Naspi e lavoro subordinato? Si può

Forse non tutti sanno che è possibile percepire la Naspi – la nuova indennità di disoccupazione per chi ha perso il lavoro in vigore dall’1 maggio 2015 – anche se, nel frattempo, si è trovata un’occupazione.

La Naspi è stata infatti dichiarata compatibile con il regime di lavoro subordinato, almeno in un caso. Accade quando il lavoratore beneficiario della Naspi, nel periodo in cui ne fruisce sottoscrive un rapporto di lavoro subordinato (della durata superiore o inferiore ai 6 mesi) da cui deriva un reddito inferiore agli 8mila euro annui: in questo caso mantiene il diritto alla Naspi, ma la percepirà di importo ridotto.

L’importo della Naspi è ridotto all’80% dell’assegno, ricalcolato sul periodo di tempo che intercorre tra la data di inizio del lavoro e la data di cessazione, o, qualora sia successiva, alla fine dell’anno.

Il lavoratore deve però ricordarsi di comunicare all’Inps il reddito annuo previsto dalla nuova attività entro un mese dall’inizio del lavoro, pena la decadenza dalla Naspi ridotta. Qualora questa comunicazione non avvenisse e il rapporto di lavoro fosse inferiore a 6 mesi, la Naspi verrebbe sospesa; cancellata se il lavoro fosse superiore ai 6 mesi.

Ricordiamo che per poter accedere all’erogazione della Naspi, il disoccupato deve avere:

  • stato di disoccupazione;
  • 30 giorni di lavoro effettivi nei 12 mesi precedenti la disoccupazione;
  • 13 settimane di contributi versati nei 4 anni precedenti.

Unioncamere, 900mila posti in più nelle imprese

Sono cifre interessanti quelle emerse dalle notizie per l’anno 2015 del Sistema informativo Excelsior, realizzato da Unioncamere e Ministero del Lavoro, e riguardanti le previsioni di assunzioni da parte delle imprese italiane per l’anno in corso. Si parla infatti di oltre 910mila entrate previste da parte delle imprese dell’industria e dei servizi con almeno un dipendente. Sono 119mila in più rispetto al 2014.

Il rapporto di Unioncamere segnala anche la stabilizzazione, grazie alle misure introdotte dal Jobs Act, di circa 170mila lavoratori e la creazione di 55mila nuovi posti di lavoro che, a detta dell’Unione italiana delle camere di commercio, non si sarebbero avuti quest’anno se la legislazione sul lavoro fosse rimasta invariata.

Secondo Unioncamere, a crescere in misura consistente nel 2015 sarà il lavoro “stabile”, a cominciare dai nuovi contratti a tutele crescenti che dovrebbero essere poco meno di 250mila (249.200) rispetto ai 146mila contratti a tempo indeterminato programmati nel 2014. Interrogate su queste 249mila assunzioni, le imprese hanno indicato come motivazione prevalente, che 132.700 (il 53,2%) sarebbero state messe in programma a prescindere, che 35.400 non sarebbero state previste senza il Jobs Act (14,2%) grazie al quale oltre 19mila di queste sarebbero anticipate a quest’anno (7,7%).

Le aziende, interpellate da Unioncamere, confermano che per 62mila assunzioni circa si tratterebbe di un cambio rispetto a una tipologia contrattuale “atipica” prevista all’inizio (24,9%). A quest’ultima quota di “precari” stabilizzati grazie al Jobs Act, si deve poi aggiungere parte delle 117mila trasformazioni di contratti dal tempo determinato all’indeterminato di lavoratori già alle dipendenze delle imprese che possono essere state influenzate o dalla nuova disciplina sul lavoro.

Quello che è interessante notare, secondo il rapporto di Unioncamere, è proprio il fatto che, durante il 2015, le imprese italiane dell’industria e dei servizi hanno programmato di realizzare oltre 910.300 ingressi di nuovo personale, quasi 120mila (118.900) in più rispetto al 2014, con una crescita del +15%. Di questo totale faranno parte oltre 720mila assunzioni dirette (+17,7% quelle a carattere stagionale e non stagionale) e circa 190mila nuovi contratti di lavoro atipici (di somministrazione o parasubordinati + 5,9%).

Buone anche le cifre che riguardano l’occupazione giovanile, per la quale le imprese interpellate da Unioncamere ritengono di poter riservare oltre 202mila delle 721.700 assunzioni previste: il 28% del totale. Per quanto riguarda i settori produttivi, nelle imprese dei servizi saranno 156.600, nell’industria 45.600. Per quanto riguarda le aree geografiche, sarà più intensa la presenza giovanile nel Nord Ovest, dove la quota di assunzioni destinate agli under 30 toccherà il 32%, e tra le imprese con oltre 250 dipendenti, dove arriverà al 36%.

Unioncamere traccia quindi, nel complesso, un quadro incoraggiante, dove però il saldo tra entrate e uscite nel settore privato nel 2015 sarà ancora in negativo, anche se meno rispetto al 2014: si parla di circa 60mila posti di lavoro in meno, in miglioramento rispetto ai -144mila previsti dalle imprese lo scorso anno, con un aumento netto della domanda di lavoro di oltre 83mila unità.

Tasso di attività, il gap tra Nord e Sud

Il tasso di attività è il numero delle persone che lavora o cerca lavoro in una determinata area geografica. Al Nord arriva al 70,5%, al Sud al 52,8%. Se si fa lo stesso confronto sui sessi, si vede che la differenza tra Nord e Sud è pari, per gli uomini, all’11,8% e per le donne al 23,4%.

I dati sono stati estrapolati da Adnkronos e riguardano appunto il cosiddetto tasso di attività delle diverse aree geografiche in Italia. L’agenzia di stampa ha elaborato i dati contenuti nel dossier “Istat Italia in cifre 2015” e relativi al 2014, scoprendo che il tasso di attività al Nord è del 17,7% superiore rispetto al Sud.

Al Centro, invece, il tasso di attività è del 68,9%, che sale al 76,6% per gli uomini e cala al 61,4% per le donne. Il tasso di attività, a livello Italia è del 63,9%, al 54,4% per le donne e al 73,6% per gli uomini.

Oltre al tasso di attività, l’analisi di Adnkronos su dati Istat ha preso in considerazione anche le differenze tra le aree geografiche relativamente al tasso di occupazione. Al Nord è del 64,3%, al Sud al 41,8%, -22,5%. Grandi differenze anche quando si parla di disoccupazione: 8,6% al Nord, 20,7% al Sud, + 12,1%. Al Centro, invece, il tasso di occupazione è del 60,9% e la disoccupazione all’11,4%.

A livello Italia, nel 2014 il tasso di occupazione è stato del 55,7% mentre la disoccupazione è arrivata al 12,7%.

Imprese gazzelle e scarsa occupazione

L’altalena dei dati relativa all’economia e al lavoro continua senza sosta anche in questo periodo di vacanza. Secondo l’Istat, in Italia è calato il numero delle imprese che creano lavoro, relativamente a quelle attive con dipendenti (escluse la pubblica amministrazione, l’agricoltura e il non profit): -3% nel 2014 rispetto al 2013 sul fronte occupazione.

Il totale degli addetti di queste imprese è di 13 milioni, di cui 11 i dipendenti, calati dell’1,4% rispetto al passato. E la difficoltà a creare occupazione è evidente anche guardando le performance delle cosiddette “imprese gazzelle”, ossia le piccole aziende con notevole tasso di crescita: ebbene, se queste, secondo il Cerved, dal 2007 al 2012 hanno raddoppiato il fatturato, non hanno però ottenuto risultati analoghi sotto il profilo occupazionale.

Se si osservano poi le dimensioni delle aziende che creano lavoro, il calo più sensibile dell’ occupazione si registra per il segmento 1-9 addetti (-3,2%), mentre per settore produttivo sono le imprese con 100-249 addetti delle costruzioni a far segnare il dato peggiore: -8,8%.

Busta paga sempre più povera

Siamo abituati a parlare e a sentir parlare degli effetti che la crisi ha sull’andamento della macroeconomia, ma non sempre ci fermiamo a riflettere su quanto incide nella vita di tutti i giorni e, soprattutto, sulle retribuzioni. In sostanza, quali sono gli effetti della crisi economica sulla busta paga degli italiani?

A questa domanda ha provato a dare una risposta l’Osservatorio JobPricing, costruito in collaborazione con il sito di Repubblica.it. E ha provato a darla basando la propria analisi sui dati forniti dai lettori del quotidiano in merito alla propria busta paga.

Si tratta quindi di dati parziali, che non rivestono un valore statistico rilevante ma che aiutano a capire come, dall’inizio della crisi (2008) a oggi, la contrazione dell’economia non abbia influito negativamente solo sull’occupazione ma anche sulla busta paga di molti di noi.

Secondo l’osservatorio, negli ultimi 7 anni gli stipendi più penalizzati dalla crisi sono stati quelli agli estremi opposti della catena produttiva: gli operai hanno perso quasi 1.700 euro di potere d’acquisto complessivo e i dirigenti si sono trovati un totale di quasi 6mila euro in meno in busta paga.

I livelli intermedi come quelli degli impiegati hanno tenuto botta (-254 euro), mentre una ai quadri è andata decisamente peggio: -4mila euro e più.

Nel realizzare la propria indagine, JobPricing ha preso come base la Ral nella parte fissa, calcolando la perdita del potere d’acquisto sull’inflazione Istat per i beni ad altra frequenza d’acquisto. Il risultato: busta paga sempre più povera, grazie alla crisi.

Cgia: 1 milione di contratti dalle misure per il lavoro

Anche la Cgia vede con favore alcune delle misure introdotte dal Jobs Act a sostegno dell’occupazione. Nello specifico, secondo il segretario della confederazione artigiana Giuseppe Bortolussi, “la decontribuzione triennale per i nuovi assunti a tempo indeterminato e le misure del Jobs act daranno luogo, come riportato nella Relazione tecnica alla Legge di Stabilità del 2015, a 1 milione di nuovi contratti incentivati”.

La Cgia ha infatti rilevato come, a dare una spinta importante alle assunzioni da parte delle aziende, sarà presumibilmente lo sgravio totale dei contributi Inps per 36 mesi per gli assunti a tempo indeterminato, introdotto dalla recente Legge di Stabilità.

Se poi si considerano anche la deducibilità integrale, della componente del costo del lavoro per tutti i lavoratori assunti con un contratto stabile dal calcolo della base imponibile Irap, oltre ai contratti a tutele crescenti introdotti dal Job Act a partire dal 7 marzo, secondo la Cgia le condizioni per un rilancio occupazionale dovrebbero essere favorevoli.

A fronte di queste condizioni, la Cgia stima 1 milione di nuovi assunti che però, avverte, non sarà una cifra in termini assoluti ma che deriverà in buona parte dalla trasformazione in contratti a tempo indeterminato di rapporti attualmente precari. Un’operazione che dovrebbe costare, grossomodo, 15 miliardi.

Secondo Bortolussi, infatti, “al lordo degli effetti fiscali la decontribuzione totale Inps in capo alle imprese dovrebbe costare alle casse dello Stato 1,86 miliardi di euro nel 2015, 4,88 miliardi nel 2016 e oltre 5 miliardi nel 2017. L’operazione, ovviamente, avrà una coda anche nel 2018, pari a 2,9 miliardi di euro. Complessivamente, il costo per i nostri conti pubblici dovrebbe essere di circa 15 miliardi di euro”.

La crisi pesa sugli ammortizzatori sociali

Ogni crisi ha i suoi costi e quella che stiamo attraversando ne ha di altissimi sul fronte degli ammortizzatori sociali. Secondo un’elaborazione effettuata dall’Ufficio Studi della Cgia, tra il 2009 e il 2013 l’Italia ha pagato 59 miliardi di euro in ammortizzatori sociali, al netto dei contributi figurativi.

Secondo la Cgia, il 72,7% di questi costi per ammortizzatori sociali (pari a 42,8 miliardi) è stato coperto grazie ai contributi versati dai dipendenti e dalle imprese, mentre il restante 27,3% (circa 16 miliardi) è stato a carico della fiscalità generale.

Se analizziamo l’andamento registrato in questi ultimi anni – ha commentato il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi – notiamo che c’è stato un boom della spesa delle misure di sostegno al reddito dei lavoratori che hanno perso il posto di lavoro. Dai circa 10 miliardi riferiti al 2009 si è saliti a quota 14,5 nel 2013. Importo, quest’ultimo, che dovrebbe essere raggiunto anche nel 2014. Per contro, invece, la copertura garantita dai contributi versati dalle imprese e dai lavoratori dipendenti è rimasta praticamente la stessa. Se nel 2009 era pari a 8,4 miliardi, nel 2013 è stata di poco superiore ai 9 miliardi di euro. Questo si traduce in un saldo sempre più negativo: ovvero il costo degli ammortizzatori sociali è sempre più a carico della collettività. Era pari poco più di 1,5 miliardi nel 2009, l’anno scorso ha sfiorato i 5,5 miliardi di euro”.

Lo studio della Cgia ha preso in esame il flusso di entrate e uscite relativo a diversi ammortizzatori sociali: Cig ordinaria, Cig straordinaria, Cig straordinaria in deroga, trattamenti di disoccupazione, AspI e mini-AspI, indennità di mobilità. Un’analisi che però non comprende le somme a copertura della contribuzione figurativa garantite dallo Stato, quelle, per capirsi ai fini della maturazione dei requisiti previsti per l’ottenimento della pensione.

In questo quadro diventa esemplare, tra gli ammortizzatori sociali la situazione della Cig in deroga, introdotta all’inizio della crisi per favorire gli occupati della piccola impresa e diventata, da misura straordinaria, una misura strutturale che costa all’Italia circa 1,5 miliardi di euro all’anno. Un costo che ricade su tutti i contribuenti in quanto è finanziata dalla fiscalità generale, diversamente dalla Cig ordinaria, quasi del tutto finanziata attraverso i contribuiti versati dalle imprese e dai lavoratori dipendenti.

Disoccupazione, ogni giorno in mille perdono il lavoro

 

Drammatica (e non è una novità) la situazione lavoro in Italia: a luglio, secondo gli ultimi dati Istat, il tasso di disoccupazione si è attestato al 12,6%, in aumento di 0,3 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 0,5 punti su base annua. Divario è evidente tra uomini e donne, rispettivamente all’11,5% e al 13,4%, ma il dato che colpisce di più rimane la differenza territoriale tra Nord, 8,4%, e Sud, dove il tasso tocca addirittura il 20,3%. Lo scorso mese si è registrato un calo di occupati pari a 35mila unità, mille occupati in meno al giorno.

Il numero dei senza lavoro oggi in Italia è pari a 3 milioni 220 mila, in aumento del 2,2% rispetto al mese precedente (+69 mila) e del 4,6% su base annua (+143 mila). A luglio gli occupati sono, invece, 22 milioni 360 mila, in diminuzione dello 0,2% rispetto al mese precedente (-35 mila) e dello 0,3% su base annua (-71 mila).

Sono 705 mila, il 42,9%, i giovani tra i 15 e i 24 anni senza lavoro, in diminuzione (udite, udite…) di 0,8 punti percentuali rispetto al mese precedente ma in aumento di 2,9 punti sempre su base annua.

JM

Disoccupazione, il dramma dell’industria manifatturiera

 

Sono  136.616 i  lavoratori che rischiano di perdere il posto di lavoro nel 2014, in aumento di 13.486 unità rispetto allo scorso anno: è questo quello che si evince dal XI Rapporto industria, mercato del lavoro e contrattazione della Cisl. Secondo lo studio, tra il 2008 e il 2013, l’industria manifatturiera è quella che ha pagato il conto più salato alla drammatica crisi economica con quasi il 90% (482mila) della diminuzione totale degli occupati.

“Come contraccolpo della riorganizzazione delle imprese – si legge nel comunicato stampa della Cisl – negli ultimi due anni il ricorso agli ammortizzatori sociali ha toccato livelli storici. La Cassa Integrazione anche nel 2013 ha superato il miliardo di ore autorizzate, coinvolgendo almeno 300.000 persone”.

Risulta in crescita solo il lavoro a tempo determinato, e non ci voleva uno studio particolarmente scientifico per confermarlo, con i contratti che sono aumentati del 10% nel 2012 e +2,8% nel 2013.

JM

Imprese liguri soffocate dalla crisi

Un’indagine condotta da Unioncamere Liguria ha fatto emergere la situazione preoccupante delle imprese liguri che, afflitte dalla crisi, non riescono a risalire la china.

Al contrario, i dati sul tessuto imprenditoriale regionale rilevano dati in forte discesa, in particolare tra il 2012 e il 2013, sia tra le aziende registrate presso le Camere di Commercio sia tra quelle attive.

Nel 2012, infatti, le imprese registrate alle CCIAA liguri erano 167.225, mentre dopo un anno erano scese a 164.901, con un saldo negativo di 2.324 aziende.
Le attive sono calate da 142.060 a 139.429 pari a -2.631 unità.

Per quanto riguarda le imprese iscritte e cessate, nel 2013 le iscrizioni sono state 10.047 e le cessazioni 12.369; nel 2012 le iscrizioni erano state 10.491 (444 in più) e le cessazioni 10.914 (1.455 in meno). Senza contare che solo nel 2010 le iscrizioni (11.166) erano maggiori delle cessazioni (10.631).
Confrontando i dati relativi alle quattro provincie, emerge che le sofferenze riguardano indistintamente tutta la Regione.

Nessun dato in ascesa da nessun settore, se si esclude quello dei servizi, che mostra 31.854 imprese attive nel 2013 contro le 31.749 del 2012, con un saldo positivo di 105 aziende.

Negativo risulta anche il trend delle esportazioni di beni verso l’estero: nel 2013 ha segnato -6,2%.
Una tendenza che, però, le previsioni di Unioncamere danno in miglioramento già nel 2014 (+2,1) e in positivo fino al 2017 (+4,3%).
Molto più preoccupante il tasso di disoccupazione che, nel 2013, è del 9,9% per salire, secondo le previsioni, a 11,3 nel 2014 e scendere solo di poco negli anni a seguire, arrivando a 10,3 nel 2017.

Per quanto riguarda il 2014, peraltro, nel primo trimestre dell’anno il tasso di disoccupazione è salito all’11,9%, con una crescita tendenziale più accentuata rispetto alla media nazionale, dove dal 12,8% è salito al 13,6%. Il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) nel 2013, in Italia, ha raggiunto il 42,1%: nella graduatoria regionale al primo posto figura il Trentino Alto Adige con un tasso pari al 16,7% per arrivare alla Calabria con il 56,1%. La Liguria è a metà classifica con il 42,1%, in linea con la media nazionale.

La mancanza di fiducia nel futuro è evidente, però, guardando un altro dato, quello dell’aumento dei neet, ovvero delle persone che, nella fascia di età dai 15 ai 29 anni, non sono impegnati in alcuna attività, né di studio né di lavoro: dal 2008 al 2013, infatti, la percentuale è aumentata notevolmente, passando dal 13,5 al 21,1%, mentre, a livello nazionale, si è andati dal 19,3% al 26%, con una crescita del 6,7%.

Vera MORETTI