La città delle donne

di Alessia CASIRAGHI

8 marzo. Festa delle donne. Imprenditrici, mamme, politiche, casalinghe, piene di ambizioni e fragilità. Italiane ma cittadine del mondo. Un mondo che è sempre più a misura di donna, o forse no.

Ci siamo chiesti se esista davvero una città su misura per le donne. Prendendo a prestito il titolo di un film del tardo Fellini, La città delle donne (era il 1980 e all’epoca il film fece scandalo e suscitò le ire femministe per i toni visionari e provocatori della pellicola), vi proponiamo un giro attorno al mondo alla ricerca della città dove ‘è più facile’ essere donna.

Qualche tempo fa il World Economic Forum ha pubblicato il suo report annuale sul rapporto The global gender gap 2011 , uno studio che mette in luce, fra contrasti e similitudini, cosa significa essere donna oggi nel mondo.

Ad esempio, sapevate che il Ruanda è il Paese che premia maggiormente le donne in campo politico? Strano a dirsi, ma lo Stato africano è l’unico al mondo a vantare un parlamento a maggioranza di quote rosa: 45 contro 35. Anche se il Presidente in carica è un uomo, Paul Kagame. In tema di premier donne, la medaglia d’oro va invece allo Sri Lanka, dove si sono succedute al potere ben 23 capi di Stato donna.

A fare da contraltare ci pensano però gli Stati della Penisola Arabica, dallo Yemen all’Arabia Saudita, Emirati Arabi compresi: in Qatar e nell’Oman ad esempio non c’è nessuna donna al potere in politica.

Veniamo ai redditi: Lussemburgo e Norvegia si piazzano al primo posto in tema di retribuzioni più elevate per le donne, mentre è ancora una volta l’Arabia Saudita a guadagnarsi la maglia nera per il divario più alto tra redditi maschili e femminili (quasi inesistenti). Il maggior numero di manager in gonnella si trova in Thailandia, le donne con i pantaloni sono infatti il 45%, mentre contro ogni pronostico la percentuale più bassa si trova in Giappone (8%), anche se le donne nipponiche possono vantare un altro primato: sono le più longeve rispetto agli uomini (87 anni contro 80 la speranza di vita media).

E’ la Jamaica il Paese dove si concentra la più alta percentuale di donne con posti di lavoro altamente qualificati, mentre il maggior numero di giornaliste donne si trovano, indovinate un po’, sempre in terra caraibica (45%).

L’Africa stupisce ancora in tema di istruzione e alfabetizzazione: se da un lato è il Regno di Lesotho, la minuscola enclave all’interno del Sudafrica a guadagnarsi il podio in fatto di alfabetizzazione (il 95% sanno legger contro l’83% degli uomini), è purtroppo l’Etiopia a registrare il tasso più basso in assoluto in tema di scolarizzazione: solo il 18% delle ragazze infatti sa scrivere. Le migliori facoltà femminili? In Qatar, mentre le meno frequentate in assoluto si trovano nel Ciad.

E l’Italia? Il bel Paese non ha molto di che vantarsi: se nel 2008 occupava il 67mo posto della classifica, nel 2009 è precipitata a quota 72mo. Una caduta destinata a non arrestarsi: oggi siamo infatti in posizione 74, dietro Bangladesh, Namibia e Mozambico.

Il paese più women friendly? L’Islanda, che dal 2009 si riconferma alvertice della classifica. Nella top 10 troviamo poi numerosi Paesi del Nord Europa: seconda infatti è la Norvegia, seguita da Finlandia e Svezia. Bene Spagna, Germania e Regno Unito, tutte nella top 20, mentre la Francia, terra di rivoluzioni femministe, deve accontentarsi di un misero 48mo posto. Il posto peggiore in assoluto dove essere donna? Lo Yemen, preceduto da Ciad e Pakistan. Ma questa è tutta un’altra storia.

Come combattere il mal d’ufficio femminile

Il lavoro, per le donne manager, è tutt’altro che rosa.

Secondo una ricerca qualitativa effettuata da Onda, Osservatorio nazionale sulla salute della donna, e Key2People in collaborazione con Pirelli e Nestlè, infatti, il quadro generale presenta una donna invisa dai vertici aziendali, per il 63% formati totalmente da uomini, sottopagata, anche il 22% rispetto ai colleghi maschi e per nulla coadiuvata a svolgere le sue mansioni, quando ha la fortuna di arrivare in alto.

Hanno contribuito ad offrire questo “spaccato” di quotidiana vita lavorativa 20 donne manager professioniste di Milano, Roma e Napoli, che rispecchia fedelmente il triste 95mo posto occupato dall‘Italia circa la partecipazione della donna all‘economia nazionale. Con il risultato, desolante ma scontato, che porta una donna su due a rinunciare all‘impiego.

Nel 2008 l’Eurostat registrava un tasso di occupazione femminile sotto il 50%, con una forte sottorappresentazione nelle posizioni apicali. Oggi nulla è cambiato: le stime più recenti segnalano un 47% di donne lavoratrici. Il 53% non ce la fa o lascia perdere.

E chi, invece, tiene duro e prosegue per la sua strada? In questo caso, gli ostacoli che incontra non riguardano solo problemi in ufficio, ma anche la salute, tanto che gli psichiatri hanno coniato il termine di mal d’ufficio. Lo stress elevato, dunque, rappresenta un vero e proprio disturbo per 9 milioni di italiani, e di questi 7 su 10 sono donne.

Da Milano, il direttore del Dipartimento di neuroscienze dell’Azienda ospedaliera Fatebenefratelli, Claudio Mencacci, ha più volte lanciato l’allarme: troppo “scarsa l’attenzione da parte delle aziende alla salute psichica dei lavoratori, e soprattutto a quella delle dipendenti donna“. E, sempre a questo proposito, il dottor Mencacci ha ricordato che l’età a rischio è quella che coincide sia con la maternità sia con un’attività professionale molto intensa, ovvero tra i 30 e i 40 anni.

La spiegazione, a questo proposito, è piuttosto semplice: gli impegni sono tanti, e su più fronti, e assolverli tutti al meglio risulta sempre più difficile. Da un lato il lavoro che riempie gran parte della giornata e richiede sforzi fisici e mentali crescenti; dall’altro il partner, i figli da seguire nella crescita, la casa da gestire. E le più affaticate, secondo lo psichiatra, sono proprio le manager perché “le forti pressioni lavorative, le barriere psicologiche e culturali rendono la carriera manageriale femminile più difficoltosa e impegnativa“, conferma Francesca Merzagora, presidente di Onda.

C’è poi un altro aspetto da considerare: arrivare al top, per le donne, può essere sfiancante. Questo perché, come confermato da Manageritalia, la federazione nazionale dirigenti e quadri del terziario privato, solo il 18,2% fra le 40enni e il 16% fra le 41-45enni riesce ad affermarsi senza scorciatoie, favoritismi o regalie.
La causa di ciò va ricercata nella mancanza di una cultura di management e valorizzazione al femminile, sebbene secondo le statistiche le donne rappresentino una risorsa più qualificata (12,7% di laureate contro l’11% degli uomini).
E questo nonostante i pregi delle lavoratrici siano tanti, e universalmente riconosciuti: maggior propensione all’ascolto, capacità di motivare i propri collaboratori con riconoscimenti e gratificazioni e di sviluppare doti di negoziazione, creatività e flessibilità.

Ma la carriera è piena di insidie e compromessi e le donne manager lo sanno bene, anche se, pur consapevoli di sacrifici e “rospi” da ingoiare, non tornerebbero indietro, non rinuncerebbero a ciò che hanno meritatamente conquistato.
I risultati emersi da questa ricerca sono stati elaborati da un team composto rappresentanti del mondo aziendale, accademico, politico della sanità e dei media. Alla fine, sono state presentate sette proposte da presentare ad istituzioni e business community, per rivedere l’approccio tradizionale renderlo più moderno e flessibile.

In particolare, si richiede: “incentivazione al cambiamento culturale perché arrivino più donne in posizioni di vertice, combattendo gli stereotipi di genere – elencano gli esperti – promozione di azioni a livello di sistema con l’introduzione di un maggior numero di donne in posizioni apicali e riduzione del pay gap nel rispetto delle pari opportunità; abbattimento di barriere e discriminazioni per facilitare l’accesso della donna ai “piani alti” grazie anche a una formazione continua all’interno dell’azienda e in orari di lavoro; valorizzazione delle differenze con la creazione di team di lavoro misti; supporto della donna nella quotidianità attraverso programmi di welfare aziendali (aiuti per l’assistenza agli anziani e ai bambini, flessibilità di orari, valutazione delle performance in base ai risultati e obiettivi raggiunti più che all’effettiva presenza in sede di lavoro)”.

Oltre a tutto ciò, anche un sistema di promozione e prevenzione della salute femminile, per tenere sotto controllo lo stress da lavoro, ed evitare che si trasformi in malattia.

Vera Moretti

Chieti nella top ten delle province con il maggior numero di imprenditrici

Secondo uno studio effettuato da Terziario Donna, l’associazione a marchio Confcommercio che rappresenta l’imprenditoria al femminile nei settori del commercio, dei servizi, del turismo e delle piccole e medie imprese sarebbero aumentate dello 0,4% le donne a capo di imprese che operano nel terziario, commercio al dettaglio in primis.

Tutte le manager hanno una preparazione culturale medio-alta (il 53,8% ha una licenza di scuola media superiore contro il 52,3% dei colleghi uomini mentre il 23,8% è laureata) con la provincia di Chieti che resta tra le prime dieci province d’Italia in quanto a presenza di imprenditoria femminile sul territorio. Il 67,3% delle imprenditrici guida un’impresa del terziario, il 19,8% sceglie l’agricoltura e il 12,8% l’industria. La metà delle donne al vertice di imprese terziarie opera nel commercio al dettaglio, settore che fa registrare un eloquente +37%.

L’età media è  tra i 30 e i 49 anni (52,8%), seguono a ruota le fasce di età tra i 50 e i 69 anni (32,3%) e oltre i 70 anni (6,3%).

 

Più donne nelle posizioni chiave per rilanciare il Paese

Si è tenuto nei giorni scorsi a Roma il primo Coordinamento dei Comitati Pari opportunità dei commercialisti. Un’occasione, secondo il presidente del Consiglio nazionale dei Dottori commercialisti ed Esperti contabili, Claudio Siciliotti, per “offrire soluzioni, idee e progetti per un Paese migliore con una maggiore presenza di donne non solo nelle società quotate e a controllo pubblico, ma anche al’interno degli organi rappresentativi della categoria“. Ricordiamo che i comitati sorti finora in tutta Italia sono 52 e che le donne commercialiste sono oltre 34mila, pari al 29% degli iscritti.

La componente di genere – ha continuato Siciliottiè fondamentale nella società civile e per questo motivo il nostro Consiglio si è schierato a favore del ddl che norma la presenza femminile nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali. Si tratta di una grande opportunità per il ricambio della classe dirigente del Paese visto che il 90% dei posti è occupato da uomini e neanche tanto giovani. Se il nostro Paese sta crescendo meno, lo si deve anche alla inadeguata presenza femminile nelle posizioni di potere“.

Nel dettaglio del ddl è entrata Giulia Pusterla, consigliere nazionale dei commercialisti con delegata alle Pari opportunità, che ha confermato il sostegno del Cndcec allo spirito del ddl approvato alla Camera e si è espressa in termini piuttosto perentori sull’argomento: “Avremmo preferito che non fosse stata modificata la versione approvata alla Camera, edulcorata al Senato e ora in una fase stagnante. E’ assolutamente necessario vivacizzare il ddl che pone in atto misure volte a ridurre la discriminazione di una componente, quella femminile, maggioritaria nel Paese. Donne che, però, secondo il rapporto annuale dell’Istat presentato lunedì scorso, non se la passano poi tanto bene, costrette da un lato a farsi carico dei compiti di assistenza e solidarietà che lo Stato non riesce ad assolvere, dall’altro restando dodici punti sotto il tasso di occupazione delle loro colleghe europee. Tuttavia, non mi piace parlare di quote, perché evocano scenari in cui a soggetti deboli vengono destinati trattamenti di favore a prescindere dal merito. La discussione sul ddl a livello nazionale, con l’intervento di gruppi imprenditoriali, ha dimostrato la forte presenza di spinte conservatrici, l’arroccamento e la difesa di uno status quo. Il timore è che la competizione che scaturirebbe dall’entrata delle donne nei board delle società genererebbe meritocrazia sostituendo la cooptazione tra simili e spezzando l’attuale potere monolitico“.

Nel corso dell’assise è stato ricordato come il lavoro del Comitato ha già avuto effetti concreti sul Codice deontologico, dove sono state apportate modifiche sul rispetto del principio di parità inclusa quella di genere, e sul Regolamento per la formazione professionale continua che prevede per le commercialiste, nei due anni successivi al parto, di acquisire fino a 30 crediti formativi annuali tramite attività di formazione a distanza al posto dei 15 crediti riservati a tutti gli altri iscritti.