I commercialisti: ma quale ripresa economica?

Ripresa economica. Parole pronunciate da tanti ma che, nel business quotidiano delle imprese, in pochi vedono. E a conferma di quella che non è solo una sensazione ma una buia realtà, arriva un sondaggio sulla politica economica del Governo svolto dalla Fondazione nazionale dei Commercialisti, dal quale emerge una grande preoccupazione per la situazione delle piccole imprese e del mondo del lavoro autonomo in generale, per i quali mancano anche minimi segni di ripartenza.

I commercialisti intervistati nel sondaggio apprezzano gli interventi del Governo a favore delle Pmi, come il taglio dell’Irap e la flessibilità sul mercato del lavoro, ma li giudicano insufficienti per garantire una solida ripresa economica. Relativamente al Jobs Act, la maggioranza dei commercialisti intervistati pensa che, pur essendo apprezzabili le misure prese sul piano della flessibilità e delle condizioni del mercato del lavoro italiano, la crisi della domanda proveniente dal mercato interno, le rende di fatto inefficaci per la ripresa economica.

Il punto è proprio questo. La quasi totalità dei commercialisti coinvolti nel sondaggio crede che, fino a quando non ci sarà una vera ripresa della domanda interna, il contratto a tutele crescenti darà luogo quasi esclusivamente a stabilizzazioni di posti di lavoro a termine o di altre forme di precariato anziché a nuove assunzioni.

Del resto, le conclusioni del sondaggio parlano chiaro. Le misure adottate dal Governo sono sostanzialmente dei palliativi perché non aggrediscono i veri problemi che, a detta dei commercialisti, sono d’intralcio alla ripresa economica dell’Italia: l’inefficienza della Pubblica amministrazione e l’assetto istituzionale del Paese.

Cgia: 1 milione di contratti dalle misure per il lavoro

Anche la Cgia vede con favore alcune delle misure introdotte dal Jobs Act a sostegno dell’occupazione. Nello specifico, secondo il segretario della confederazione artigiana Giuseppe Bortolussi, “la decontribuzione triennale per i nuovi assunti a tempo indeterminato e le misure del Jobs act daranno luogo, come riportato nella Relazione tecnica alla Legge di Stabilità del 2015, a 1 milione di nuovi contratti incentivati”.

La Cgia ha infatti rilevato come, a dare una spinta importante alle assunzioni da parte delle aziende, sarà presumibilmente lo sgravio totale dei contributi Inps per 36 mesi per gli assunti a tempo indeterminato, introdotto dalla recente Legge di Stabilità.

Se poi si considerano anche la deducibilità integrale, della componente del costo del lavoro per tutti i lavoratori assunti con un contratto stabile dal calcolo della base imponibile Irap, oltre ai contratti a tutele crescenti introdotti dal Job Act a partire dal 7 marzo, secondo la Cgia le condizioni per un rilancio occupazionale dovrebbero essere favorevoli.

A fronte di queste condizioni, la Cgia stima 1 milione di nuovi assunti che però, avverte, non sarà una cifra in termini assoluti ma che deriverà in buona parte dalla trasformazione in contratti a tempo indeterminato di rapporti attualmente precari. Un’operazione che dovrebbe costare, grossomodo, 15 miliardi.

Secondo Bortolussi, infatti, “al lordo degli effetti fiscali la decontribuzione totale Inps in capo alle imprese dovrebbe costare alle casse dello Stato 1,86 miliardi di euro nel 2015, 4,88 miliardi nel 2016 e oltre 5 miliardi nel 2017. L’operazione, ovviamente, avrà una coda anche nel 2018, pari a 2,9 miliardi di euro. Complessivamente, il costo per i nostri conti pubblici dovrebbe essere di circa 15 miliardi di euro”.

Consulenti del lavoro e contratto a tutele crescenti

I consulenti del lavoro dicono la loro sul contratto a tutele crescenti introdotto dal recente Jobs Act. Come specificato nella circolare n. 1 del 2015 emessa dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro, il contratto a tutele crescenti costituisce, per le imprese che devono assumere, una tipologia contrattuale economicamente più conveniente rispetto all’apprendistato, purché le aziende in questione abbiano più di 9 dipendenti. Secondo i consulenti del lavoro, il contratto a tutele crescenti è applicabile anche ai dipendenti pubblici, almeno fino al momento in cui non sarà specificata la loro esclusione dal raggio di influenza della legge sul lavoro.

Siamo al quarto intervento riformatore in poco più di due anni in un settore nel quale più che le regole lavoristiche manca il terreno su cui innestare l’occupazione, che, per essere rilanciata, necessita di affiancare alle buone norme sostanziali e corposi interventi sull’economia“: queste le parole del presidente della Fondazione Studi dei consulenti del lavoro, Rosario De Luca, nella circolare in questione.

E certo – prosegue la circolare – non si potrà parlare di nuovi occupati se l’applicazione del contratto a tutele crescenti, che potrebbe risultare economicamente più conveniente di cocopro e lavoro a termine, porterà alla stabilizzazione di queste figure di lavoratori già occupati. Quelli non potranno essere considerati nuovi posti di lavoro, perché non riguarderanno gli attuali disoccupati“.

Ma va salutato con positività l’accantonamento (definitivo?) della diversificazione tra imprenditori e professionisti, che ha caratterizzato decine e decine di norme penalizzanti per gli studi professionali, perennemente esclusi da benefici e agevolazioni“, continua De Luca, che aggiunge: “Sul fronte dell’accesso non si può non sottacere che sempre il contratto a tutele crescenti è quasi più conveniente del contratto di apprendistato; situazione che può determinare il definitivo accantonamento di quello che per lungo tempo è stato il vero (se non l’unico) strumento in mano ai giovani per entrare nel mondo del lavoro“.

La circolare conclude con una constatazione quasi paradossale sulle conseguenze del contratto a tutele crescenti: “Si delinea un sistema sempre più incentrato sul rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, che va nella direzione opposta non solo delle esigenze di chi l’occupazione la crea; ma anche del volere espresso dall’esecutivo“.

Le piccole imprese amano il Jobs Act

Che il Jobs Act non fosse poi così mal visto dalle imprese e dagli artigiani era abbastanza trasparente. Ora la conferma arriva anche da un’indagine ad hoc realizzata dalla Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa Artigiani e piccole imprese (Cna) su 1630 imprese associate, dalla quale emerge un sostanziale apprezzamento per il Jobs Act.

Il dato più rilevante emerso dal sondaggio è che per la maggior parte delle imprese intervistate, il Jobs Act porterà a una riduzione della segmentazione del mercato del lavoro, per incentivare le nuove assunzioni a tempo indeterminato, senza che crescano i costi per le piccole imprese con meno di 16 dipendenti.

Il sondaggio della Cna sul Jobs Act è stato condotto su diversi punti, cercando per ciascuno di capire quale è il sentiment delle Pmi per ciascuno di essi. Intanto il contratto a tutele crescenti. Per il 53% delle imprese intervistate si tratta di una semplificazione rispetto ai contratti oggi esistenti e per il 20% di loro genererà maggiore flessibilità nella gestione dei rapporti di lavoro.

C’è poi il capitolo licenziamenti. Il 51% delle imprese intervistate sostiene di non avere mai dovuto licenziare i dipendenti, mentre per il 34,5% di loro la risoluzione dei rapporti di lavoro è avvenuta sempre in maniera consensuale.

Per quanto riguarda invece la decontribuzione per le assunzioni prevista dal Jobs Act, il 49,5% delle imprese sostiene che l’esonero dal versamento dei contributi significa contratti a tempo indeterminato più convenienti, anche se c’è molta incertezza su come la decontribuzione potrà incentivare un aumento dell’occupazione.

L’altra grossa novità del Jobs Act, ovvero il Tfr in busta paga, è fonte di preoccupazione solo per le imprese più grandi. Per il 23,5% delle imprese intervistate da Cna, non impatterà sugli equilibri finanziari aziendali, mentre Il restante 76,5% pensa che potrebbe essere fonte di problemi di liquidità gravi.

Insomma, qualche ombra ma bel complesso molte luci sulla visione che le imprese piccole e gli artigiani hanno sul Jobs Act.

Jobs Act, quanto conviene davvero licenziare

Com’è, per le aziende, il bilancio tra sgravi per le assunzioni e indennizzi per i licenziamenti nel recente Jobs Act? A quanto pare favorevole ai licenziamenti. Il calcolo lo ha fatto il Servizio Politiche Territoriali della Uil che, come riportano alcune fonti di stampa, ha verificato che il saldo tra i benefici incassati dagli imprenditori per assumere con il nuovo contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs Act e le somme da pagare in caso di licenziamento illegittimo può superare i 6.600 euro. Come dire: assumi e licenzia nell’arco di un anno e intaschi un bel po’ di quattrini.

Il paradosso è forte e voluto, ma probabilmente è l’effetto voluto dalla Uil nell’analizzare questi meccanismi perversi nascosti tra le pieghe del Jobs Act. I calcoli della Uil, infatti, considerano gli oltre 8000 euro garantiti a neoassunto e il taglio Irap introdotto nella manovra, relativi agli assunti a tempo indeterminato. Nel dettaglio, questa sorta di bonus indiretto varia dai 2.895 euro per chi ha un reddito annuo da 12mila euro, ai 6.628 euro per i redditi da 25mila euro.

Difficile comunque che imprenditori furbetti possano utilizzare questo trucchetto per fare cassa sfruttando il Jobs Act. Se per un verso il costo che l’impresa sostiene per ogni contratto a tempo indeterminato non è uno scherzo, il saldo tra quanto l’impresa stessa spenderebbe per ogni neoassunto e licenziato nell’arco dei dodici mesi, sarebbe negativo

Inoltre, se da un lato gli sgravi contributivi introdotti dal governo con il Jobs Act non sono condizionati ad alcuna assunzione, dall’altro sono previsti per i soli contratti attivati nel prossimo 2015. Ragion per cui, chi volesse licenziare uno dei suoi lavoratori il 31 dicembre 2015 per assumerne uno nuovo il 1 gennaio 2016, non avrebbe in dote gli 8000 euro che gli spetterebbero in caso di mantenimento in organico del lavoratore.

Resta inoltre da ricordare che la somma dell’indennizzo in caso di licenziamenti illegittimi non è ancora stata definita dal governo ma demandata ai decreti attuativi del Jobs Act in fase di stesura. Se, come pare, la soglia minima di indennizzo sarà compresa tra le 3 e le 6 mensilità, la differenza tra i vantaggi degli sgravi e la penale per il licenziamento sarebbe quasi nulla.