I Consulenti: sgravi fiscali per rilanciare l’occupazione

Dopo le proposte dei Consulenti del lavoro che abbiamo illustrato ieri per rilanciare il mercato dell’occupazione in Italia, ecco altri punti che, per l’associazione, sono imprescindibili.

Oltre a diversi interventi nell’ambito della responsabilità solidale, del documento unico di regolarità contributiva e del contributo di fine rapporto necessario a finanziare l’Aspi, secondo i Consulenti del lavoro sarebbe opportuno introdurre uno sgravio fiscale di cinque anni per i lavoratori under 30 o over 50 e dei contributi ridotti per 3 anni qualora un’azienda stabilizzi un dipendente a termine; gli sgravi fiscali dovrebbero essere totali per retribuzioni fino a 40mila euro e del 50% per retribuzioni fino a 80mila euro).

Secondo i Consulenti, poi, sarebbe necessario razionalizzare il Fondo di tesoreria, ridurre del 5% il costo del lavoro a tempo indeterminato (attraverso 12,2 miliardi di euro che verrebbero recuperati rivedendo le tariffe Inail), ridurre la spesa pubblica improduttiva  e utilizzare il 50% delle risorse recuperate dalla lotta all’evasione fiscale.

Come si vede, si tratta di un mix di suggerimenti tecnici e di misure di buon senso che, se attuato, potrebbero con tutta probabilità ridare fiato a un mercato del lavoro ormai sull’orlo del collasso.

Occupazione, le proposte dei Consulenti del lavoro

Chi meglio dei Consulenti del lavoro può elaborare proposte utili al rilancio dell’occupazione in Italia.

È quello che hanno fatto con un documento nel quale analizzano cause della stagnazione attuale e propongono soluzioni per superare l’impasse.

Il documento parte con una bacchettata alla legge Fornero, la quale “non ha centrato gli obiettivi occupazionali che si prefiggeva, forse perché pensata per un modello di mercato del lavoro già in espansione”. Il suo effetto è stato invece quello di irrigidire la flessibilità in entrata. Ecco dunque le proposte dei Consulenti per incidere in maniera efficace sulla riduzione del costo del lavoro, per ammorbidire la rigidità in entrata e tornare a una situazione ante legge Fornero.

Cancellazione, per le partite Iva, dell’articolo 69 bis del Dlgs 276/2003, introdotto dalla riforma Fornero. Vale a dire togliere la possibilità di trasformare le prestazioni a partita Iva in collaborazione coordinata e continuativa purché siano soddisfatti due dei seguenti tre presupposti: rapporto superiore a otto mesi annui in due anni consecutivi; corrispettivo da partita Iva superiore all’80% dei corrispettivi annui complessivi del collaboratore in due anni consecutivi; postazione fissa in una sede del committente messa a disposizione del collaboratore a partita Iva.

I Consulenti auspicano anche un ritorno alla situazione precedente la riforma anche per il contratto di associazione in partecipazione, mentre per il contratto a tempo determinato chiedono la sospensione fino alla fine del 201, dell’obbligo di indicazione della causale e dei periodi di sospensione obbligatoria tra due contratti.

Importante levare vincoli anche all’apprendistato, con l’eliminazione dei nuovi obblighi di stabilizzazione da parte delle aziende e il mantenimento di quelli previsti dai contratti nazionali. Vi è poi una richiesta di omogeneizzazione dei percorsi di formazione, specialmente tra regione e regione.

Utile sarebbe, secondo i Consulenti, innalzare il tetto economico per lavoratore e per anno dagli attuali 5mila euro a 8mila per le imprese e gli studi professionali, così come accorpare giuridicamente questo tipo di contratto con quello dell’impiego intermittente.

Vedremo domani le altre proposte dei Consulenti del lavoro.

Occupazione? Su gli investimenti, giù il costo del lavoro

Come se non bastassero le mazzate che continuamente arrivano sul mercato del lavoro italiano dall’interno delle mura di casa nostra, adesso anche il resto del mondo ci ricorda come, nel nostro Paese, la situazione occupazionale sia preoccupante.

Arriva infatti dall’Ilo, l’International Labour Organization, l’organismo dell’Onu specializzato nelle tematiche del lavoro, l’ennesimo allarme: “All’Italia servono circa 1,7 milioni di nuovi posti di lavoro per riportare il tasso di occupazione ai livelli pre-crisi”. È quanto si legge nel “Rapporto sul mondo del lavoro 2013”, il documento stilato dall’organizzazione che fa il punto sull’andamento occupazionale nel mondo. E questa è la triste figura dell’Italia, che deriva dalla somma dei posti persi negli ultimi anni con l’aumento della popolazione in età attiva rispetto al periodo ante-crisi.

L’Italia figura nella categoria di quei Paesi nei quali la disoccupazione continua ad aumentare (per citare un dato, era al 6,1% nel 2007) e dove sono cresciute le disparità di reddito a causa della recessione. Nel capitolo del rapporto dedicato al nostro Paese, si sottolinea come “la sfida della ricerca di un posto di lavoro è particolarmente difficile per i giovani tra 15 e 24 anni: il tasso di disoccupazione di questa fascia di età è salito di 15 punti percentuali e ha raggiunto il 35,2% nel quarto semestre 2012”.

Il rapporto punta anche l’attenzione sulla diffusione dell’occupazione precaria: infatti, a partire dal 2007 il numero dei precari è cresciuto del 5,7% e ha raggiunto il 32% degli occupati nel 2012. Secondo l’Ilo, la percentuale dei contratti a tempo determinato sul totale dei contratti precari è aumentata con tutta probabilità a causa della riforma Fornero. Ecco dunque che, per risollevare il mercato italiano dell’occupazione, il rapporto Ilo suggerisce di puntare sugli investimenti e sull’innovazione anziché sull’austerità e sulla riduzione del costo unitario del lavoro e, soprattutto, dice la sua su una delle “grandi trovate” che da qualche tempo gira in bocca ai soloni della politica e dell’occupazione, la cosiddetta “staffetta generazionale”. L’Ilo la approva con riserva, sottolineando come esistono modi più efficaci per rilanciare l’occupazione giovanile: dagli incentivi all’assunzione al miglioramento del sistema di formazione.

Confcommercio: occupazione ai livelli del 2005

Si chiama Misery Index ed è un indice mensile che unisce dati sul mercato del lavoro, disoccupazione, cassa integrazione, scoraggiati e il tasso di variazione dei prezzi di beni e servizi acquistati con alta frequenza dagli italiani. Se lo è inventato Confcommercio, per la verità senza escogitare nulla di nuovo, visto che, almeno nel nome, riprende l’economico, creato dall’economista Arthur Okun.

Sicuramente, però, l’indice di Confcommercio è d’impatto, almeno quando esce con le proprie statistiche ufficiali sul mercato del lavoro. E i dati di aprile lo dimostrano. Secondo l’indice, ad aprile il mercato del lavoro ha registrato un nuovo peggioramento in termini congiunturali. Rispetto a marzo gli occupati sono diminuiti di 18mila unità a cui si è associato un aumento di 22mila persone in cerca di occupazione, combinazione che ha fatto passare il tasso di disoccupazione ufficiale dall’11,9% al 12,0%.

Secondo l’indice, continua il processo di distruzione dei posti di lavoro creati tra il 2005 ed il 2008. Il numero di occupati è infatti ora ai livelli di settembre 2005, mentre il numero di giovani (15-24 anni) in cerca di occupazione ha raggiunto le 656mila unità e il tasso di disoccupazione giovanile ha raggiunto il 40,5%. Ad aggravare il quadro è il numero dei cosiddetti Neet (Not in Education, Employment or Training), coloro che non studiano e non sono coinvolti in programmi di formazione: sono oltre 2,2.

Nel mese di aprile sono state autorizzate circa 100 milioni di ore di cassa integrazione, in aumento rispetto ai 97 milioni di marzo ed ai 79 milioni di febbraio. Dai dati dell’Osservatorio INPS, poi, emerge che, dopo la forte flessione dell’inizio dell’anno, la percentuale di tiraggio (ossia le ore effettivamente utilizzate) è aumentata sia per la cassa integrazione ordinaria sia per quella straordinaria e in deroga, passata dal 24,8% al 55,4%.

Il numero di scoraggiati è invece previsto in lieve diminuzione da 739mila persone di marzo a 726mila. Secondo Confcommercio se si aggiunge ai disoccupati ufficiali la stima delle persone in cassa integrazione e degli scoraggiati il tasso di disoccupazione di aprile è al 15,7%, in aumento rispetto al 15,6% del mese precedente.

Il dato non lascia tranquilli, soprattutto perché arriva da un associazione come Confcommercio, che ha il polso della situazione reale della nostra economia.

Disoccupazione e piccola impresa dobbiamo rassegnarci? Meglio di no

di Davide PASSONI

Ha fatto scalpore la presentazione nei giorni scorsi da parte della Cgil del rapporto ‘La ripresa dell’anno dopo – Serve un Piano del Lavoro per la crescita e l’occupazione’. Secondo i dati contenuti in questo studio, effettuato da Riccardo Sanna dell’Ufficio economico del sindacato, se l’Italia intercettasse la ripresa accreditata per il 2014 dai maggiori istituti statistici, ci vorrebbero tredici anni per ritornare al livello del Pil del 2007, 63 per recuperare il terreno perso sul lato dell’occupazione e non si riuscirebbe mai a recuperare il livello dei salari reali.

Dati che fanno riflettere soprattutto chi fa impresa tutti i giorni, che in Italia vuol dire la piccola e media imprenditoria. Sono queste infatti le realtà nelle quali l’emorragia di occupati è forse meno evidente alla maggior parte delle persone ma è più mortale. Se nella grande impresa – quella che occupa le prime pagine dei mass media – la disoccupazione fa notizia ma è controbilanciata da una dimensione aziendale e da una mole di aiuti, statali e non, che impediscono chiusure definitive (“too big to fail”, troppo grandi per fallire dicono gli inglesi), nella piccola, spesso, la disoccupazione significa la morte dell’impresa stessa.

Quante volte abbiamo sentito di imprenditori che si tolgono il pane di bocca per non chiudere i battenti e lasciare in mezzo alla strada dipendenti e famiglie? Oppure che, non riuscendosi, si tolgono la vita?

Ecco, di fronte a questi dati, di fronte a queste cifre sull’occupazione che non c’è che vengono dalle fonti più diverse, Infoiva proverà questa settimana a estrarre una visione d’insieme. Andando al di là del corporativismo delle associazioni, della miopia di quei sindacati ancorati a una visione del lavoro e dell’economia che è ormai di due secoli fa, della diffidenza della piccola impresa a confrontarsi con un fenomeno che, se fino a 5 anni fa era un problema degli altri, ora è per essa stessa questione di vita o di morte.