“Made in Italy” a danno dei titolari di marchi italiani

Il Made in Italy da sempre distingue la creatività e la qualità delle imprese italiane nel mondo, portando all’estero il prestigio del tessuto imprenditoriale nazionale. Tutti sanno che il richiamo alla produzione italiana accresce il valore e la quotazione sul mercato dei prodotti che possono fregiarsi dell’essere “100% italiani“. Proprio l’importanza attribuita all’etichettatura dei prodotti ha portato il legislatore italiano a numerosi interventi normativi in materia, anche se non sempre nel segno della chiarezza e dell’efficacia rispetto agli obiettivi.

Non fanno eccezione le ultime disposizioni (art. 17 della L. 99/2009 e  art. 16 del Decreto Legge 135/2009) che, paradossalmente, pongono a carico del titolare di un marchio italiano o del suo licenziatario oneri maggiori rispetto a quelli richiesti ad un’impresa straniera. Nello specifico, era stata prevista una sanzione penale per “l’uso di marchi di aziende italiane” apposti su merce non originaria dell’Italia e priva dell’indicazione del Paese di fabbricazione.

Questo però discriminava i marchi di aziende italiane rispetto a quelli di aziende straniere e pertanto, dopo appena due mesi, la disposizione è stata abrogata dall’art. 16 D.L 135/2009. Anche con tale normativa, tuttavia, le disparità permangono. La disposizione in esame sanziona, a livello amministrativo, un utilizzo del marchio tale da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia di origine italiana ove ciò non corrisponda alla reale provenienza della merce e prevede una sanzione penale nel caso in cui venga espressamente indicato, su merce non fabbricata nel nostro territorio,  che il prodotto è interamente realizzato in Italia.

Entrambi gli interventi normativi, oltre a essere piuttosto approssimativi, sembrano porsi in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza (art. 3 Costituzione) e con la normativa comunitaria (quantomeno con riferimento all’art. 28 Trattato CE). Pare infatti emergere con evidenza la disparità di trattamento tra imprese, se si considera che nessun illecito è sanzionato ove l’utilizzo falso o fallace del marchio venga posto in essere da un’impresa straniera, benché anche in tale situazione si verifichi proprio quell’inganno per il consumatore finale che il legislatore si propone di sanzionare. Molti, dunque, i problemi posti dalle ultime disposizioni legislative, emanate forse in assenza di un disegno unitario. 

Un’autentica tutela della correttezza commerciale, dei consumatori e del vantaggio competitivo dato dal nostro “Made in Italy” rimane purtroppo ancora lontana; restano, invece, i contrasti tra norme e le discriminazioni, proprio a discapito dei titolari di marchi italiani.

Avv. Helene Regnault de la Mothe

L’Agenzia delle Entrate autorizza l’integrazione della fattura del prestatore di servizi UE

Una delle questioni più dibattute dopo l’entrata in vigore, dal 1° gennaio 2010, delle novità IVA in materia di territorialità delle prestazioni di servizi generiche, oggi disciplinate dal nuovo art. 7-ter, D.P.R. 633/1972, riguardava l’obbligo, per il committente italiano, di emettere autofattura ai sensi del novellato art. 17, comma 2, D.P.R. 633/1972. Nel corso degli incontri con la stampa specializzata avvenuti nel mese di gennaio, l’Agenzia delle Entrate aveva anticipato la possibilità, più agevole per il committente italiano, di procedere alla semplice integrazione della fattura del prestatore UE in luogo dell’autofattura letteralmente richiesta dalle nuove norme. Con la Circolare n. 12/E del 12/03/2010, l’Agenzia ufficializza varie risposte date informalmente nelle scorse settimane e rende esplicitamente applicabile l’integrazione della fattura UE, così come già avveniva ed avvine per gli acquisti intracomunitari di beni.

Questa soluzione, auspicata da tutti gli operatori, semplifica la gestione documentale delle prestazioni in commento ma non evita evidentemente la necessità di presentare periodicamente gli elenchi Intra-Servizi.

L’Agenzia ricorda infine che l’integrazione della fattura non implica deroghe alle generali disposizioni in merito al momento di effettuazione dell’operazione.

Dott. Mauro Michelini

Risparmio su IRES e IRAP “per chi ci crede”.

 

Le agevolazioni del DL. 78/2009

Il DL. 78/2009 ha previsto un’agevolazione per diversi tipi di  società, che hanno effettuato aumenti di capitale sociale in un determinato periodo, pari ad un bonus del 3% su di un importo massimo.

Le società conferitarie interessate sono le società di capitali, le società cooperative, le società di persone che esercitano attività di impresa. I conferimenti possono essere effettuati da persone fisiche o da imprenditori individuali.

Sono ammessi gli aumenti di capitale sociale a pagamento, in denaro o in natura, e il capitale iniziale delle società neocostituite. Il beneficio è stato esteso dalla Circolare 53/E/2009 anche ai versamenti dei soci in conto futuro aumento di capitale e ai finanziamenti infruttiferi dei soci.

E’ necessario che gli aumenti di capitale siano perfezionati, ossia che la delibera di aumento del capitale sia iscritta nel registro delle  imprese, che i versamenti siano effettivamente eseguiti, che i soci abbiano fatto rinuncia ai crediti, esclusivamente nel periodo di agevolazione rilevante per legge che va dal 5 agosto 2009 al 5 febbraio 2010.
La detassazione consiste nella riduzione della base imponibile ai fini IRES o IRPEF e IRAP nella misura del 3% su un aumento di capitale massimo di euro 500.000 (rispetto al capitale di partenza alla data del 4 agosto) da ripartire nell’anno di ricapitalizzazione e nei 4 anni successivi e opera anche se la società è in perdita.

Dott.ssa IPPOLITA PELLEGRINI