metodo, perché gli obiettivi fondamentali dell’azione di politica economica del Governo non possono essere repentinamente rimessi in discussione; di merito, perché l’aumento dell’aliquota IVA del 10 per cento all’11 % e dell’aliquota Iva del 21% al 22 %, in un contesto ancora pienamente recessivo e segnato dall’estrema debolezza della domanda interna, genererà effetti pesantissimi a carico dei consumi e degli investimenti, delle imprese e dell’occupazione. Effetti che non saranno neppure compensati dalle riduzioni IRPEF, posto che gli aumenti IVA incideranno maggiormente proprio sugli scaglioni di reddito più bassi, a partire dai soggetti fiscalmente incapienti”.

Secondo le stime elaborate da Confcommercio l’aumento dell’Iva comporterà nel 2014 una perdita dei consumi correnti tra 5 e 7 miliardi di euro. In particolare i 5 miliardi ‘guadagnati’ dalla riduzione delle imposte dovute all’Irpef verranno largamente mangiati dall’incremento dell’Iva, che su base annua si aggirerà attorno ai 7 miliardi di euro. In questo scenario, destinata a crescere infatti è l’inflazione:la modificazione di tutti i prezzi dovuta all’incremento dell’Iva, che comporterà un gradino di 8 decimi di punto nel luglio 2013, per un’inflazione che passerà nella media del 2013 dal previsto +1,8% a +2,2%, ridurrà il valore, in termini di potere d’acquisto, di tutti i risparmi attualmente detenuti dalle famiglie – continua Confcommercio. – E’ verosimile una riduzione dei consumi nel 2013 rispetto allo scenario di base (-0,8%) di un ulteriore decimo di punto (quindi a -0,9%). Ovviamente gli effetti sul 2014 sono ben peggiori e quantificabili complessivamente in 3-4 decimi di punto (da +0,5 a +0,1-0,2%). L’inflazione nel 2014 passa dal 2,0% dello scenario di base a 2,4% dello scenario con incremento Iva”.

L’inasprimento dell’aliquota IVA ridotta penalizzerà poi prodotti alimentari, e ricadrà a domino sull’impresa turistica e sul settore delle ristrutturazioni edilizie: “evidentemente il Governo non ha considerato che i turisti stranieri non godono della riduzione delle nostre aliquote Irpef mentre dovranno pagare di più per i prezzi interni che cresceranno perché l’Iva aumenta dal 10% all’11%” sottolinea Confcommercio.

Il presidente di Confcommercio-Imprese per l’Italia Carlo Sangalli ci tiene poi a sottolineare che la decisione dell’aumento dell’Iva non è stata discussa tra Governo e parti sociali: per ridurre la pressione fiscale, che in Italia pesa per il 55%, la via maestra da perseguire è quella della lotta all’evasione e all’elusione fiscale,così pure devono andare avanti i processi di dismissione del patrimonio pubblico e le semplificazioni per abbattere la tassa della burocrazia”. La strada per la crescita è ancora lontana.

Alessia CASIRAGHI

Casa, cara casa. Crisi, cara crisi

di Davide PASSONI

Questo scorcio di agosto ci sta riservando delle sorprese non belle per quanto riguarda la cosiddetta “economia reale“. Ossia l’unica, perché un’economia irreale non è un’economia e l’unica, vera economia che conosciamo noi di Infoiva è quella fatta di fatturati, mercati, commesse e, ahinoi, tassazione e fiscalità. Comunque, al di là dei punti di vista, l’allarme lanciato dall’Ufficio studi di Confartigianato è di quelli che mettono i brividi a quanti operano nel settore dell’edilizia e a quanti, con questo settore, hanno a che fare per comprare una casa: a maggio 2012 il tasso d’interesse sui prestiti alle famiglie si è attestato al 4,12% (+103% su un anno), il che porta gli italiani a sborsare il 30,9% del reddito per pagarsi i mutui. E per il settore, numeri ancora più cupi: crollo per le compravendite (-17,8%) e crisi nera per l’edilizia, che in un anno a perso quasi 100mila posti di lavoro (-97800).

La crisi, direte voi. Sì, ma non dimentichiamoci del fatto che la crisi non è come un fungo, che spunta in una notte sotto un pino, basta un po’ di umido… La crisi è qualcosa che una volta aveva a che fare con Lehman Brothers, ma che con il tempo è invece diventata un baco strutturale del sistema economico occidentale, specialmente europeo. Una crisi che affonda le sue radici nella debolezza dell’area Euro, una debolezza complessiva e specifica per ciascun Paese a seconda dei problemi che si porta dietro. L’Italia, si sa, a differenza degli altri anelli deboli dell’eurocatena (Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda) ha dei fondamentali solidi ma tre zavorre immani, che trascinerebbero a fondo i pochi mesi qualsiasi economia che non avesse i nostri fondamentali (e almeno per questo possiamo farci i complimenti): spesa pubblica, burocrazia, fisco.

E proprio queste zavorre tutte italiane sono alla base di questo momentaccio dell’edilizia. Se infatti, come sostiene Confartigianato, le cifre della crisi del mattone sono dovute agli scarsi investimenti pubblici e privati, i motivi di questi scarsi investimenti stanno proprio lì. Chi investe per costruire case con una burocrazia obesa nelle gestione delle pratiche edilizie e urbanistiche e con una fiscalità che si mangia i due terzi dei profitti? Chi investe per comprare casa se si trova di fronte a tassi pesantissimi richiesti dalle banche e una tassa come l‘Imu che, a detta di Adusbef e Federconsumatori, insieme all’aumento di tariffe, treni, carburanti, alimentari e libri scolastici, costerà alle famiglie italiane, in questo 2012, 2333 euro in più rispetto allo scorso anno?

I numeri sono numeri: tra giugno 2011 e giugno 2012 le imprese del settore edile, pari a 899.602, sono diminuite dell’1,36%. Tra queste, in calo dell’1,17% anche le imprese artigiane, che sono la fetta più consistente del settore edile: 577.588, il 64,2% del totale. Ragion per cui, tra giugno 2011 e marzo 2012 l’occupazione nell’edilizia è diminuita del 5,1%, pari a 97.800 posti di lavoro in meno.

Insomma, va bene la crisi, e va bene fare “i compiti a casa” per non essere sbattuti fuori dall’area euro, ma che cosa stiamo facendo come Italia per far ripartire la crescita? Che cosa stiamo facendo per far ripartire il settore edile, uno di quelli che è sempre stato il motore della ripresa nel nostro Paese dopo ogni crisi, bellica o economica che fosse? Se lo stanno chiedendo anche quelle 100mila persone che hanno perso il loro lavoro nel mattone. Forse, se hanno ancora voglia di porsi delle domande.

Cgia di Mestre: la burocrazia è una ‘tassa occulta’ che grava sempre più

Le piccole e medie imprese sono soffocate dalla burocrazia, una ‘tassa occulta’ che costa al sistema delle Pmi 26,5 miliardi di euro e che pesa su ciascuna azienda 6.000 euro l’anno. Un vero e proprio fardello, insomma. Rispetto a poco più di un anno fa questa ‘tassa occulta’ è aumentata di 3,4 miliardi di euro (+14,7%). Sono questi i drammatici risultati a cui è giunta la Cgia di Mestre che, grazie al lavoro del suo Ufficio studi, ha analizzato il costo della burocrazia che incombe sul mondo delle Pmi italiane, imprese con meno di 250 addetti. I costi sono stati calcolati dalla Cgia su base annua e sono aggiornati al mese di maggio del 2012.

Analizzando i dati della ricerca della Cgia in dettaglio, emerge che il settore che incide di più sui bilanci delle Pmi è quello del lavoro e della previdenza: la tenuta dei libri paga; le comunicazioni legate alle assunzioni o alle cessazioni di lavoro; le denunce mensili dei dati retributivi e contributivi; l’ammontare delle retribuzioni e delle autoliquidazioni costano al sistema delle Pmi complessivamente 9,9 miliardi all’anno (6,9 miliardi in capo al lavoro, 3 miliardi riconducibili alla previdenza e all’assistenza).

La sicurezza nei luoghi di lavoro, rileva ancora la Cgia di Mestre, pesa sul sistema imprenditoriale per un importo complessivo pari a 4,6 miliardi di euro. La valutazione dei rischi, il piano operativo di sicurezza, la formazione obbligatoria del titolare e dei dipendenti sono solo alcune delle voci che compongono i costi di questo settore.

L’area ambientale, invece, pesa sul sistema delle pmi per 3,4 miliardi di euro l’anno. Le autorizzazioni per lo scarico delle acque reflue, la documentazione per l’impatto acustico, la tenuta dei registri dei rifiuti e le autorizzazioni per le emissioni in atmosfera sono le voci che determinano la gran parte degli oneri di questa sezione.

Di rispetto anche il costo amministrativo che le aziende devono ‘sopportare’ per far fronte agli adempimenti in materia fiscale. Le dichiarazioni dei sostituti di imposta, le comunicazioni periodiche ed annuali Iva, etc, costano complessivamente 2,7 mld di euro. Gli altri settori che incidono sui costi amministrativi delle pmi sono la privacy (2,6 mld di euro), la prevenzione incendi (1,4 mld di euro), gli appalti (1,2 mld di euro) e la tutela del paesaggio e dei beni culturali (0,6 miliardi di euro).

Professionisti, ecco la ricetta anticrisi

La pioggia di tasse, gli investimenti in calo e la troppa burocrazia. La libera professione in Italia sembra essere diventata un privilegio per pochi. E per chi ha scelto di mettersi in proprio, le difficoltà  non si contano. E’ di qualche giorno fa la notizia secondo la quale, in base al nuovo ddl sulla spending review, anche i liberi professionisti potranno compensare i crediti vantati nei confronti della Pubblica Amministrazione con le eventuali posizioni debitorie nei confronti del Fisco.

Ma che cosa potrebbe fare concretamente il Governo per favorire la crescita e lo sviluppo della libera professione in Italia? Lo abbiamo chiesto a tre professionisti: un agente immobiliare, un pubblicitario e un commercialista. Per capire qual è la temperatura che si respira nel settore della compravendita di immobili, nel mondo della comunicazione e nella selva intricata di chi ogni giorno ha a che fare con tasse e fisco. E scoprire qual è la loro ricetta anticrisi. Ecco il video.

Alessia CASIRAGHI

Eni, Italgas e la beffa del gas che non c’è

di Davide PASSONI

HAI UNA STORIA SIMILE? SCRIVIMI: direttore@ejournal.it

Chiedo scusa fin da subito ai lettori se occupo questo spazio con una vicenda di carattere privato, ma penso che possa servire a quanti sono nella mia situazione e che sia un esempio di cattiva Italia, di quell’Italia che noi di Infoiva non amiamo.

Tutto ha inizio con la mia richiesta al call center Eni in data 4 febbraio per attivare una nuova fornitura di gas nella mia nuova abitazione. Una fornitura esclusivamente per uso cottura, visto che nel condominio è installata una centrale termica comune che regola l’erogazione di gas per riscaldamento e acqua calda. E qui avviene il pasticcio irrimediabile. Quando, dopo parecchi giorni, ricevo per posta la copia del contratto precompilata, noto che l’utilizzo indicato è cottura+riscaldamento+acqua calda: un errore da parte dell’operatore che avrebbe condizionato tutto l’iter successivo.

Si dà il caso, infatti, che questa tipologia d’uso presume che il cliente abbia una caldaia installata in casa propria, cosa che implica la spedizione a Italgas, titolare della posa in opera del contatore, di alcuni allegati tecnici da compilare a cura dell’installatore della caldaia stessa. Peccato che, non avendo io la caldaia in casa, non posso far compilare ad alcuno questa documentazione. Mi reco presso uno store Eni e mi dicono che la variazione d’uso sarebbe stata fatta dopo l’invio della prima bolletta. Chiedo al customer care al telefono e ricevo la stessa risposta. Illuso, anticipo via fax il 6 marzo a Eni che avrei spedito la documentazione correggendo l’errore e senza gli allegati tecnici compilati dall’installatore (visto che non ero tenuto a farlo) e, il 9 marzo, spedisco il tutto ai due soggetti, via posta ordinaria a Eni, via raccomandata A/R a Italgas, come richiesto. Pensando che i due enti dialoghino tra loro. Illuso.

Attendo sereno che passino i 10 giorni lavorativi (!!) minimi dalla ricezione dei documenti che si prende Italgas per gestire la pratica di posa del contatore e, visto che nulla accade, comincio a chiamare il call center Eni. Sì, perché Italgas è un fortino inespugnabile: non un numero di telefono, di fax o un indirizzo e-mail da contattare per chiarimenti. Nulla. Alla faccia della trasparenza. Sorpresa. Da Eni mi dicono che la pratica è bloccata perché a Italgas mancano gli allegati tecnici. Provo a spiegare e rispiegare che ho spedito un fax, che questi allegati tecnici non li ho spediti perché non ho la caldaia in casa, chiedo loro di correggere l’errore sul contratto per fare in modo che Italgas capisca che questi allegati tecnici io non li devo produrre, ma niente. Prima mi viene detto ancora che la variazione d’uso sarebbe stata fatta dopo l’invio della prima bolletta; spiego che non avrò mai una prima bolletta, visto che nessuno mi installerà il contatore con questa impasse. “Inoltriamo la segnalazione“, mi dicono. Poi, da lì, almeno una chiamata ogni due giorni per due settimane, ogni volta con risposte diverse da parte dell’operatore: la segnalazione è in lavorazione, la segnalazione è in mano all’ufficio competente, bla bla bla. Fatto sta che l’impasse non si sblocca, il contatore non c’è, mia figlia di 3 anni mangia come può roba cotta con tanti disagi sull’unica piastra elettrica di casa.

Esasperato dai minuti passati al telefono, dalle volte in cui l’operatore del call center di Eni mi dice che ci sono aggiornamenti di sistema in corso per favore richiami tra un’ora, dalle risposte contradditorie, decido di rivolgermi a un gestore alternativo: tanto, penso, se la pratica di là è ferma, chissenfrega, la lasciamo morire. E invece no! Il gestore alternativo mi dice di sincerarsi che presso Italgas non sia occupato il mio PDR, ossia un codice univoco che identifica il punto fisico in cui il gas viene consegnato dal fornitore e prelevato dal cliente finale: perché loro possano procedere all’attivazione, non deve essere attiva alcuna richiesta di allaccio. Chiamo Eni e, naturalmente, scopro che il PDR è occupato dalla mia precedente richiesta. Chiedo di annullare tutto, richiesta di contratto e posa del contatore. “Mandi un fax“. Mando un fax in data 28 marzo e ricomincio le mie chiamate quotidiane al call center, per qualche giorno sentendomi rispondere “il fax è arrivato ma non è ancora stato lavorato“, fino a che il giorno 30 marzo un operatore mi dice che il PDR è libero. Via, si chiama il gestore alternativo. Che al momento di attivare la richiesta mi dice che il PDR è occupato. Furia. Richiamo il call center Eni col sangue agli occhi il 3 aprile e, per la prima volta dopo una dozzina e più di chiamate, trovo un operatore cortese e customer oriented che si sbatte per ricostruire tutta la vicenda (Maurizio, codice 18613: dategli un aumento, passatelo di grado) e, dopo avermi tenuto 28 minuti e rotti al telefono, scopre che, mentre da Eni il mio contratto è stato annullato, da Italgas è stata forzata l’attivazione in data 17 marzo, bloccando ancora PDR e tutto il resto.

Maurizio codice 18613 fa quello che è nelle sue possibilità segnalando l’assoluta urgenza dell’annullamento in toto della pratica e la necessità di contattarmi una volta fatto. Talmente urgente che richiamo il 5 aprile e mi sento rispondere che la pratica non è ancora stata gestita, “a questo punto se ne riparla dopo Pasqua“. E no, se ne riparla ora, su queste pagine, sui social network e ovunque si possa fare casino. Perché dopo ben 2 mesi sono stufo di pagare, io e la mia famiglia, per un errore fatto a monte dall’operatore che ha innescato una catena cui pare impossibile porre rimedio; per l’insipienza di tanti operatori telefonici che, più che la volontà di aiutare il cliente, cercano di chiudere la telefonata il più in fretta possibile e senza grane; per una società, Italgas, che nemmeno la Cia: scommetto che è più facile trovare online il numero di telefono di Barack Obama.

Signori, siamo nel 2012 e questa è la situazione dell’ex monopolista del gas in Italia, che si comporta come se fosse ancora il padrone del vapore, in barba al mercato libero. HAI UNA STORIA SIMILE? SCRIVIMI: direttore@ejournal.it. Più siamo, più possiamo.

E intanto continuo a cucinare sulla piastra elettrica.

Burocrazia: ma quanto mi costi?


Piccole e medie imprese costrette a fare i conti con una burocrazia sempre più cara e severa. Secondo le stime della Cgia di Mestre il peso degli obblighi contributivi in materia di lavoro, ambiente, privacy, sicurezza sul lavoro e prevenzione incendi peserebbe sulle azienda per una cifra che raggiunge quota 23 miliardi di euro l’anno. Il settore che incide maggiormente sui bilanci delle pmi resta comunque quello del lavoro e della previdenza sociale.

Qualche dato? Fra tenuta dei libri paga, comunicazioni legate alle assunzioni o alle cessazioni di lavoro, denunce mensili dei dati retributivi e contributivi, retribuzioni e autoliquidazioni le piccole e medie imprese italiane si vedono sfilare dalle tasche 9,9 miliardi di euro l’anno.

“Se con un colpo di bacchetta magica fossimo in grado di ridurne il costo della metà – ha sottolineato il segretario della Cgia di Mestre, Giuseppe Bortolussi – libereremo 11,5 miliardi di euro all’anno che potrebbero dar luogo, almeno teoricamente, a 300.000 nuovi posti di lavoro”. Il macigno della burocrazia costringe le imprese a diffidare dalle nuove assunzioni, paralizzando e ostacolando la crescita del nostro sistema economico.

A gravare sul bilancio delle pmi per un valore di 3,4 miliardi di euro l’anno, sono inoltre le spese inerenti alla salvaguardia dell’ambiente: autorizzazioni per lo scarico delle acque reflue, impatto acustico, la tenuta dei registri dei rifiuti e le autorizzazioni per le emissioni in atmosfera sono voci con cui bisogna confrontarsi a fine anno.

Il conto della burocrazia si fa sempre più salato se si guarda alle altre voci in bilancio:

2,8 miliardi di euro per gli adempimenti amministrativi (dichiarazioni dei sostituti di imposta, comunicazioni periodiche ed annuali Iva)
2,2 miliardi di euro per la privacy
1,5 miliardi di euro per la sicurezza sul lavoro 1,4 miliardi di euro per la prevenzione incendi
1,2 miliardi di euro per gli appalti
600 mila euro per la tutela del paesaggio e dei beni culturali

Il peso della burocrazia schiaccia le pmi

di Vera MORETTI

La burocrazia pesa, non solo per l’iter da percorrere per rispettarla, ma anche se si pensa al tempo, e al denaro, che spesso si perdono tra una procedura e l’altra.
In termini di denaro, poi, se, per le grandi imprese, si tratta, tutto sommato, di spese gestibili e non così onerose, considerando l’ampio giro d’affari, per le Pmi la musica è ben diversa.

E’ stato stimato, infatti, che le spese burocratiche per le piccole e medie imprese sono di 23,1 miliardi di euro all’anno. Ciò significa che ogni azienda italiana con meno di 250 dipendenti sborsa, in burocrazia, 5.269 euro. E scusate se è poco.

Alla luce di questi dati, calcolati dal Cgia di Mestre, Giuseppe Bortolussi, segretario Cgia, ha dichiarato: “L’inefficienza della Pubblica amministrazione, l’applicazione spesso cervellotica di leggi, circolari e regolamenti vari si abbatte in maniera piu’ decisa sulle piccole e micro imprese che su quelle medie o grandi. Quest’ultime sono chiaramente più strutturate organizzativamente e possono, quindi, affrontare con minori difficoltà e con costi più contenuti, gli adempimenti richiesti dalla legislazione italiana. Per questo la misura che il Governo ha approvato va nella direzione giusta, anche se deve tenere conto delle specificità dimensionali delle imprese italiane. Purtroppo, nonostante gli sforzi compiuti in questi ultimi 15 anni, il carico sulle piccolissime aziende rimane ancora eccessivo“.

Ad incidere maggiormente sulle spese è il settore del lavoro e della previdenza, ovvero libri paga, comunicazioni legate alle assunzioni o alle cessazioni di lavoro, denunce mensili dei dati retributivi e contributivi. Inoltre, ricordiamo che l’ammontare delle retribuzioni e delle autoliquidazioni costano 9,9 miliardi l’anno, mediamente 2.270 euro per azienda.

L’ambiente ha un forte impatto sui bilanci delle pmi, con un peso di 3,4 miliardi di euro l’anno, mediamente 778 euro ad impresa. Si tratta di autorizzazioni per lo scarico delle acque reflue, documentazione per l’impatto acustico, tenuta dei registri dei rifiuti ed autorizzazioni per le emissioni in atmosfera.

Anche gli adempimenti in materia fiscale hanno un costo che, per dichiarazioni dei sostituti di imposta, comunicazioni periodiche ed annuali Iva, oltre ad altre varie ed eventuali, raggiunge complessivamente 2,8 mld di euro, circa 629 euro per ogni pmi.

Gli altri settori che incidono sui costi amministrativi delle pmi sono la privacy (2,2 mld), la sicurezza sul lavoro (1,5 mld), la prevenzione incendi (1,4 mld), gli appalti (1,2 mld) e la tutela del paesaggio e dei beni culturali (0,6 miliardi).