Cresce ancora l’ export italiano

In un quadro macroeconomico nel quale il nostro Paese ancora fatica a risollevare la testa, nonostante qualche timido segnale di ripresa, c’è un dato che non tradisce mai le attese, quello dell’ export italiano. Secondo i numeri diffusi dall’Istat, a febbraio 2015 le esportazioni verso i Paesi extra Ue hanno fatto segnare un +4,5% e le importazioni un +1,1% rispetto a gennaio.

La forte la crescita tendenziale dell’ export italiano (+7,1%) è stata determinata, secondo l’Istat, dai beni strumentali (+19,9%) e, in misura minore, dai cosiddetti prodotti intermedi (+4,6%). A febbraio l’avanzo commerciale è stato pari a 2.840 milioni di euro (+1.338 milioni rispetto a febbraio 2014), mentre il surplus nell’interscambio di prodotti non energetici è stata pari a 5 miliardi rispetto ai 4,7 miliardi di febbraio 2014.

Nell’ultimo trimestre, la dinamica congiunturale dell’ export italiano verso i Paesi extra Ue si conferma positiva (+1,5%) e investe tutti i principali beni, esclusa l’energia (-17,9%). Le vendite di prodotti intermedi sono in rilevante espansione (+3,7%).

Nel mese di febbraio 2015, i mercati di sbocco più dinamici per l’ export italiano sono stati gli Usa (+49,3%, che scende a +24,8% al netto dei mezzi di navigazione marittima) e la Turchia (+10,7%). L’embargo verso la Russia e la debolezza del rublo hanno invece penalizzato l’ export italiano verso quel Paese (-28,5%) e anche i Paesi dell’area Mercosur (il mercato comune del Sudamerica) hanno fatto registrare un calo piuttosto sensibile: -17,6%.

Business Attractiveness, come guardare all’estero

 

Puntare sull’estero per far crescere il proprio business: dai Bric (pardon Brics) ai Next 11, quali sono i Paesi su cui le piccole e medie imprese italiane devono puntare per far crescere il proprio giro d’affari?

In aiuto degli imprenditori oggi arriva Business Attractiveness (IBA), l’indicatore creato e sviluppato da Aice in collaborazione con l’Università Cattolica di Milano, che ha lo scopo di fornire alle aziende italiane, in particolare alle Pmi, uno strumento sintetico e di facile lettura per valutare nuove opportunità d’affari sui mercati internazionali, in particolare di carattere commerciale. A supportare l’iniziativa offrendo il proprio contributo è stata la Camera di Commercio di Milano.

In soldoni, si tratta di un indice che definisce le economie più aperte e più potenzialmente “ricettive” su cui le industrie del made in Italy possono decidere di puntare per allargare il proprio business.

Qualche esempio? I Paesi nell’occhio del ciclone, almeno secondo Business Attractiveness, sarebbero oggi Malaysia, Emirati Arabi Uniti, Turchia, Arabia Saudita, Thailandia, Australia, Qatar, Tunisia e Paesi dell’Europa Centro-Orientale.

La logica di base è quella di fornire uno strumento con cui fare una prima scrematura sulle destinazioni del proprio business – spiega Claudio Rotti, presidente di Aice e della Commissione Internazionalizzazione Commercio estero di Confcommercio – partendo dalla considerazione che l’impresa sia dotata di scarse risorse umane e finanziarie da dedicare allo sviluppo internazionale e che, quindi, non debba disperderle cercando di approcciare molti mercati contemporaneamente”.

I Brics, ad esempio sono Paesi oggettivamente interessanti, ma non è detto che siano adatti a tutte le aziende italiane che intendono internazionalizzarsi – prosegue Rotti. – L’Indicatore, quindi, è utile per individuare nuove potenziali destinazioni, la cui appetibilità ed affidabilità andrà poi verificata con la propria realtà settoriale”.

Veniamo alla classifica stilata da Business Attractiveness: nella prima classe di paesi più appetibili troviamo Singapore, a fianco di altri partner commerciali più tradizionali per l’Italia, come Germania, Francia, Stati Uniti, Spagna, Regno Unito, Belgio Cina, Paesi Bassi, Svizzera. Il ranking non riserva poi grandi sorprese: dalla Cina, al settimo posto, seguono gli altri Paesi Brics che ricoprono però posizioni di rincalzo (20ma la Russia, 24ma l’India, 29mo il Brasile, 78mo il Sud Africa).

Le potenzialità più feconde per gli imprenditori italiani sembrano essere celate nella seconda, terza e quarta classe di Paesi:  Malaysia, Emirati Arabi Uniti, Turchia, Arabia Saudita, Thailandia, Australia, Qatar, Tunisia oltre a una interessante presenza dei Paesi dell’Europa Centro-Orientale.

E i dati dell’export italiano relativi ai primi 6 mesi del 2012 confermano solo in parte i risultati dell’Indicatore: Malaysia, Arabia Saudita, Polonia, Russia, Brasile, Tunisia, restano sui livelli dei primi sei mesi del 2011, forse ad indicare  che esistono potenzialità ancora non del tutto espresse per l’export del Made in Italy, mentre a fare il salto di qualità sono stati Paesi come Emirati Arabi Uniti, che segnano un +570 milioni di euro circa rispetto allo stesso periodo del 2011, e ancora Turchia con +300 milioni di euro, Australia (+146 milioni), Thailandia (+130 milioni), Qatar (+105 milioni).

L’export italiano ha subito un rallentamento verso la Spagna, dove l’export è passato da 10,4 a 9,5 miliardi di Euro, mentre a crescere è l’export verso il Regno Unito (+900 milioni). A dare un segnale allarmante è invece il calo delle esportazioni verso la Cina, che nel 2012 sono passate da 5 miliardi del 2011 ai 4,5 miliardi nei primi sei mesi del 2012.

Da un punto di vista generale le esportazioni italiane sono cresciute nel 2012 “a ulteriore conferma – conclude Rotti – che l’export è stato e continua ad essere l’unica componente dinamica della domanda e di conseguenza il principale fattore di tenuta dell’economia italiana”.

Alessia CASIRAGHI

Fare impresa in Italia? Lascia stare…

di Davide PASSONI

Noi di Infoiva lo sosteniamo da sempre: fare l’imprenditore, in Italia, è una missione oltre che una vera guerra. Gli imprenditori di casa nostra meriterebbero statue e medaglie e invece si trovano presi a pesci in faccia dallo Stato e dal fisco, che non ne riconoscono, se non a parole, il valore sociale sancito anche dalla nostra Costituzione.

Una conferma di come l’imprenditoria sia davvero una missione ci arriva anche da Mediobanca, che tramite il suo Ufficio Studi ci fa sapere che fare impresa, in Italia, non è remunerativo perché il guadagno non è sufficiente a ripagare il costo del capitale: lo dimostra il fatto che nelle attività industriali c’è stata una distruzione di ricchezza pari a 1,4 punti. Questo secondo l’indagine 2012 “Dati cumulativi di 2.032 imprese italiane“. redatta dall’istituto di via dei Filodrammatici.

Secondo Mediobanca, i grandi gruppi visti nella loro dimensione italiana hanno sofferto di più, mentre è stata più contenuta la sofferenza delle medio e grandi imprese. Le imprese a controllo estero si sono salvate dalla distruzione di valore, grazie alla elevata redditività del capitale.

Se vogliamo parlare di numeri nel 2011, le esportazioni si sono mosse a velocità più che tripla rispetto alle vendite domestiche (+18,3% contro +5,5%): è cresciuto il fatturato dei settori che hanno beneficiato degli aumenti dei prezzi delle commodities di riferimento (metallurgia +20,2%; energetico +17,6%) e di quelli che hanno agganciato la domanda estera (gomma e cavi +20,2%). Anno negativo per elettrodomestici (-3,4%), stampa editoria (-1,7%), farmaceutico e cosmetico (-0,7%). In sostanza, l’industria italiana ha segnato nel 2011 un’ulteriore ripresa del fatturato (+9,2% sul 2010) ma non è sufficiente a raggiungere, seppure di poco, il livello pre-crisi del 2008 a causa della forte flessione del 2009. Ovvero, fare impresa non conviene.

Che cosa deve pensare di fronte a questi dati chi, invece, l’impresa la fa? Per vocazione – tanti, forse la maggior parte -, o per necessità – molti, soprattutto a causa della crisi che li ha sbattuti fuori dal mercato del lavoro come dipendenti? Che sono dei visionari, degli illusi, gente destinata al fallimento personale o professionale? Noi crediamo invece che dovrebbero pensare di essere dei privilegiati, gente che ha un’opportunità unica: quella di dare una direzione diversa al proprio destino contando quasi solo sulle proprie forze e il proprio ingegno. Resta da capire se e quanto lo Stato darà loro la possibilità di imboccare questa direzione diversa. Per ora, ci sembra, c’è ancora molto da fare…