Divieto vendita plastica monouso: novità e sanzioni per i trasgressori

Il decreto legislativo 196 del 2021 prevede il divieto di vendita di plastica monouso, tranne nel caso in cui gli oggetti siano realizzati in materiale biodegradabile e compostabile conforme alle norme Uni En 13432 o Uni En 14995 quindi con una percentuale minima di materia prima rinnovabile del 40%, percentuale destinata a salire al 60% nel 2024.

Cosa prevede il decreto legislativo 196 del 2021

Il decreto legislativo 196 del 2021 mira a sensibilizzare le persone verso l’uso di contenitori e prodotti riutilizzabili.  Si occupa di “Sup-single use plastics” e di prodotti oxo-degradabili, cioè contenenti additivi chimici per la frammentazione, si tratta quindi di additivi che vanno a velocizzare la degradazione dei prodotti stessi. L’obiettivo è ridurre drasticamente l’uso delle plastiche entro il 2026, questo avviene attraverso una strategia congiunta tra Ministero per la Transizione Ecologica, Sviluppo Economico, Regioni, imprese e associazioni di categoria, ad esempio le associazioni ambientaliste.

Naturalmente i soggetti coinvolti sono numerosi, si va dal produttore, fino al consumatore finale, passando per la grande distribuzione e per le varie attività commerciali del settore ristorazione che, ad esempio, non potranno servire il caffè in tazza di plastica, oppure l’aperitivo con la cannuccia. In realtà questo cambiamento già si è notato, infatti i negozi ormai non fanno più rifornimento di piatti, bicchieri e posate in plastica già da tempo e nelle confezioni monouso di succhi, non ci sono più le cannucce in plastica.

Quali sono i prodotti interessati dal divieto di vendita plastica monouso?

Il decreto legislativo 196 prevede la lista delle plastiche monouso negli allegati A e B. L’allegato A comprende tazze e bicchieri per bevande inclusi i tappi, contenitori per alimenti, ad esempio le scatole contenenti alimenti a consumo immediato, quindi non devono essere ulteriormente riscaldati o sottoposti a preparazione. Vietati anche gli agitatori di bevande in plastica e prodotti per la pesca sempre in plastica. Nell’allegato B c’è la lista più ampia e che comprende posate, piatti, cannucce e bicchieri monouso (quelli che comunemente abbiamo tutti in casa), aste utilizzate per il sostegno dei palloncini gonfiabili ( chi ha bambini sa bene di cosa si tratta), cotton fioc, contenitori per alimenti in polistirene espanso.

La norma va a colpire molte aziende del settore alimentare, dal classico bar che non potrà più dare ai clienti delle cannucce, ai fast food che spesso consegnano il cibo da asporto nelle confezioni di polistirene espanso, naturalmente anche presso gli esercizi commerciali sarà vietata la vendita di piatti, posate e bicchieri di plastica.

Per le aziende che “collaborano” sono previsti degli incentivi, infatti per il 2022, 2023 e 2024 è previsto lo stanziamento di 3 milioni di euro per ogni anno in favore imprese che acquistano e utilizzano prodotti riutilizzabili o biodegradabili e compostabili. Le aziende potranno ricevere il credito di imposta pari al 20% delle spese sostenute per l’acquisto di tali prodotti, nel limite massimo però di 10.000 euro.

Le sanzioni per chi trasgredisce al divieto di vendita di plastica monouso

Per chi invece non si adegua vi sono delle sanzioni, in particolare l’immissione in commercio e la messa a disposizione di prodotti di cui è vietata la vendita porta all’applicazione di una sanzione amministrativa di importo minimo di 2.500 euro e massimo di 25.000 euro. La stessa sanzione viene comminata a coloro che mettono in commercio prodotti senza l’idonea etichettatura (deve informare sulla corretta gestione dei rifiuti) o con caratteristiche difformi rispetto a quelle indicate nell’articolo 6 del decreto legislativo 196 del 2021. L’articolo 6 comma 1 in realtà entra in vigore dal 3 luglio 2024 e prevede che è vietato il commercio di prodotti in plastica monouso i cui tappi e coperchi in plastica si stacchino dal corpo principale, ad esempio la bottiglia in plastica monouso per essere conforme deve avere il tappo di plastica che anche quando aperto, non si stacca.

Ricordiamo che l’etichettarura ambientale a breve sarà obbligatoria per tutti i prodotti. Leggi l’articolo: Obblighi delle aziende per l’etichettarura ambientale.

Le sanzioni aumentano fino al raddoppio nel caso in cui dalla vendita e messa in commercio di prodotti vietati ci siano entrate superiori al 10% del fatturato dell’azienda, quindi nel caso in cui il giro d’affari legato a questi prodotti abbia una certa rilevanza rispetto al totale delle entrate/fatturato.

Limiti alla vendita di prodotti biodegradabili e compostabili

Si è detto che l’obiettivo della normativa è quella di incentivare l’uso di prodotti riutilizzabili, ecco perché anche la vendita di prodotti biodegradabili e compostabili viene ridotta. L’uso di essi prevede che abbiano percentuale di materia prima rinnovabile non inferiore al 40% e al 60% dal 2024. Tali prodotti possono essere utilizzati e venduti solo:

  • quando non è possibile utilizzare alternative;
  • per l’impiego in circuiti controllati, ad esempio mense di ospedali, strutture sanitarie o socio-assistenziali;
  • quando le alternative all’uso di materiali biodegradabili e compostabili non offrono sufficienti garanzie di igiene;
  • in considerazione della particolare tipologia di alimenti e bevande per cui non si possono utilizzare materiali alternativi riutilizzabili;
  • se l’uso di materiali riutilizzabili abbia un impatto ambientale peggiore rispetto a quello che avrebbero i contenitori in materiale biodegradabile e compostabile.

Infine, deve essere sottolineato che la vendita di prodotti in plastica è possibile fino ad esaurimento scorte, ma deve essere dimostrato che la fornitura è appunto antecedente rispetto all’entrata in vigore dei divieto che è stata il 14 gennaio. Ad esempio se il bar ha avuto la fornitura di cannucce a dicembre 2021 può utilizzarle, ma se la fornitura è successiva, c’è la sanzione.

L’Italia importa prodotti alimentari da 140 Paesi

Quando si tratta di etichettatura alimentare, al fine di salvaguardare i prodotti venduti, occorrerebbe indicare sempre lo stabilimento di produzione, non solo perché è un dovere fornire informazioni sugli alimenti messi sul mercato, conformemente alla normativa europea emanata a garanzia della corretta e completa informazione al consumatore e della rintracciabilità dell’alimento da parte degli organi di controllo, ma anche a tutela della salute.
Inoltre, con l’aumento e la globalizzazione dei flussi di prodotti alimentari sui vari mercati, questa indicazione diventa ancora più rilevante.

A testimonianza di questo incremento, i dati che riguardano gli ultimi dodici mesi: da giugno 2016 a maggio 2017 l’import di prodotti per alimentazione umana è pari a 25.687 milioni di euro, pari all’1,5% del PIL.

L’Italia, nel dettaglio, importa prodotti da ben 140 Paesi, con una predilezione per Pesce, crostacei e molluschi lavorati e conservati da 91 Paesi, Carne lavorata e conservata e prodotti a base di carne da 85 Paesi, Frutta e ortaggi lavorati e conservati da 84 Paesi, Oli e grassi vegetali e animali da 77 Paesi, Prodotti della lavorazione di granaglie, amidi e prodotti amidacei da 73 Paesi, Prodotti da forno e farinacei da 65 Paesi, Prodotti delle industrie lattiero-casearie da 36 Paesi.

Un quarto dell’import, il 25,4%, relativamente ai primi cinque mesi dell’anno, proviene da Paesi extra UE. In particolare la quota di import da Paesi extra UE per Pesce, crostacei e molluschi lavorati e conservati sale al 51,1%, per Oli e grassi vegetali e animali al 44,7% e per Frutta e ortaggi lavorati e conservati al 28,0%; quote più contenute per Prodotti della lavorazione di granaglie, amidi e prodotti amidacei con il 19,8%, Altri prodotti alimentari con il 16,2% e Carne lavorata e conservata e prodotti a base di carne con l’11,3%, Prodotti da forno e farinacei con il 2,8% e Prodotti delle industrie lattiero-casearie con l’1,8%.

Vera MORETTI

Niente semaforo rosso ai prodotti italiani simbolo del Made in Italy

Alcuni prodotti simbolo della gastronomia italiana, come Prosciutto di Parma e Parmigiano Reggiano, ma anche Grana Padano e olio extra vergine di oliva, sono vittime di un sistema di etichettatura detta “a semaforo”, che sta colpendo ingiustamente oltre il 60% delle produzioni italiane.

Coldiretti ha spiegato, infatti, che esiste un’informazione visiva da apporre sui prodotti in vendita che prevede l’applicazione di un bollino rosso, giallo o verde, da qui il termine di etichettatura a semaforo, a seconda di ciò che contengono. Ma, per quanto riguarda i prodotti nostrani, si tratta a volte di indicazioni fuorvianti, poiché non sempre il contenuto di nutrienti critici per la salute è veritiero, e questo può essere assolutamente pericoloso per la nostra tradizione.

Se poi consideriamo che, a discapito di alcuni componenti considerati nocivi, vengono pubblicizzati alimenti a basso contenuto di sali e zuccheri ma ottenuti mediante processi chimici non proprio salutari, si capisce come in alcuni Paesi stranieri abbiano metodi non certo corretti per stabilire la bontà di un prodotto.

L’appuntamento di oggi della Piattaforma europea per la dieta, l’attività fisica e la salute dovrebbe servire proprio per respingere l’ipotesi di una informazione visiva forviante che rischierebbe di escludere paradossalmente dalla dieta alimenti sani come l’olio extravergine d’oliva e promuovere, al contrario, le bevande gassate senza zucchero, ingannando i consumatori rispetto al reale valore nutrizionale.

A causa del traffic lights applicato nei supermercati del Regno Unito, il Parmigiano Reggiano pre-porzionato etichettato a semaforo dal 2013 al 2015, ha avuto una perdita di quota di mercato del 13% in volume mentre il calo per il Prosciutto di Parma è stato del 14%. Questo perché la segnalazione sui contenuti di grassi, sali e zuccheri non si basa sulle quantità effettivamente consumate, ma solo sulla generica presenza di un certo tipo di sostanze.

Per questo motivo, questo metodo di etichettatura andrebbe rigettato con decisione e considerato non veritiero, eppure ad oggi è adottato dal 98% dei supermercati inglesi, mettendo a rischio alcuni prodotti cardine del cibo Made in Italy.

Vera MORETTI