Cerved fa il check up alle Pmi italiane

Come stanno le Pmi italiane? A farne una fotografia dello stato di salute è Cerved, con un’analisi che parte dal 2007, ultimo anno prima della grande crisi.
Secondo i dati Cerved, il comparto conta complessivamente 3,3 milioni di imprese individuali, 900 mila società di persone attive e 1 milione di società di capitale. Tutte insieme fanno 5,2 milioni di Pmi tra le quali, però, non vengono considerate le microimprese, ossia quelle con meno di 10 addetti e un fatturato inferiore a 2 milioni di euro.

L’analisi di Cerved ci restituisce l’immagine di una realtà di quasi 4 milioni di addetti, con una media di 20 persone per azienda, che genera un fatturato annuo di 851 miliardi di euro e un valore aggiunto di 183 miliardi. Numeri che fanno il 12% del Pil italiano.

Il rovescio della medaglia è un debito complessivo di 271 miliardi e il fatto che, dall’inizio della crisi, un quinto delle Pmi attive nel 2007 è stato interessato da una procedura di chiusura, anche se per la maggior parte si tratta di impresa già in difficoltà nel periodo pre-crisi.

Secondo Cerved, ci sono ancora 24mila società a rischio default nei prossimi data la loro forte esposizione (71 miliardi) nei confronti del sistema finanziario e bancario.

Per contro, Cerved rileva che sono state oltre 3.400 le Pmi che tra il 2007 e il 2012 hanno almeno raddoppiato il giro d’affari. A dispetto di quanto si possa pensare, sono imprese presenti anche nei settori in cui la crisi ha morso di più, che devono il loro successo al fatto di aver investito di più esponendosi meno con le banche o usando in modo importante la leva finanziaria.

Notizie non belle, invece, sul fronte delle start up. Secondo Cerved, infatti, a causa della crisi il loro numero si è ridotto e, tra le aziende fondate ex novo, è diminuito il numero di quelle vive a tre anni dalla nascita. In questo devono “ringraziare” anche le banche: la metà delle startup nate nel 2012 rispetto a quelle nate nel 2007 (circa 5mila) ha iniziato l’attività con prestiti bancari.

Cerved ha anche analizzato l’impatto che l’introduzione delle Srl semplificate e a capitale ridotto ha avuto per lo sviluppo dell’imprenditoria. La Srl semplificata è stata scelta da 16mila imprenditori nel 2013 e da quasi 14mila nei primo semestre 2014, pari al 30% delle start up nate tra gennaio e giugno di quest’anno. Una riduzione della scala potenziale delle nuove aziende, accompagnata dalla crescita di quelle che non riescono a insediarsi nel mercato.

Insomma, Cerved, la foto l’ha scattata. Vedremo ora se chi la deve analizzare lo farà con attenzione.

Fallimenti aziendali, è ancora allarme rosso

Per quanto il premier Matteo Renzi ostenti ottimismo sulle possibilità di ripresa dell’Italia, le piccole e medie imprese sono ancora in grande sofferenza, come dimostra il dato sui fallimenti aziendali. Nel secondo trimestre 2014, i fallimenti aziendali sono stati 4.241, in aumento del 14,3% rispetto allo stesso periodo del 2013. È quanto emerge dai dati del Cerved, società quotata specializzata nell’analisi del rischio di credito, analizzati dall’Ansa.

Nell’intero primo semestre 2014 i fallimenti aziendali hanno raggiunto quota 8.120 (+10,5%); si tratta del record assoluto dall’inizio della serie storica, risalente al 2001. L’analisi condotta dal Cerved mostra come i fallimenti aziendali riguardano tutta Italia: i tassi di crescita sono dappertutto in doppia cifra ad eccezione del Nord Est, dove l’incremento è del 5,5%.

In aumento del 14% rispetto al primo semestre 2013 sono invece i fallimenti aziendali al Sud e nelle Isole; il Nord Ovest fa registrare un +10,7%, il Centro un +10,4%. A causa dei recenti correttivi legislativi sono letteralmente collassate le domande di concordato in bianco (-52%) e diminuiti i concordati comprensivi di piano (-12,3%). Giù anche le liquidazioni che, con un -10,3% tra gennaio e giugno, segnano un’inversione di tendenza a livello semestrale dopo un lungo periodo di incremento.

Queste analisi sui fallimenti aziendali hanno suscitato diversi commenti. Secondo Gianandrea De Bernardis, amministratore delegato di Cerved, “stiamo vivendo una fase molto delicata per il sistema delle Pmi italiane: la nuova recessione sta spingendo fuori dal mercato anche imprese che avevano superato con successo la prima fase della crisi e che stanno pagando il conto sia al credit crunch sia a una domanda da troppo tempo stagnante“.

Sui fallimenti aziendali è ancora più dura ancora Confcommercio: “Il dato sui fallimenti aziendali conferma che la crisi continua a dispiegare i suoi effetti, costringendo molte imprese, che finora hanno resistito, a chiudere“. Secondo l’associazione delle imprese, “per il perdurare della stagnazione dei consumi, per una pressione fiscale che non accenna a diminuire, per l’impossibilità di far fronte ai fabbisogni finanziari, come della scarsa offerta del credito, e per il calo di fiducia, le imprese fronteggiano un quadro economico di crisi strutturale“.

Quale la soluzione per Confcommercio? “Le riforme economiche devono, pertanto, essere al centro dell’agenda di Governo perché se non si attua quella poderosa operazione di sottrazione, meno tasse e meno spesa pubblica, il Paese è destinato a rimare ancora fermo al palo“. Aspetta e spera…

Vado, fallisco, non torno

Niente da fare. Sembra proprio che l’emorragia di imprese non voglia cessare mai. Alla faccia di chi parla di ripresa e di luce in fondo al tunnel. Secondo i dati Cerved, società specializzata nell’analisi delle imprese e nella valutazione del rischio di credito, visionati dall’Ansa in Italia assistiamo a un nuovo record di fallimenti: quasi 10mila nei primi 9 mesi dell’anno. Bum. Il settore più colpito è quello dei servizi, con un aumento dei fallimenti del 14% rispetto all’anno precedente, seguito dal manifatturiero (+11%) e da quello edile (+ 9,7%).

Un aumento secco del 12% rispetto allo stesso periodo del 2012, mentre la crescita nel terzo trimestre è del 9%. A rincarare la dose, Cerved sottolinea che il numero di imprese è a livello “massimo osservato da più di un decennio nel periodo gennaio-settembre”.

La regione più colpita è la Lombardia, con 2.250 fallimenti nei primi nove mesi (+13%), male anche l’Emilia Romagna e il Veneto (+19%) e il Lazio (+15%), mentre fanno registrare dati in controtendenza la Liguria (-11%) e l’Umbria (-18%).

Le statistiche di Cerved rilevano che a portare i libri dal giudice sono soprattutto le società di capitale (+12%), le società di persone (+10%) e le altre forme giuridiche si attestano al +11%.

Un altro triste record è quello delle liquidazioni volontarie. Nel terzo trimestre del 2013 hanno avviato procedure di liquidazione volontaria 14mila aziende che non avevano precedenti procedure, il 5,3% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Da gennaio a settembre sono state oltre 50mila le liquidazioni. Ad aumentare sono state le liquidazioni delle società che non hanno depositato alcun bilancio negli ultimi 3 anni, mentre sono calate dello 0,9% le liquidazioni tra le società di persone. Aumenti a ritmi inferiori rispetto al 2012 per le liquidazioni tra le società di capitale che avevano almeno un bilancio valido nelle ultime tre annualità: sono state quasi 25mila le liquidazioni nei primi nove mesi dell’anno.

Al di là delle rilevazioni Cerved, secondo alcuni osservatori la causa di questo aumento non sarebbe dovuta solo alla crisi economica, ma anche alla legislazione che favorisce chi chiude per non pagare i debiti allo Stato.

Fallimenti in aumento anche nel 2013

Il 2013, ormai abbondantemente iniziato, non ha portato molte buone notizie, oltre alla consapevolezza di essere sopravvissuti alla fine del mondo prevista per il 21 dicembre 2012.
Ma, per le aziende, la sopravvivenza è una questione molto più difficile da affrontare, e nessuna profezia Maya riuscirebbe a fermare l’inesorabile caduta delle pmi, falcidiate dalla crisi, ancora molto presente nel nostro Paese.

La notizia di questi giorni è che, anche nel primo trimestre 2013, i fallimenti delle imprese si sono moltiplicati, raggiungendo il preoccupante record di 3.500 chiusure, che in percentuale sono segnale di un aumento del 12% rispetto allo stesso periodo dell‘anno scorso.

Non sono solo i fallimenti a salire, ma anche le liquidazioni: sono infatti 19mila le aziende che hanno deciso di chiudere volontariamente l’attività 19mila aziende in bonis, un dato in aumento del 5,8% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

Secondo il Cerved, gruppo specializzato nell’analisi delle imprese e nei modelli di valutazione del rischio di credito, il fenomeno più rilevante è il forte incremento dei concordati preventivi, che fanno registrare un aumento del 76% su base annua, un boom che porta al 13% l’incremento delle procedure di insolvenza diverse dai fallimenti.

Lo studio, a questo proposito, afferma: “Un’analisi sui dati del Registro delle imprese indica che all’origine di questo incremento vi sono le nuove norme con cui e’ stata riformata la disciplina fallimentare e, in particolare, l’introduzione del cosiddetto concordato in bianco“.

In questo scenario, le aziende hanno apprezzato la possibilità di presentare una domanda priva del piano di risanamento e di bloccare le azioni esecutive, anche con effetti retroattivi: con l‘entrata in vigore delle nuove norme nel settembre 2012, al 31 marzo 2013 erano state presentate ben 2.700 istanze, oltre il doppio dei concordati tradizionali presentati in tutto lo scorso anno.

Volendo localizzare i fallimenti del primo triennio dell’anno in corso, il Nord Est, ha fatto registrare una forte impennata delle procedure, con un incremento di quasi un quarto rispetto al primo trimestre del 2012 (+24%).
Ma anche nelle atre aree del Paese c’è ben poco da sorridere, perché si registra un aumento delle chiusure anche nel Nord Ovest (+15%) e a ritmi leggermente inferiori nel Centro Italia (+9%), nel Sud e nelle Isole (+3%).

Vera MORETTI

Protesti e ritardi nei pagamenti, allarme al Sud

Il Sud a rischio per il crescere del numero dei protesti e per i gravi ritardi nei pagamenti. L’allarme è lanciato dalla società di business information Cerved: “Il peggioramento delle condizioni economiche-finanziarie delle imprese italiane, osservato da quando nella seconda metà del 2011 l’economia è rientrata in recessione, è proseguito anche nei primi tre mesi del 2012. I dati sui protesti e ritardi nei pagamenti mostrano una situazione particolarmente allarmante nelle regioni del Mezzogiorno e tra le imprese operanti nel settore delle costruzioni“.

Secondo quanto rilevato da Cerved, nei primi tre mesi dell’anno sono oltre 21mila le società cui è stato protestato almeno un assegno o una cambiale, +8,1% rispetto allo stesso periodo del 2011. “Il dato è il secondo valore più alto di un singolo trimestre dall’inizio della crisi del 2008 ed è accompagnato da un aumento dei protesti tra le imprese individuali: si contano infatti quasi 47mila imprenditori con almeno un protesto, in crescita del 3,2% rispetto al primo trimestre 2011“.

Preoccupante la situazione al Sud, mentre al Nord la situazione, benché negativa, è abbastanza stabile. Nei primi tre mesi del 2012 i protesti sono aumentati con tassi a due cifre sia nel Mezzogiorno (+13,5%) sia nel Centro (+10,6%). La diffusione del fenomeno “ha raggiunto livelli particolarmente preoccupanti in Calabria, dove l’1,9% delle imprese operative ha avuto almeno un titolo protestato nel primo trimestre del 2012 (l’1,4% del Mezzogiorno)“, afferma ancora Cerved, che prosegue: “Le difficoltà osservate per il complesso delle società non individuali non risparmiano nessun settore: la situazione più critica la vive il comparto dell’edilizia, settore in cui l’1,5% delle società operative sono state protestate nel primo trimestre dell’anno e in cui il fenomeno risulta in crescita con tassi a due cifre rispetto allo stesso periodo del 2011 (+12,5%)“. Il terziario invece “è il settore dove si conta il maggior numero di soggetti protestati: 11.500 aziende, pari allo 0,8% di tutte quelle operative, con un aumento del +8,3% sull’anno precedente“.

Ma non basta. Nel Mezzogiorno, sostiene Cerved, “il peggioramento del fenomeno dei protesti è accompagnato da un ulteriore aumento dei tempi di liquidazione delle fatture. L’attesa per i pagamenti delle società meridionali è passata da 90,4 giorni dell’ultimo trimestre 2011 a 92,9 dei primi tre mesi 2012, con un’accresciuta diffusione dei ritardi gravi che vede il 10,5% delle stesse saldare le fatture con oltre due mesi di ritardo“.

Niente di nuovo sotto il sole della crisi, purtroppo…

Ho fatto crack. Ma non mollo

di Davide PASSONI

La crisi. Non è fatta solo di imprenditori che si uccidono, è fatta anche di una tendenza sotterranea ma non per questo meno triste: i fallimenti. Non fanno notizia come chi si dà fuoco sulla pubblica piazza o si spara al cuore nel garage di casa, ma uccidono allo stesso modo. Uccidono un tessuto produttivo, un indotto, il sogno e la fatica di chi ha messo in piedi un’azienda, spesso dal nulla, la vita quotidiana di centinaia, migliaia di famiglia. Certo, il fallimento fa parte del gioco, del rischio d’impresa. E far fallire un’azienda non significa certo essere dei falliti nella vita. Ma certi numeri mettono i brividi.

I falllimenti, secondo i dati Cerved – gruppo specializzato nell’analisi delle imprese e nella valutazione del rischio di credito – analizzati dall’ANSA, stanno colpendo il cuore produttivo dell’Italia, il Nord: dal 2009, quando la crisi è esplosa in tutt la sua drammaticità a livello globale, sono 17mila i fallimenti al Nord, con Lombardia, Piemonte e Liguria in difficoltà mentre tiene meglio il Nord Est, anche se il Veneto arranca. Un dato che vale oltre la metà del totale dei fallimenti in Italia (33mila circa), data la maggiore concentrazione di imprese al Nord. Un quarto delle chiusure viene invece dalle imprese meridionali (8358), il 22% dal Centro (7284).

C’è poi un valore racchiuso da due paroline, una inglese e una latina, che si chiama Insolvency Ratio, ossia la frequenza dei fallimenti (numero di imprese chiuse ogni 10mila attive), che mette ansia. Un valore che vede la Lombardia prima con un tasso di oltre 27 aziende chiuse per crack ogni 10mila e Milano prima tra le province con un Insolvency Ratio di 34.

Quasi la metà dei 33mila fallimenti totali (oltre 15mila) ha riguardato imprese del terziario, il 23% aziende dell’edilizia (7.535), il 21% società manifatturiere (poco meno di 7mila). Ma, mettendo a confronto le procedure con il numero di imprese operative, si nota che i crack hanno colpito con maggiore intensità l’industria (con un Insolvency ratio dal 2009 pari a 38,7) e le costruzioni (28,5), rispetto ai servizi (16,9) e gli altri settori (9,1).

La cosa preoccupante è che, secondo Cerved, la situazione è in fase di radicamento: nel solo anno scorso la Lombardia è arrivata a un Insolvency ratio di 30,7, Milano di 39. Ma nel 2011 il trend peggiore è stato accusato da altre due Regioni: per maggior numero di fallimenti in assoluto la prima resta la Lombardia (2673, +9,8%), ma in Campania la crescita è stata quasi del 30% (esattamente del 29,6%, oltre quota 1000) e nel Lazio del 23,4%, a un totale di 1253 crack aziendali.

La soluzione? Al di là dello sperare in una improbabile ripresa globale (almeno nel medio periodo) sarebbe cosa buona e giusta cominciare a tagliare il costo del lavoro e le tasse alle imprese, reperendo i fondi necessari dai tagli alla spesa pubblica inutile, ai privilegi e ai finanziamenti a pioggia alle società statali improduttive. Perché senza stimolo alle imprese non c’è ripresa. E senza impresa (piccola e media, naturalmente…) non c’è Italia. Non molliamo, l’Italia non ce la può fare senza di noi!