Retribuzioni eque per uomini e donne, come dovranno adeguarsi le aziende

Con 427 voti favorevoli, 79 contrari e 76 astensioni l’Unione Europea ha approvato la direttiva che prevede maggiore trasparenza nei contratti di lavoro con obbligo di indicare fin dal contratto o, meglio ancora, dalla pubblicazione dell’annuncio di lavoro, la retribuzione prevista. Obiettivo: raggiungere retribuzioni eque per uomini e donne e superare il gender pay gap.

Retribuzioni eque per uomini e donne: il gender pay gap in UE

In tutta Europa è purtroppo presente il divario di genere per quanto riguarda le retribuzioni e, sebbene l’Italia abbia dati non confortanti, altri Paesi dell’Unione Europea si può dire che siano messi peggio. In Italia il divario è del 4,2%, nonostante abbia adottato nel tempo delle misure di contrasto. La media del divario nell’ambito dell’UE è del 13% con punte di discriminazione particolarmente elevate nell’Europa dell’Est.

Obbligo di trasparenza per le aziende

Ora ci prova l’Unione Europea che con la direttiva approvata mira a imporre la neutralità nella selezione del personale attraverso l’obbligo di trasparenza sulle retribuzioni ancora prima della stipula del contratto. In questa fase invece i datori di lavoro non potranno chiedere al candidato informazioni inerenti la loro precedente retribuzione, in questo modo si evita che tale dato possa influenzare il datore di lavoro sulla retribuzione da corrispondere.

In realtà il divario matura soprattutto dopo l’ingresso nel mondo del lavoro quando, nel tentativo di conciliare lavoro e famiglia, le donne perdono opportunità e quindi hanno piani di carriera meno interessanti rispetto a quelli degli uomini.

Tra le novità apportate dalla normativa vi è anche il divieto di discriminazione intersezionale, che impone parità retributiva per le persone non binarie.

La normativa va a contrastare il segreto retributivo, deve quindi essere noto quale sarà lo stipendio erogato per le varie posizioni presenti in azienda, in questo modo non sarà possibile discriminare le persone di un sesso rispetto a quelle dell’altro. Nel contratto stipulato dopo l’entrata in vigore della direttiva sarà vietato inserire la clausola che vieta di divulgare la retribuzione.

Retribuzioni eque per uomini e donne: cosa devono fare le aziende per evitare sanzioni ?

La direttiva prevede l’obbligo per le aziende con più di 100 dipendenti di adottare misure volte a correggere le disparità salariali. Le aziende sono obbligate ad adottare misure correttive nel caso in cui il divario di retribuzione tra persone di sesso diverso e intersezionale superi il 5%. I lavoratori avranno diritto ad accedere ai dati disaggregati per sesso relativi alle retribuzioni, dovranno inoltre conoscere i criteri utilizzati per definire gli aumenti salariali, che dovranno essere neutri dal punto di vista del genere.

Per la violazione di tali norme sono naturalmente previste delle sanzioni. La direttiva sul gender pay gap è stata ampiamente condivisa dai vari esponenti politici, in Italia deve però essere registrato il voto contrario dei rappresentanti dei partiti Forza Italia e Fratelli d’Italia. Per l’entrata in vigore effettiva ci vorrà tempo, infatti gli Stati Membri sono tenuti a recepirla entro 3 anni e considerando che gli esponenti del Governo hanno votato contro, non è detto che l’Italia si affretti anche perché sono già state sollevate questioni inerenti la privacy.

Leggi anche: Esonero contributivo parità di genere: prorogato il termine

Le donne? Più preparate e meno pagate

di Vera MORETTI

Uno spot con una cassiera che, pur facendo pagare a prezzo pieno la merce ad una cliente donna, gliene toglie una parte: così la Commissione Europea ha illustrato la sua campagna in denuncia del divario presente tra gli stipendi di uomini e donne.

Sembra strano, ma forse proprio strano non è, ma ancora oggi le donne, a parità di lavoro e di formazione, vengono pagate il 17% in meno rispetto ai loro colleghi uomini.

A meno che la donna non sia… particolarmente bella. Queste  notizie ne richiamano infatti alla mente altre, come quella relativa all’indagine svolta da Yale, che ha dimostrato che le donne belle percepiscono circa il 5/10% in più rispetto a chi non ha dei lineamenti da ‘modella’.

Oppure quella relativa alle quote rosa nei CDA, per le quali c’è voluta nientemeno che una legge dello Stato italiano. Una legge per sancire quello che sarebbe solo un elementare principio di civiltà.

O ancora quella secondo la quale l’autoimprenditorialità piace agli italiani ma, nonostante ciò, questa soluzione viene realmente presa in considerazione solo dal 53% degli italiani, per la maggior parte uomini.

E potremmo continuare a lungo, molto a lungo…

Di strada, dunque, ce n’è ancora molta da fare, considerando poi che questa percentuale è ricavata da una media europea e che, spesso, per esperienza e curriculum accademico, il gentil sesso è più preparato rispetto ai colleghi maschi.

E la situazione non è tanto meglio in tanti Paesi europei, perchè, ad esempio, il differenziale è del 10% in Belgio, Portogallo, Slovenia, Polonia, Malta e Italia, del 20% in Austria, Germania e Finlandia e addirittura supera il 25 % in Estonia Repubblica Ceca.

Mal comune mezzo gaudio? In questo caso diremmo che è solo male e per nulla gaudio…

Lo spread tra uomo e donna è del 20%

di Vera MORETTI

La riforma del lavoro tiene banco, in questi giorni, tra i nostri ministri, e a ragione, perché si tratta di un intervento urgente.
Chissà, però, se all’ordine del giorno si terrà presente di uno spread del tutto particolare, e tristemente attuale: la differenza del 20% che divide lo stipendio di un uomo da quello di una donna.

Le donne, definite da tutti, uomini compresi, intelligenti e brillanti risorse senza le quali l’economia italiana non può funzionare. Ma siamo sicuri che non si tratti solo di economia domestica e nient’altro? Il sospetto, alla luce di questo dato preoccupante, è concreto.

Le pari opportunità delle quali si parla tanto dovrebbero affrontare la questione di questa gender pay gap che tocca il 19,9% e fa trovare, nella busta paga media di una donna, 1.104 euro e 1.379 euro in quella di un uomo, a parità di istruzione e tipo di lavoro.
Forse questa differenza non era stata considerata perché, più si sale di grado, e più si assottiglia, fino a raggiungere il 4% quando si arriva ai vertici. Ma, si sa, l’esercito delle lavoratrici, come dei lavoratori, è fatto soprattutto di impiegati e operai e per loro il divario è profondo e imbarazzante.

Se, dunque, l’Italia vuole mettersi in pari con l’Europa, deve considerare anche questo aspetto, e magari usare come esempio i Paesi del Nord, dove le leggi stanno aiutando considerevolmente le famiglie con figli, concedendo congedi retribuiti anche per i padri, dado così la possibilità, alle madri che desiderano continuare a lavorare, di recarsi in ufficio senza sensi di colpa.

Possiamo sperare in una svolta del genere anche da noi? In fondo, il ministro del lavoro attualmente in carica, con delega per le pari opportunità, è una donna, e quindi dovrebbe essere sensibile a questo argomento.
Se alle donne vengono riconosciute una maggiore empatia e capacità di “problem solving”, ministro Fornero, ci appelliamo alle sue capacità di donna per metterci in pari, al più presto, con i Paesi europei più civili.

Gender Pay Gap, le donne comandano e guadagno di meno

Quando si parla di gender pay gap si intende affrontare l’annoso problema delle disparità di salario fra uomini e donne, risultato  statisticamente poco significativo a parità di posizioni di responsabilità.

A dirlo è lo studio emerso nel corso del convegno Gender pay gap: dati reali e luoghi comuni, organizzato dall’Osservatorio sul Diversity Management della SDA Bocconi School of management, in collaborazione con Hay Group.

Secondo la ricerca, infatti, tenute conto le posizioni di uguale complessità, il divario di genere maschio-femmina, nel nostro Paese, riguarda una percentuale davvero esigua, pari al 5%.

Detto questo, lo studio ha analizzato un campione di 222 aziende del settore privato (147 italiane e 74 subsidiary di multinazionali estere) per un totale di oltre 8 mila dirigenti.

I ricercatori spiegano: “Facendo la media dei salari di uomini e donne del campione, il fenomeno GPG è del 12,5%, ma il vero problema non è tanto il ‘paygap’ quanto piuttosto il ‘soffitto di vetro’, cioè la difficoltà da parte delle donne ad accedere a ruoli di alta responsabilità, ovvero quelli più retribuiti.

E non è tutto: le donne sono in genere maggiormente impiegate in funzioni aziendali ripagate con un salario più basso, e, con l’aumentare del grado di complessità della posizione in azienda, la busta paga maschile cresce più velocemente del 2,7% in più rispetto a quella femminile.

Nascono così due forme di “segregazione”: una che è di tipo verticale e che  vede il numero delle donne diminuire al crescere della complessità del ruolo/posizione,  l’altra, di tipo orizzontale, che determina una distribuzione omogenea di uomini in ogni settore di business, mentre quella delle donne spicca solo in alcuni settori, ovvero:

  • non alimentare (21,5%),
  • farmaceutico (21%)
  • servizi (18%).

All’interno delle aziende, poi, la presenza femminile è più concentrata nelle funzioni di:

  • marketing (26,3%),
  • risorse umane (23,7%)
  • amministrazione (19,6%).

Infine, se si considerano gli aggregati di famiglie professionali, le donne sono più presenti nelle funzioni di staff (19,3%) rispetto a quelle di linea (8,7%).”