Banche: ad ottenere il credito sono sempre le grandi aziende

Considerando i numeri messi a disposizione dalla Banca d’Italia emerge come le banche, nonostante abbiano conosciuto un periodo di forte crisi, continuano a premiare chi risulta essere responsabile di questo dissesto, ovvero le grandi aziende e i grandi gruppi societari.

A conferma di ciò ci sono i dati, secondo i quali la quota dei prestiti ottenuta dal primo 10% degli affidati è pari al 79,8% del totale. Il restante 90% ottiene invece poco più del 20%.

Traducendo queste percentuali in numero, si evince che, su 1.500 miliardi erogati dagli istituti di credito italiani, ben 1.200 sono andati a un ristretto numero di soggetti che però hanno un elevato potere negoziale.

Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, ha dichiarato in proposito: “Non ci sarebbe nulla di strano se questo primo 10 per cento di affidati fosse solvibile. Una banca, infatti, deve aiutare chi ha bisogno di risorse finanziarie ma, allo stesso tempo, è anche nelle condizioni finanziarie di restituire nei tempi concordati quanto ottenuto. In Italia, invece, le cose continuano ad andare diversamente. Se, infatti, analizziamo l’incidenza percentuale sul totale delle sofferenze bancarie ascrivibile a questo ristrettissimo club di affidati, la quota ammonta all’81 per cento del totale. In altre parole, le grandi imprese continuano a ricevere la quasi totalità dei prestiti bancari, sebbene presentino livelli di insolvenza allarmanti”.

Inoltre, al 30 settembre del 2017, le sofferenze bancarie lorde presenti in Italia ammontavano a 170,2 miliardi, con 16,2 miliardi in meno rispetto al 2016.

Renato Mason, segretario della Cgia, ha aggiunto: “Questo elevato numero di crediti deteriorati ha provocato una forte contrazione dei prestiti all’economia reale. Non essendo in grado di recuperare una buona parte dei finanziamenti erogati, le banche hanno deciso di non rischiare più e hanno progressivamente chiuso i rubinetti del credito. Solo nell’ultimo anno c’è stata una leggera inversione di tendenza. Tra novembre 2017 e lo stesso mese del 2016, la quantità di finanziamenti alle imprese è aumentata mediamente dello 0,3 per cento, anche se si sono registrati dei risultati molto diversi tra le varie classi dimensionali di impresa. Nelle medio-grandi, ad esempio, la crescita è stata dello 0,6 per cento, nelle piccole e micro, invece, la contrazione è stata dell’1 per cento, nonostante la domanda generale di credito registrata in questi ultimi mesi sia tendenzialmente in crescita”.

A livello regionale si nota che al Sud il primo 10% degli affidati ottiene meno credito delle rispettive fasce presenti nel resto d’Italia, ma genera una quota di sofferenze quasi in linea con il dato medio nazionale. Al Nord, invece, le grandi imprese ottengono percentuali di credito molto alte, con livelli di affidabilità che, comunque, si allineano attorno al dato medio nazionale.

A livello provinciale, invece, il primo 10% degli affidati ha in capo l’87,8% delle sofferenze a La Spezia: record nazionale rispetto a una media Italia pari all’ 81 per cento. Al secondo posto con l’86,% Verbania-Cusio-Ossola, al terzo con l’86,2 Bolzano, al quarto con l’85,9 Roma e al quinto con l’85,8% Parma.
In coda alla classifica nazionale ci sono con il 69,% Sondrio, con il 69,7% Agrigento e con il 68,7% Lodi.

Vera MORETTI

Microimprese, motore dell’economia in Italia

 

Italia terra di filiera, di distretti industriali, di antica tradizionale artigianale. Noi di Infoiva lo abbiamo raccontato tante volte, ma a confermare che il vero motore dell’economia italiana siano le microimprese oggi è anche l‘Istat. Secondo un’indagine svolta sui dati del registro imprese del 2010, le microimprese (ovvero quelle con meno di 10 addetti), rappresentano il 94,9% di quelle attive lungo tutta la Penisola e coprono circa il 47,8% degli addetti e il 31,1% del valore aggiunto.

Le grandi imprese, ovvero quelle che contano almeno 250 addetti, si fermano invece a 3.495 unità, che pesano per il 19% degli addetti e il 31,9% del valore aggiunto prodotto.

Sempre secondo l’Istat, il sistema impresa in italia ha registrato nel 201o un miglioramento della propria performance economica. Se da un lato la base produttiva si è ridotta, sia per numero di imprese attive che di addetti impiegati, ad aumentare sensibilmente è il valore aggiunto del sistema ‘impresa’, pari a circa 708 miliardi di euro (+12,3%).

A decretarlo è l’Istat, nel suo dossier ‘Struttura e competitività del sistema delle imprese industriali e dei servizi’: nel 2010 erano 4.372.143 le imprese attive, con calo dello 0,3%, mentre gli addetti si attestavano a circa 16,7 milioni (-1,6%), ma in compenso si rivela come il valore aggiunto per addetto sia stato pari a 42,4 mila euro (+14,1% rispetto al 2009).

L’Istat prosegue nell’analisi dei diversi indicatori economici, sottolineando come il costo del lavoro per dipendente sia stato nel 2010 di 34 mila euro (+2,9%), la retribuzione lorda per dipendente ammontasse a 24,4 mila euro (+3,0%) e gli investimenti per addetto siano stati pari a 8,3 mila euro (-10,8%). Insomma, nel 2010, l’incidenza dei profitti lordi sul valore aggiunto rispetto all’anno precedente è stata del 26,6%.

Alessia CASIRAGHI

 

 

Dirigenti falciati dalla crisi

La crisi non guarda in faccia nessuno. Nemmeno i dirigenti. In Italia, dall’inizio della depressione dei mercati, ne sono “caduti” almeno 100mila. Dati freddi, tipici dell’Istat – che li ha diffusi – che rilevano come il numero dei dirigenti sia sceso del 20,8% dal 2008 al 2011, passando da 500mila a 396mila unità.

Preoccupata Federmanager, che all’Ansa, per bocca del presidente Giorgio Ambrogioni, ha dichiarato: “Solo una parte limitata di dirigenti riesce a collocarsi mantenendo la stessa qualifica. Alcuni sono costretti ad accettare il ritorno alla posizione di quadro. Sono ancora di più quelli che diventano manager atipici, ovvero una sorta di co.co.pro o partita Iva“.

Una realtà, quest’ultima, che non sempre va giù a chi ha ricoperto, magari per anni, un posto chiave anche in grandi imprese. Sempre secondo Ambrogionici sono persone, migliaia di colleghi, che a 45-50 anni sperimentano il dramma della disoccupazione, visto che è sempre più difficile ricollocarli di fronte a un mercato fermo. I dirigenti sono gli unici lavoratori dipendenti che non hanno alcuna tutela reale del loro posto di lavoro, possono essere licenziati in qualunque momento. Paghiamo i contributi per mobilità ma ne siamo esclusi per legge“.

Una tendenza che, sempre secondo Ambrogioni, non è frutto solo della crisi economica: colpa anche delle “ristrutturazioni, con le imprese che tendono a diventare più piccole, in controtendenza a quello che occorrerebbe, e le grandi imprese che snelliscono gli organici dirigenziali; le delocalizzazioni, che spostano all’estero tante realtà produttive prima situate in Italia“.

Come porre rimedio? Per Federmanager alcune mosse sono da fare subito, altre richiedono interventi più strutturali. Intanto, conclude Ambrogioni, “insieme con Confindustria stiamo lanciando e finanziamo un progetto che vede i nostri dirigenti disoccupati mettersi a disposizioni delle Pmi che si fanno avanti per attività di coaching, formazione nei confronti del piccolo imprenditore, dei suoi dipendenti, perché siamo convinti che questa espulsione di dirigenti anche bravi sia una perdita di valore per il sistema Paese“. Parole sante.