L’Italia che si arrende, emigrare a 40 anni

Secondo l’ultima ricerca del Centro Studi Cna (Confederazione Nazionale dell’Artigianato) dedicata alle Nuove emigrazioni, sarebbero oltre 125mila gli italiani di mezza età (tra i 40 e i 49 anni) che solo nel 2013 avrebbero lasciato il nostro Paese per ricominciare una nuova vita all’estero. Non giovani neolaureati delusi e dalle prospettive assai limitate, ma adulti, spesso con i capelli grigi e una famiglia da mantenere, che hanno deciso di abbandonare l’amata/odiata terra natia per tentare fortuna oltre frontiera.

Nel periodo preso in considerazione (2007-13), l’incremento degli espatriati italiani con un’età tra i 40 e i 49 anni è stato pari addirittura al 79,2%. Nella fascia tra i 50 e i 64 anni la crescita ha superato il 51%. Questo non significa che non siano comunque aumentati, per carità, anche i giovani che hanno scelto di spostarsi all’estero per lavoro: +44.4% tra quanti avevano tra i 15 e i 29 anni e +43% per quelli di età compresa tra 30 e 39 anni.

A cinquanta, sessanta anni, il vecchio emigrato di metà Novecento tornava al paese d’origine, ripercorrendo in senso inverso quel tragitto che qualche decennio prima l’aveva portato lontano da casa, tra inquietudini e paure, per cercare un futuro diverso. Oggi, al culmine di una crisi economica senza precedenti, sono i quarantenni ad abbandonare un’Italia troppo spesso priva di qualunque spinta propulsiva. E di ritornare, purtroppo, non lo mettono nemmeno in conto…

JM

Non si uccidono così anche le Pmi?

di Davide PASSONI

Dire che in Italia siamo bravissimi a martellarci gli zebedei è ancora troppo poco. L’attitudine a essere dei Tafazzi ce la portiamo infatti dentro a molti livelli, specialmente per quello che riguarda la nostra capacità imprenditoriale.

Prendiamo l’esempio delle Pmi. Costituiscono il 95% circa del nostro tessuto produttivo e ora scopriamo che il loro contributo alle esportazioni del Paese è pari al 50% del totale; un valore che nei settori tradizionali del Made in Italy è vicino al 70%. Lo dice una ricerca realizzata dal Centro Studi Cna in collaborazione con il Centro Tedis della Venice International University.

Secondo questa ricerca, le Pmi hanno una notevole proiezione internazionale, a partire dal segmento di imprese con meno di dieci dipendenti: nel 2008, circa 45mila di loro con una media di 4,5 addetti, hanno realizzato oltre il 20% del proprio fatturato all’estero, spesso in mercati extra-europei e con quote di export analoghe a quelle delle imprese medio-grandi.

E allora, dove sono i Tafazzi? Eccoli qui. Al settore più vivo e dinamico della nostra economia buttiamo addosso una camionata di tasse, chiudiamo il rubinetto del credito e prepariamo una riforma del lavoro che, per quanto strutturata su un impianto molto buono, costituirà un aggravio di costi probabilmente insostenibile. Prendiamo il mitico articolo 18. Nella proposta del ministero c’è la quantificazione dell’indennizzo del licenziamento per motivi economici in un range che va da 15 a 27 mensilità per il lavoratore; una cifra mostruosa per una piccola impresa: d’accordo la maggiore flessibilità in uscita, ma se significa sostenere questi costi, allora una Pmi ci penserà su un bel po’ prima di mettere in strada la gente, visto che rischierà di rimetterci ancora di più. E pensare che in Spagna la riforma del lavoro è stata fatta riducendo gli indennizzi, mentre da noi rischia di passare uno dei livelli più alti in Europa. A danno, ancora una volta, delle imprese. Tanto più che la riforma dell’articolo 18 non si applicherà al pubblico impiego, ossia a quella che, in alcuni casi, è la zavorra di inefficienza che trascina a fondo l’Italia. Ma di che parliamo?

Se poi pensiamo che tra le imprese esportatrici, quelle più piccole hanno pagato il prezzo più alto alla recessione globale del 2009, la frittata è completa. Del resto, tra il 2008 e 2009 il numero di micro-imprese esportatrici si è ridotto di quasi il 30%, vale a dire 13mila unità in meno. A poco serve consolarsi guardando come queste micro-imprese abbiano contenuto meglio delle altre la caduta delle esportazioni, anche per la maggiore flessibilità derivante dalla loro piccola dimensione, e abbiano saputo approfittare al meglio della ripresa del commercio mondiale del 2010, recuperando per prime i livelli di export pre-crisi. Di fronte a questo aggravio di costi previsto, la crisi è ancora dietro l’angolo.

Come affrontarla, quindi? Secondo la ricerca del Centro Studi Cna, l’innovazione e la qualità emergono come i fattori determinanti per superarla. Le imprese che hanno investito nell’ultimo triennio sui mercati esteri appaiono infatti le più performanti.

Lo studio sottolinea infine che è necessario rinnovare le politiche e gli strumenti in grado di supportare una vasta ed eterogenea platea di interlocutori con azioni di policy che rafforzino la posizione competitiva delle Pmi sui mercati internazionali. Certo, se le azioni di policy sono quelle di inasprire i costi, trasformare la flessibilità in rigidità, togliere ossigeno a chi lavora per rilanciare il Paese, non ci resta che commentare come la Sora Lella: