Carico fiscale in calo ma ancora sopra la media Ue

Nel 2016 le aziende italiane, come è stato confermato dal Total tax & contribuition rate, hanno visto diminuire il proprio carico fiscale e contributivo del 48%, e questo grazie agli sgravi contribuiti portati dalle assunzioni a tempo indeterminato.

Nonostante ciò, però, il Ttcr è ancora al di sopra della media mondiale, attestata al 40,5%, ed europea, al 39,6%.
Occorrerà lavorare ancora in questo senso, ma sembra che l’Italia sia sulla strada giusta. Anche se alcune criticità rimangono.

L’Italia ha comunque un Ttcr inferiore rispetto ad altre economie avanzate come Germania, Svezia, Belgio e Francia, ma questo posizionamento favorevole potrebbe migliorare ancora, se si mantenesse il trend del 2016.

Tra i punti cruciali c’è il trattamento di fine rapporto, che sia nel 2016 sia negli anni precedenti era compreso nel Ttcr.
Nel 2016, il Tfr ha pesato per 8,6 punti percentuali sul Ttcr italian e ad oggi la classificazione del Tfr è oggetto di discussione tra l’amministrazione finanziaria italiana e la Banca Mondiale.

Vera MORETTI

Tasse: nessun beneficio per le piccole imprese

Il carico fiscale continuerà, almeno ancora per un anno, a gravare sulle spalle delle piccolissime imprese, mentre quelle di grandi e medie dimensioni potranno beneficiare di importanti sgravi e snellimenti.

Questo è quanto è stato rilevato dall’Ufficio Studi della Cgia, che ha fatto i conti partendo dal taglio dell’Ires, che è scesa di 3,5 punti attestandosi al 24%, e che dunque farà risparmiare 3,9miliardi di euro alle società, mentre le piccole e micro imprese sono state svantaggiate dall’introduzione dell’Iri, che infatti non potranno risparmiare 1,2 miliardi all’anno. Motivo di questo rinvio è semplicemente la mancanza di copertura finanziaria.

Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio Studi della Cgia, ha dichiarato: “Pur riconoscendo che, rispetto a qualche decennio fa, tra le società di capitali troviamo anche le piccole imprese è indubbio che il taglio dell’Ires ha avvantaggiato soprattutto le grandi, in particolar modo quelle appartenenti al settore energetico e a quello minerario. E sebbene la riduzione dell’Ires sia stata in parte bilanciata dall’attenuazione degli effetti positivi dell’Ace, ancora una volta si è prestata attenzione solo alle istanze sollevate dalle imprese di maggiore dimensione, mentre alla stragrande maggioranza delle attività che non pagano l’Ires non è stato riservato alcun vantaggio fiscale”.

Inoltre, alle società di capitali è stata ridimensionata l’Ace, misura che è nata qualche anno fa per premiare le imprese che capitalizzavano. Questa mossa avrà un impatto economico negativo di 1,7 miliardi di euro, quindi agli effetti positivi del taglio dell’Ires va sottratto il ridimensionamento dell’Ace che, comunque, consente alle società di capitali di “guadagnare” 2,2 miliardi di euro all’anno.

Renato Mason, Segretario della Cgia, ha inoltre aggiunto: “Oltre a ridurre il peso delle tasse è necessario, in particolar modo per le micro imprese, diminuire anche il numero di adempimenti fiscali che, invece, continua ad aumentare e costituisce un grosso problema per moltissime attività. Non dobbiamo dimenticare che i più penalizzati da questa situazione, così come avviene per le tasse, sono le piccole e piccolissime imprese che, a differenza delle realtà più grandi, non dispongono di una struttura amministrativa in grado di farsi carico autonomamente di tutte queste incombenze”.

Ma chi beneficerà maggiormente della riduzione dell’Ires? In primis le aziende riconducibili alla fornitura di energia elettrica e gas, che risparmieranno poco più di 39.300 euro, ma anche le attività di estrazione, che risparmieranno 34.000 euro.

L’unica novità fiscale positiva per le piccolissime imprese sarà l’addio agli studi di settore che verranno sostituiti dagli indicatori di affidabilità economica.

Ha concluso in proposito Zabeo: “Per molti lavoratori sarà la fine di un incubo anche se sarà necessario monitorare il periodo di transizione di questi nuovi strumenti. I nuovi indicatori di affidabilità fiscale che sostituiranno gli studi di settore, infatti, dovranno garantire una riduzione delle tasse e una maggiore semplificazione nei rapporti con il fisco. Altrimenti, questa novità servirà a poco. Per questo è determinante che nella fase di gestazione di questi indicatori sia determinate il ruolo delle associazioni di categoria dei lavoratori autonomi, che meglio di chiunque altro conoscono le specificità e le caratteristiche fiscali delle attività interessate da questa novità”.

Vera MORETTI

L’Italia maglia nera delle tasse

E’ stato reso noto il report annuale redatto da , che analizza le norme fiscali di 185 paesi del mondo e l‘Italia ne esce davvero malconcia.

Romania a parte, il Belpaese è la nazione europea dove il carico fiscale è il peggiore. Facendo una somma tra tasse sugli utili (22,9%)e sul lavoro (43,4%), infatti, va allo Stato ben il 68,3% dei profitti, contro una media europea che arriva al 42,6%.
Gli indicatori con i quali è stata fatta questa classifica, che ha piazzato l’Italia al 133esimo posto, comprendono non solo gli adempimenti fiscali annui, ma anche il tempo speso per portarli a termine.

In base a questi calcoli, l’Irlanda, come lo scorso anno, rimane il paese europeo con la tassazione alle imprese più conveniente, visto che si ferma ad una percentuale di 26,4%, con soli otto adempimenti l’anno. Seguono Danimarca, Lussemburgo, Gran Bretagna, e Olanda.
Nel complesso, le tasse meno elevate si pagano in Lussemburgo (21%) e a Cipro (23%).
Ecco la top ten internazionale: Emirati Arabi, Qatar, Arabia Saudita, Hong Kong, Singapore, Irlanda, bahrein, Canada, Kiribati (Oceania), Oman.

La maglia nera attribuita all’Italia è dovuta soprattutto al numero di pagamenti, che nel corso dell’anno è pari a 15. Ma, se questo dato, preso singolarmente, sarebbe anche positivo, tanto da farci risalire posizioni fino ad arrivare al 59esimo posto, è la burocrazia ad appesantire il meccanismo, visto che per tutti gli adempimenti un’impresa perde mediamente 269 ore l’anno.

L’unico paese europeo in cui le tasse sul lavoro sono più alte che in Italia è il Belgio, al 50,8%, livello però compensato dal 5,4% di imposte sugli utili.

Vera MORETTI

Apprendistato, un aiuto concreto per i giovani?

 

Garantisce un costo del lavoro più basso, perchè ne riduce il costo contributivo, ma è ancora troppo poco adottato dalla piccole e medie imprese per la sua complessità normativa e di gestione. Il contratto di apprendistato potrebbe rivelarsi un valido strumento per incentivare l’assunzione dei giovani in un momento in cui la disoccupazione giovanile ha raggiunto picchi storici e in cui la crisi economica non può più fungere da unico capro espiatorio.

Ma perchè le aziende faticano ancora a preferire il contratto di apprendistato? Oggi Infoiva ne discute con il Professor Maurizio Del Conte, Docente di Diritto del Lavoro presso l’Università Bocconi di Milano. Perchè per garantire un futuro a un’intera generazione che oggi viaggia ‘sul filo del rasoio’ della disoccupazione occorre agire adesso.

L’apprendistato avrebbe dovuto essere il canale d’ingresso principale dei giovani nel mercato del lavoro, ma a oggi pare fatichi ancora a decollare? Perché? Quali sono i suoi limiti?
Purtroppo l’apprendistato sconta una storia fatta di incertezze regolative, dove la indicazione del tipo di formazione – on the job o in aula – ed i suoi stessi contenuti sono rimasti appesi all’inerzia delle Regioni e della contrattazione collettiva nel regolare la materia. Il testo unico del 2011, rilanciato dalla riforma “Fornero”, dovrebbe spingere nel senso di un pieno completamento della disciplina, ma è necessario un maggiore impegno di Regioni e parti sociali.

La complessità normativa di questo tipo di contratto gioca a suo sfavore?
Il maggior ostacolo al ricorso all’apprendistato da parte delle imprese è proprio la complessità della disciplina e della gestione operativa degli apprendisti. Molto spesso i direttori del personale preferiscono rinunciare ai vantaggi del contratto di apprendistato, ritenuto troppo oneroso in termini di tempo e risorse organizzative da dedicare per ogni apprendista. Oltretutto, con il rischio di vedersi condannati a restituire gli sgravi contributivi nel caso si commetta qualche errore nella complicata gestione burocratica del contratto.

Perché un’azienda dovrebbe scegliere questo tipo di contratto piuttosto che un altro?
L’apprendistato potrebbe essere estremamente interessante per le imprese perché, da un lato, riduce significativamente il costo contributivo del lavoro e, dall’altro, garantisce la possibilità di formare il giovane neoassunto secondo le esigenze specifiche dell’organizzazione aziendale. Insomma un investimento nella qualità del lavoro ad un costo ragionevole. Nel panorama contrattuale a disposizione delle imprese non c’è nulla di altrettanto appetibile.

Ad oggi, alle piccole e medie imprese conviene stipulare contratti di apprendistato?
In teoria sì, ma la realtà ci dice che sono proprio le imprese meno strutturate ad essere maggiormente diffidenti nei confronti dell’apprendistato. Questo perché, vista la complessità di cui si è detto, all’interno delle piccole aziende non ci sono le risorse organizzative sufficienti per seguire gli apprendisti. Un’iniziativa importante, che dovrebbe essere estesa a tutto il territorio, è quella appena lanciata da Regione Lombardia, che finanzia le piccole e medie imprese che si avvalgano di operatori esterni accreditati per la gestione degli apprendisti.

Esistono, secondo lei, strumenti migliori per incentivare l’occupazione giovanile?
In questi tempi di grave congiuntura economica lo strumento più efficace per incentivare l’assunzione dei giovani sarebbe una decisa riduzione del costo del lavoro dovuto al carico fiscale/previdenziale. In attesa di vedere provvedimenti legislativi in questo senso, l’apprendistato garantisce un costo del lavoro più basso anche se, dobbiamo ricordarlo, un apprendista alterna il lavoro alla formazione e, dunque, nel breve periodo rende di meno di un lavoratore già formato.

Qual è il vero problema del mercato del lavoro in Italia? Pensa sia ancora troppo rigido, specialmente per quanto riguarda i vincoli di ingresso?
A mio avviso il vero problema è la bassa produttività del lavoro nel confronto con i paesi nostri diretti concorrenti. Mentre si profondevano fin troppo tempo ed energie in operazioni di ingegneria contrattuale e del mercato, il lavoro si andava drammaticamente assottigliando e quello che ancora resta è sempre meno produttivo. Il risultato è che stiamo scivolando verso un lavoro che produce minor valore aggiunto, rendendo le nostre imprese meno competitive nei mercati più ricchi e deprimendo ulteriormente i salari e la domanda interna. E’ un circolo vizioso che deve essere interrotto, pena un declino irreversibile del nostro sistema industriale nel mercato globalizzato.

Situazioni straordinarie come quella attuale per le imprese, l’economia e il lavoro, necessitano di iniziative e progetti straordinari: secondo lei il Paese e il governo stanno dando segnali positivi in tal senso?
Finora il governo si è concentrato nel ridurre la spesa per riportare i parametri del bilancio pubblico entro limiti accettabili dai mercati finanziari. Tuttavia senza l’impulso della spesa pubblica nessuna economia è mai riuscita ad uscire stabilmente da una fase di recessione economica grave come quella che stiamo attraversando. Dunque si pone un problema di dover sostenere la spesa pubblica in questa congiuntura straordinariamente negativa. Personalmente credo che non si possa più affrontare una disoccupazione che tocca ormai oltre un terzo dei giovani come se si trattasse di un semplice effetto collaterale della crisi. Quando raggiunge questa magnitudine, la disoccupazione diventa essa stessa causa della recessione. Per combatterla occorrono misure straordinarie, mettendo in campo risorse finanziarie straordinarie. Come ho già detto, la riduzione del cuneo fiscale è la prima e ormai indifferibile misura da prendere se si vuole produrre uno shock positivo sul mercato del lavoro. Dall’inizio della crisi sono state investite enormi risorse finanziarie per conservare i posti di lavoro già esistenti, ma pochissimo è stato speso per aiutare un’intera generazione di giovani che rischia di restare tagliata fuori anche dalla ripresa economica, quando finalmente ci sarà. Se si vuole scongiurare questo rischio occorre agire adesso.

Alessia CASIRAGHI