Il datore di lavoro può controllare il computer del dipendente?

Il datore di lavoro può controllare il computer dei dipendenti? A fare chiarezza e a rispondere al quesito ha risposto la sentenza della Cassazione (la numero 25732 del 22 settembre 2021) che ha decretato il freno dei controlli “a tappeto” da parte dell’impresa ai dipendenti. Tuttavia, la stessa sentenza stabilisce la possibilità di controllo su un singolo lavoratore nel caso in cui emergesse il fondato sospetto sulla commissione di un illecito.

Quando è ammesso il controllo del pc di un dipendente e in che modo

Pertanto il controllo è ammesso entro determinati limiti. Innanzitutto, per il sospetto di un illecito il datore di lavoro può controllare il pc di un dipendente anche in assenza delle condizioni poste dall’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori. Ma devono sussistere anche altre due condizioni. La prima consiste nell’equilibrio tra le esigenze di protezione dei beni dell’impresa e la tutela della dignità personale. La seconda impone che il datore svolga il controllo solo sui dati acquisiti dopo che sia insorto il sospetto di illecito.

Il caso della dipendente che visitando siti privati ha causato l’introduzione di un virus informatico

Le regole, in particolare, trovano applicazione nel controllo a distanza dei lavoratori. Ma deve sussistere il sospetto della commissione di un illecito da parte del lavoratore. La Cassazione, nell’esprimere la propria sentenza, era stata chiamata a esprimersi in merito a una controversia di una Fondazione. Il ricorrente aveva licenziato una dipendente per il danno subito alla rete informatica a causa di un virus. Nel dettaglio, dopo controlli fatti sul pc della dipendente, la Fondazione aveva accertato che il virus era stato innescato nella rete dell’azienda proprio mediante un file che era stato scaricato da portali on line aperti per ragioni non lavorative. Il file era stato trovato nella cartella di “download”.

Dipendente licenziata per aver consultato siti web per finalità private sul posto di lavoro

L’azienda aveva licenziato la dipendente sia per la consultazione di portali web per finalità private, sia per aver causato un danno al patrimonio dell’impresa con il suo comportamento. La lavoratrice, invece, aveva impugnato il licenziamento ed era ricorsa al Garante par la privacy per ottenere un provvedimento che intimasse al datore di lavoro l’interruzione di ogni ulteriore trattamento dei dati personali.

Controlli individuali in azienda e a difesa del patrimonio dell’impresa

Il giudizio, dopo varie vicende giudiziarie, è spettato alla Corte di Cassazione che ha emesso la sentenza rispettando anche le novità apportate all’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori dal Jobs Act nel 2015. La Cassazione ha chiarito che è necessario distinguere tra i controlli difensivi svolti per difendere il patrimonio dell’impresa e che riguardano tutti i dipendenti, dai controlli fatti verso un singolo dipendente. I primi rientrano nella disciplina dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori e pertanto devono attenersi alle procedure previste dalla normativa a pena di illegittimità dei controlli stessi.

Controlli su un singolo lavoratore da parte del datore: quando sono possibili?

Nei controlli individuali deve esserci il fondato sospetto che il dipendente stia commettendo un illecito.  Il caso in questione non rientra nell’articolo 4, ma riguarda la responsabilità della lavoratrice. La situazione di fatto nasce dalla necessità del datore di lavoro di sanzionare l’illecito avendo il sospetto della commissione dello stesso. Ciò significa che il datore di lavoro, avendo dei sospetti di un fatto illecito, potrebbe fare controlli a distanza. E che tali controlli potrebbero essere eseguiti anche medianti strumenti tecnologici andando al di là, quindi, delle rigide procedure elencate dallo Statuto dei lavoratori.

I limiti dei controlli dei datori di lavoro

Nella sentenza la Cassazione ha posto, in ogni modo, dei limiti nell’azione di controllo dei datori di lavoro. Il primo consiste nel fatto che gli stessi controlli possono essere svolti solo ex post. Ovvero solo dopo che sia nato il sospetto della commissione di un illecito di uno o più lavoratori. Inoltre, i controlli possono riguardare solo il reperimento di informazioni successive alla nascita del sospetto, e non la totalità dei dati e delle informazioni riguardanti anche i momenti precedenti al sospetto dell’illecito. Al contrario, un datore di lavoro senza limitazioni finirebbe per estendere i controlli a dismisura rispetto alla commissione del singolo illecito.

Cumulo detrazioni fiscali lavoro autonomo e dipendente

In sede di dichiarazioni dei redditi, le detrazioni fiscali che sono fruibili ed accessibili per i redditi da lavoro dipendente sono cumulabili con le detrazioni fiscali legate, invece, ad attività di lavoro autonomo? Questo è infatti il dubbio che spesso sorge quando un contribuente, pur avendo come reddito prevalente quello da lavoro dipendente, deve pure dichiarare dei compensi che, nello specifico, risultano essere derivanti da attività di lavoro autonomo che, comunque, non sono esercitate abitualmente.

Cumulo delle detrazioni tra lavoro autonomo e dipendente, ecco perché non è possibile

Pur tuttavia, la normativa fiscale vigente è molto chiara al riguardo. Ovverosia le detrazioni fiscali da lavoro dipendente non si possono cumulare, fruendo così di una doppia agevolazione ai fini IRPEF, con le detrazioni legate al lavoro autonomo.

Il Testo unico delle imposte sui redditi (Tuir), al comma 5 dell’articolo numero 13, infatti, stabilisce la non cumulabilità tra le due detrazioni. Il che significa che il contribuente, in sede di dichiarazione dei redditi, può usufruire di una sola detrazione fiscale. Ovverosia quella per il lavoro dipendente oppure quella per il lavoro autonomo.

Quali sono le detrazioni per lavoro autonomo e per quello dipendente

Senza alcuna possibilità di accesso al cumulo, come sopra spiegato, quali sono allora le detrazioni fiscali che i lavoratori autonomi e quelli dipendenti possono sfruttare per abbattere ogni anno le imposte da andare a pagare sui redditi?

Al riguardo proprio l’Agenzia delle Entrate, nella sezione ‘L’Agenzia informa‘ del proprio sito Internet, mette a disposizione dei contribuenti, gratuitamente, tutta una serie di guide fiscali che si possono visionare e scaricare in formato PDF.

E tra queste guide molte riguardano proprio le detrazioni fiscali a partire da quelle più comuni. Dalle agevolazioni fiscali sulle spese sanitarie al bonus mobili ed elettrodomestici, e passando per il Superbonus 110%, per il bonus facciate e per le agevolazioni fiscali sulle ristrutturazioni edilizie. Ma anche le agevolazioni fiscali per il risparmio energetico, e le agevolazioni fiscali che sono previste dall’attuale normativa fiscale quando si compra la casa.

Nel rispetto dei requisiti previsti, tanto i dipendenti quanto i lavoratori autonomi possono accedere alle detrazioni fiscali. Con la sostanziale differenza che sta nel fatto che il lavoratore dipendente sfrutta le detrazioni fiscali grazie al modello 730. Mentre il lavoratore autonomo sfrutterà le detrazioni fiscali inserendole e indicandole nel modello Redditi.

Differenze detrazioni e bonus tra il lavoro autonomo ed il lavoro dipendente

Nello stesso tempo, pur tuttavia, c’è anche da dire che non tutte le detrazioni fiscali che sono accessibili per i lavoratori autonomi lo sono pure per i lavoratori dipendenti e viceversa. Questo vale, per esempio, per l’ex bonus 80 euro che, innalzato fino ad un massimo di 100 euro mensili, spetta non a caso ai titolari di redditi da lavoro dipendente fino a 40.000 euro, e non agli autonomi.

Così come il lavoratore autonomo, a sua volta, può avvantaggiarsi dell’esonero dalla dichiarazione dei redditi, e IRPEF zero da pagare, quando nell’anno di imposta ha svolto delle prestazioni di lavoro autonomo occasionale per compensi complessivamente non superiori alla soglia dei 4.800 euro lordi.

Detrazioni carichi familiari: lavoro autonomo e dipendente a confronto

Ogni anno, prima di trasmettere al Fisco la dichiarazione dei redditi, il contribuente ha la possibilità di fruire di benefici fiscali, attraverso il meccanismo della detrazione di imposta, se ci sono familiari a carico. In particolare, se il reddito del familiare nell’anno non ha superato la soglia dei 2.840,51 euro, allora questo sarà considerato fiscalmente a carico. E lo sono pure tutti i figli che, aventi un’età non superiore ai 24 anni, non superano il limite di reddito dei 4.000 euro. Ma detto questo, sempre in materia di detrazioni carichi familiari, quali sono le differenze nella fruizione tra il lavoratore autonomo ed il lavoratore dipendente?

Lavoro autonomo e dipendente a confronto sulle detrazioni fiscali per familiari a carico

Al riguardo la prima cosa da dire è che la prima differenza tra il lavoratore dipendente e quello autonomo, per quel che riguarda le detrazioni sui carichi di famiglia, sta nel modello dichiarativo da andare ad utilizzare. Se per le detrazioni carichi familiari, infatti, il lavoratore autonomo utilizza il modello 730, il lavoratore autonomo, invece, deve indicare il codice fiscale dei familiari a carico andando a compilare il modello Redditi.

Inoltre, se in genere il lavoratore dipendente non ha difficoltà a sfruttare a pieno le detrazioni per i familiari a carico, lo stesso non vale spesso per il lavoratore autonomo nel caso in cui questo dichiari al Fisco un reddito basso. In tal caso, infatti, potrebbe non avere capienza fiscale sufficiente per fruire totalmente, per esempio, delle detrazioni fiscale per il coniuge e per il figlio a carico.

Proprio per i figli a carico, nel rigo corrispondente del modello dichiarativo, bisogna inoltre indicare ‘100’ se la detrazione per il figlio fiscalmente a carico è richiesta per intero. Bisogna indicare ‘50’ se la detrazione è ripartita tra i genitori, mentre bisogna riportare ‘0’ se la detrazione, invece, è richiesta per intero dall’altro genitore.

Come funzionano le detrazioni fiscali per i familiari a carico per gli autonomi ed i lavoratori dipendenti dipendenti

Per il resto, il meccanismo per le detrazioni fiscali per i familiari a carico per lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti è lo stesso a partire dalle soglie sopra indicate affinché, in base al reddito personale, un familiare sia o meno fiscalmente a carico.

Inoltre, tanto per gli autonomi quanto per i lavoratori dipendenti, l’ammontare delle detrazione fiscale per ogni familiare a carico parte da una base, che è rappresentata dal valore massimo fruibile per pagare meno tasse, o per maturare un credito di imposta, per poi decrescere fino ad azzerarsi all’aumentare del reddito che sarà dichiarato al Fisco.

Non a caso, nelle istruzioni che sono allegate ai modelli dichiarativi, è proprio l’Agenzia delle Entrate a far presente che, a seconda di quella che è la situazione reddituale del contribuente, le detrazioni fiscali per i carichi di famiglia possono spettare per intero, possono spettare solo in parte, oppure non possono spettare. Per esempio, in base alla normativa fiscale vigente, la detrazione fiscale per il coniuge a carico, che parte da una base massima di 800 euro, si azzera per i redditi dichiarati oltre la soglia di 80.000 euro.

Tassazione e sgravi: alcuni effetti fiscali della legge di stabilità 2015

La legge di stabilità 2015, approvata due giorni prima di Natale, ha portato alcuni “regali” dal punto di vista della tassazione.

Innanzitutto aumenta la tassazione sulla previdenza in generale: sui rendimenti dei fondi pensione, che passa dal 11,50% al 20%, sulla rivalutazione del TFR, dal 11% al 17%, sui rendimenti finanziari delle casse di Previdenza, dal 20% al 26%, sulle polizze vita che passano da 0% a 26%.

Secondo molte sentenze dei tribunali italiani e della Corte di Cassazione, le polizze vita sono strumenti assimilabili ai prodotti previdenziali quando hanno due caratteristiche: sono collegati ad un evento inerente la vita umana e prevedono un premio di maggiorazione per decesso all’età dell’assicurato. In pratica assumono la funzione di integrazione del reddito dei superstiti, beneficiari della polizza.

La tassazione dei rendimenti di tali polizze era pari a zero, nei confronti dei beneficiari, mentre con la nuova legge sono ora tassati ordinariamente al 26% con in più un effetto retroattivo ai rendimenti del 2014.

Rimangono, per il momento, escluse dall’asse ereditario e quindi esenti da imposte di successione o donazione, ma non credo che questo vantaggio rimanga ancora per molto tempo, considerando la media europea in tema di imposte di successione molto più elevata rispetto all’Italia e l’assenza o la scarsa presenza in Europa di esclusioni e franchigie. Ricordo che da noi la franchigia è di 1 milione di euro per erede.

Anche l’aumento della tassazione sui fondi pensione li rende meno appetibili e convenienti per i pensionandi. Considerando anche la scarsa trasparenza sulle gestioni dei medesimi e i rendimenti non esattamente brillanti, viene da pensare se esistono alternative per costruire un reddito supplementare da utilizzare al momento della pensione.

Stesso discorso vale per il TFR: aumentata la tassazione sulla rivalutazione, investire il proprio TFR in strumenti a carattere previdenziale, rimane un investimento utile ad integrare la pensione? Con la nuova legge viene data la possibilità ai lavoratori del settore privato (escluso quello agricolo e domestico) di incassare quanto versato e inoltre di ricevere in busta paga l’importo che l’azienda dovrebbe accantonare. Se queste somme venissero impiegate cum grano salis ed investite correttamente, potrebbero generare risultati integrativi della pensione molto più soddisfacenti rispetto ai tradizionali strumenti previdenziali, seppur appesantite dalla tassazione che in questo caso diverrebbe ordinaria e non più agevolata (ma sempre meno).

Lo Stato sicuramente ci guadagna, perché la tassazione è più elevata, ma forse anche il lavoratore può trarne dei vantaggi, se non fiscali, almeno per quanto riguarda libertà di utilizzo di quanto versato e rendimenti generati nel tempo. Chi aderisce alla previdenza complementare o versa il TFR alla medesima, è vincolato alle regole in materia pensionistica; difficoltà ad ottenere quanto versato se non per casi eccezionali, conversione in rendita almeno del 50% del versato (non viene restituito tutto il capitale a scadenza), e tabelle di conversione in rendita applicate dalle compagnie assicuratrici o dai fondi pensione, che pareggiano la rendita annuale con quanto versato mediamente dopo 18 anni (65+18=83 anni). Se il pensionato vive oltre, inizia a guadagnare qualcosa. Altrimenti, ci guadagna la compagnia o il fondo.

Una buona notizia: è invece aumentato a 30.000,00 euro l’importo massimo per la deducibilità ai fini IRES delle erogazioni liberali in denaro (effettuate in maniera tracciabile) in favore delle Organizzazioni No Profit di Utilità Sociale, aumentando al 26% la percentuale di detraibilità ai fini IRPEF.

Ma c’è il rovescio della medaglia, che è la nuova tassazione degli enti non commerciali, di cui fanno parte appunto gli enti No Profit, le fondazioni, le organizzazioni di volontariato e i trust. In precedenza questi enti avevano una esenzione di imposta del 95%, pagavano quindi le imposte solo sul 5% degli utili distribuiti. Ora invece l’esenzione è ridotta al 22,76% e pagheranno quindi sul 77,24% degli utili. Retroattiva anche questa, a partire dal primo gennaio 2014. In pratica, se prima pagavano 27,5%*5%=1, 375%, ora pagano 27,5%*77,24%= 21,24%, che significa un aumento di oltre 15 volte l’imposta.

Inoltre, se gli enti hanno dei beneficiari individuati, l’aliquota sarà quella marginale e quindi mediamente 43% invece del 27,5%, con un ulteriore inasprimento per il contribuente.

La ragione del provvedimento è stata motivata con l’equiparazione tra tassazione degli enti non commerciali e quella delle persone fisiche, che appunto pagano mediamente il 43% di aliquota. Però non si comprende la ratio, perché le persone fisiche possono utilizzare gli utili e i dividendi per le finalità che ritengono opportune, mentre gli enti no profit devono reinvestire gli utili per i fini istituzionali e non possono utilizzarli diversamente. Di fatto gli enti No Profit reinvestono gli utili in favore dei propri assistiti o dei beneficiari dell’ente, rimettendo in circolo il risultato generato. Quindi perché equipararli alle persone fisiche?

La retroattività invece non si applica allo sconto sull’Irap di imprese e professionisti, che decorre dal 2015. Potrà essere scalato interamente il costo dei soli lavoratori a tempo indeterminato, esclusi quindi collaboratori a progetto, collaboratori e tutti i lavoratori assunti con contratti a tempo determinato. Sono esclusi gli enti non commerciali.

Ma si tornano però ad applicare le aliquote IRAP del 2013, più elevate rispetto al 2014, aumentando nuovamente dal 3,5% al 3,9% l’aliquota base, questa con effetto retroattivo al 2014. Viene annullato quindi il beneficio concesso lo scorso anno, che non entra in vigore. Chi ha già anticipato, dovrà integrare sulla base della nuova aliquota. Abbiamo scherzato, insomma!

Sempre il bastone e la carota, non c’è verso di cambiare. Se c’è una agevolazione da un lato, subito spunta un aumento dall’altro. Ci sarà un credito di imposta in compensazione, aumentato al 10% dell’imposta lorda, per chi non ha dipendenti; è stato introdotto per bilanciare lo svantaggio di non poter utilizzare il taglio IRAP per i dipendenti per chi non ne ha.

Il bonus IRPEF di 80 euro in busta paga diventa, da credito d’imposta precedente, una detrazione per l’azienda e diventa strutturale, non più provvisorio.

E’ ovvio che più dipendenti, assunti a tempo indeterminato, ha un’azienda, maggiore sarà il vantaggio fiscale, che però, decorrendo dal 2015, diventerà effettivo solo a partire dai versamenti del 2016. Quindi tocca tirare la cinghia anche per il 2015!

dott. Marco Degiorgis – Consulente indipendente per la gestione dei patrimoni familiari, Studio Degiorgis

Il certificato di malattia può essere contestato

Il certificato medico attestante lo stato di malattia del dipendente può essere contestato dal datore di lavoro. Se ha motivo di ritenere insussistente la denunciata malattia del lavoratore. A sostenerlo, facendo riferimento a una “giurisprudenza consolidata”, un parere della Fondazione Studi dei consulenti del lavoro. In particolare, si sottolinea, il datore di lavoro può domandare in giudizio la verifica dell’attendibilità della certificazione prodotta dal lavoratore, anche laddove non abbia richiesto una visita di controllo.

Infatti, si spiega, “il controllo delle assenze del lavoratore per infermità previsto dall’articolo 5, legge 20 maggio 1970, n. 300, non costituisce l’unico mezzo concesso al datore di lavoro per contestare l’attendibilità del certificato medico prodotto dal lavoratore, che può sempre mettere in dubbio tale certificazione mediante il ricorso all’autorità giudiziaria“.

“Ciò -prosegue- in quanto la natura di atti pubblici dei certificati redatti da medici appartenenti al servizio sanitario nazionale conferisce a tali documenti la fede pubblica, fino a querela di falso, per ciò che concerne i seguenti fatti: la provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato; i fatti che il pubblico ufficiale medesimo attesta di aver compiuto o essere avvenuti in sua presenza. Viceversa, la fede pubblica non si estende alla diagnosi, e dunque ai giudizi del sanitario relativi allo stato di malattia e all’impossibilità temporanea della prestazione lavorativa. Tali valutazioni, pur essendo dotate di un elevato grado di attendibilità in ragione della qualifica funzionale e professionale del pubblico ufficiale, non sono vincolanti per il giudice, che può anche decidere di sconfessarle in presenza di elementi probatori di segno contrario”.

Per i consulenti del lavoro, infatti, la legge “lascia integro il potere-dovere del giudice di merito di controllare l’attendibilità degli accertamenti sanitari, avvalendosi dei poteri istruttori che gli conferisce il rito del lavoro”. E, ricordano gli esperti, proprio nel giudizio di valutazione attestante l’effettivo stato di malattia del dipendente, è stato accordato rilievo a una serie di circostanze, a cominciare dall’incongruenza tra la prognosi (ad esempio, numerose settimane di malattia) e la diagnosi, ma anche tra la prognosi (o la diagnosi) e la terapia prescritta al lavoratore può invalidare la certificazione medica.

Ancora, è stato accordato rilievo alla “tardività della visita medica rispetto all’inizio della malattia, che ha privato di attendibilità una diagnosi riferita ai periodi pregressi” o alle “circostanze complessive di fatto e il comportamento del lavoratore: ad esempio, il giudice può rilevare l’incompatibilità tra la malattia denunciata e la condotta del lavoratore, sorpreso a svolgere un’altra attività lavorativa”.

Ci può essere poi “il contrasto di valutazioni tra il contenuto del certificato del medico curante del lavoratore e gli accertamenti compiuti dal medico di controllo: in tal caso, il giudice di merito non deve recepire acriticamente la certificazione ufficiale, ma deve compiere un esame comparativo tra i due certificati al fine di stabilire quale delle due contrastanti certificazioni sia maggiormente attendibile“. Anche l’omessa visita al paziente può costituire, infine, un valido motivo di contestazione del certificato medico.

Un dipendente rimane a casa per un incidente? Anche al datore di lavoro spetta un risarcimento.

Il datore di lavoro ha diritto al rimborso delle spese erogate al proprio dipendente, a titolo sia retributivo che contributivo, per l’intero periodo di inabilità temporanea durante il quale il lavoratore è rimasto assente dal posto di lavoro a causa delle lesioni riportate in seguito ad un incidente stradale cagionato da un terzo; quest’ultimo, infatti, avendo di fatto impedito al lavoratore di prestare la propria attività lavorativa, ha cagionato un danno anche al datore di lavoro tenuto a pagare comunque il lavoratore, ma pregiudicato nella possibilità di ricevere la prestazione corrispettiva. Il risarcimento sarà a carico del terzo responsabile del fatto illecito ed il relativo diritto si prescriverà in due anni dalla data del sinistro. Questo è quanto stabilito dalla Cassazione civile, sezione III, con la sentenza n. 2844/2010.

fonte: LEGALE-ONLINE.NET