Niente crisi per le aziende familiari

Gli esperti di economia che hanno passato al setaccio la situazione economica italiana, cercando di dare una spiegazione alla situazione di “stallo” attuale, hanno individuato, tra le principali cause, il numero elevato di aziende familiari.

Le imprese di questo tipo, infatti, spesso sono definite chiuse e poco avvezze al cambiamento, ma soprattutto incapaci di adeguarsi alla globalizzazione e ai canoni Ue.

In concreto, però, sembra che non sia così: a testimoniarlo è uno studio condotto da Guido Corbetta, titolare della cattedra AIdAF – Alberto Falck di Strategia delle Aziende Familiari all’Università Bocconi di Milano e presentato all’Incontro tra imprenditori e studiosi del settore organizzato dall’Associazione Borgo di Castellania: le imprese familiari vengono definite un “patrimonio di rilevanza sociale ed economica” per tutte le economie avanzate del mondo.

E a dimostrarlo sono i dati, sorprendenti e di gran lunga migliori di quelli statunitensi: se in Italia le aziende familiari sono l’82% della popolazione totale di imprese e rappresentano il 57% delle 7.105 aziende con ricavi superiori a 50 mln di euro in presenza di un trend occupazionale crescente anche in tempi di crisi, negli USA, il Paese considerato più avanzato in termini di funzionamento dei mercati, rappresentano oltre l’80% del totale delle aziende e il 50% delle imprese, assorbono il 59% della forza lavoro e generano il 49% del PIL.

E ancora, nei Paesi del G20 rappresentano il 50% delle imprese in Canada e il 90% in Turchia, con valori intermedi per Paesi come la Germania (79%, occupando il 57% della forza lavoro) e la Francia (83%, occupando il 49% della forza lavoro).

Sempre oltreoceano, ma questa volta in Brasile, le imprese a conduzione familiare costituiscono il 75% delle aziende di maggiori dimensioni e sono molto diffuse in India e in molti altri Paesi asiatici.

Inoltre, Achille Colombo Clerici, presidente dell’Istituto Europa Asia, ha dichiarato: “Tra il 2000 e il 2010 la capitalizzazione totale di borsa delle imprese familiari asiatiche è pressoché sestuplicata. Tendono a operare prevalentemente in settori tradizionali, in particolare quello finanziario (banche e immobili), industriale, dei beni di consumo ciclici e nei beni di prima necessità, poiché le aziende di proprietà di una famiglia sono storicamente conservative in termini di innovazione e investimenti in nuove attività ad alto rischio.
Solo nella Corea del Sud, a Taiwan e in India è presente una maggiore concentrazione di imprese familiari in campo tecnologico, in quanto tali economie hanno una struttura industriale a orientamento tecnologico.
Le aziende asiatiche a proprietà familiare costituiscono la spina dorsale delle rispettive economie. In termini di distribuzione regionale, si evidenzia una maggiore concentrazione di aziende nell’Asia meridionale, dove ha sede il 65 per cento di tutte le società quotate, rispetto al 37 per cento presente nell’Asia settentrionale.
L’India è il Paese che ospita il maggior numero di imprese familiari, il 67 per cento, mentre in Cina si riscontra la percentuale più bassa (13 per cento), a causa della sua struttura economica a gestione statale
”.

L’analisi di Corbetta ha contribuito a sfatare anche un altro mito, ovvero la scarsa longevità delle imprese familiari.
Infatti, tra le aziende italiane con ricavi superiori a 50 mln di euro, almeno una quarantina hanno più di 100 anni: alcuni esempi sono Barilla, Beretta, Buzzi, Cotonificio Albini, Falck, Fedrigoni Cartiere, Fiat, Fratelli Branca, Italcementi, Vitale Barberis Canonico, Zambon, Ermenegildo Zegna.

Per quanto riguarda le perfomance, invece, pare che le imprese familiari rappresentino un convincente modello di “capitalismo multiforme” in termini di struttura proprietaria, modelli di governance e di gestione adottati, oltre che di dimensioni conseguite e strategie competitive perseguite.

In Italia, poi, nonostante le aziende familiari abbiano sofferto molto la grave crisi economica, la maggior parte di esse ha saputo resistere continuando a creare ricchezza e a garantire occupazione, a testimonianza di un tessuto economico-produttivo “sano” e “vitale”.

Sono inoltre state individuate quattro condizioni che favoriscono la continuità e lo sviluppo di un’impresa familiare:

  • una proprietà responsabile;
  • una leadership aziendale capace e motivata;
  • una governance moderna;
  • un sistema di regole per la gestione del cambiamento dei fattori precedenti.

Vera MORETTI

Imprese familiari più brillanti con le holding

Un’attività di famiglia, se controllata da una holding, rende di più. Lo ha rilevato la ricerca “La holding dei gruppi italiani a controllo familiare” redatta da Guido Corbetta, Alessandro Zattoni e Fabio Quarato, Università Bocconi, in collaborazione con Ernst&Young. La ricerca analizza tutte le aziende familiari italiane con fatturato superiore ai 50 milioni di euro, utilizzando il database dell’Osservatorio AUB. Negli ultimi dieci anni la quota di questo tipo di aziende controllate da una holding è aumentata dal 32% al 38%, sulla spinta dei vantaggi in termini di redditività (il return on equity delle aziende controllate è infatti del 5,4%, contro il 4,5% delle altre) e di capacità di rimborso del debito (il rapporto tra l’indebitamento finanziario netto e il margine operativo lordo infatti è di 6,6 nelle aziende controllate da holding, contro il 5,6 delle non controllate). Tale soluzione tuttavia si traduce in una crescita più lenta: fatto 100 il fatturato del 2006, nel 2009 le aziende controllate da una holding si attestavano a 103, contro il 106 delle altre. Ad avere i risultati migliori sono le strutture più semplici, ovvero quelle che registrano la catena di controllo più breve (un solo livello: la holding controlla direttamente la capogruppo industriale) e, tra queste, quelle in cui la holding svolge attività più limitata, senza aggravi di costi e duplicazioni di strutture spesso già presenti nelle società controllate. Non è un caso, allora, che la catena di controllo a un solo livello interessi il 74,3% delle società, quella a due livelli il 22,5% e solo il 3,2% faccia parte di gruppi con tre o più livelli.

Fonte: Ansa.it

Imprese familiari, scudo dell’occupazione

La cosa più importante? La famiglia. No, non è un refrain in stile “Il Padrino“, ma è un dato di fatto che si riscontra nel mondo dell’impresa italiana, piccola e media. Anche nelle difficoltà economiche dell’ultimo triennio, infatti, le imprese familiari hanno dato il contributo più significativo all’occupazione, come rileva la terza edizione dell’Osservatorio AUB su tutte le aziende familiari italiane di medie e grandi dimensioni. L’Osservatorio è stato realizzato da Guido Corbetta, Alessandro Minichilli e Fabio Quarato della Cattedra AIdAF-Alberto Falck di Strategia delle aziende familiari della Bocconi in collaborazione con AIdAF (Associazione italiana delle aziende familiari), gruppo UniCredit e Camera di Commercio di Milano.

L’Osservatorio analizza le aziende italiane con un fatturato superiore ai 50 milioni di euro (che sono 6.816) e si sofferma sulle caratteristiche e le performance di quelle a controllo familiare (3.893, il 57,1% delle medio-grandi imprese italiane, ridotte 2.423 dopo l’eliminazione delle sovrapposizioni dovute agli intrecci proprietari).

Nel periodo 2007-2009 le imprese familiari hanno accresciuto il numero di dipendenti del 12,1%, rispetto ai risultati più modesti di cooperative e consorzi (+3%) e coalizioni (+2%) e a quelli negativi di filiali di multinazionali (-4,2%), aziende statali (-10%) e controllate dal private equity (-14,3%).

Anche se il numero di imprese familiari di medio-grandi dimensioni si è ridotto, nell’ultimo anno, di 328 unità, le aziende familiari si sono dimostrate più resistenti di altre a operazioni straordinarie (solo 200 aziende ne sono state coinvolte) e solo nel 58,5% dei casi si trattava di operazioni di M&A (81% per le multinazionali, 75% per quelle a controllo statale; 68% sia per le coalizioni che per cooperative e consorzi).

Lazio, Puglia, Sicilia e Trentino Alto Adige, in controtendenza rispetto al dato complessivo, hanno visto aumentare il numero delle aziende familiari; le flessioni maggiori si sono riscontrate in Toscana, Friuli Venezia Giulia, Umbria e Abruzzo. Le regioni con le performance reddituali migliori sono Lombardia, Veneto, Liguria, Toscana, Lazio, Abruzzo, Campania.

Le aziende familiari sono tra quelle che hanno accusato di più la crisi, ma che sembrano aver risposto meglio ai primi segnali di ripresa. Nel 2010 hanno registrato una crescita del 7%. Anche la redditività è tornata a crescere nel 2010, attestandosi però ancora a livelli inferiori a quelli pre-crisi: il ROI è cresciuto dal 6% al 7,2%, ma nel 2007 era al 9,8%, mentre il ROE è cresciuto dal 4,3% al 6,7%, ma nel 2007 era al 10,7%.

Resta critico l’indebitamento, con oltre la metà delle imprese che denuncia un rapporto tra posizione finanziaria netta ed Ebitda superiore alla soglia d’allarme di 4, e una media che si attesta ben al di sopra (6,4). Il dato è però controbilanciato da due novità positive: l’incremento delle aziende con disponibilità liquide in eccedenza rispetto ai debiti finanziari (dal 16,3% del 2008 al 19,4% del 2010) e la riduzione delle aziende con Ebitda negativo (solo il 4,1%).

La sfida che le imprese familiari dovranno affrontare nei prossimi anni – sottolinea Guido Corbetta, titolare della Cattedra AIdAF-Alberto Falck di Strategia delle aziende familiari – è quella della complessità. Le imprese familiari tendono a mantenere strutture proprietarie e gestionali piuttosto semplici, forti dei buoni risultati che queste conseguono. Quando la strategia si fa più complessa, anche la struttura deve diventare più complessa rendendo necessari innesti manageriali dall’esterno, che tuttavia occorre imparare a saper gestire con equilibrio“.

Continuità nella gestione del personale e giovani leader: questa la ricetta vincente delle imprese di famiglia

L’Osservatorio Aub (composto da Aidaf-Unicredit-Bocconi), ha realizzato un interessante studio curato da Guido Corbetta e Alessandro Minichili circa l’aumento della redditività per le imprese, specie familiari, capitanate da giovani manager. In realtà lo studio, contestualizzato sulla realtà italiana, allarga un po’ quello che è il limite di gioventù, arrivando alla soglia degli under 50. Ad ogni modo, dalla ricerca, su 2.550 imprese familiari che superano i 50 milioni di euro, è emerso che imprese che hanno alla guida persone sotto i 50 anni riescono a raggiungere risultati, in termini di reddività, migliori rispetto a quelle che hanno leader oltre i 60 anni d’età. L’indice di riferimento Roe (che misura la perfomance aziendale) di imprese con leader giovani è pari al 12%, mentre la media per le altre aziende familiari è dell’8,6%. Dai dati risulta che a incidere è anche il tempo di permanenza al vertice. Le performance più brillanti si registrano nell’arco dei primi 6-10 anni, cui segue un lento declino. Anche per questo motivo, determinare per tempo e con accortezza la successione all’interno delle aziende familiari è fondamentale per evitare di disperdere i risultati raggiunti sino a quel momento.

Altro dato di distinguo tra aziende familiari e non si rinviene nell’occupazione. Nel 2009, considerato anno di crisi, l’occupazione nelle aziende familiari sale di un più 0,8%. Dato minimo ma decisivo se confrontato a quello delle società statali e degli enti locali (-3,5%) e soprattutto al -20% delle multinazionali e al -33,6% dei consorzi e delle cooperative. Il motivo di tanta differenza? Le imprese a carattere familiare hanno una visione di lungo termine, incentrata sul rapporto con i territori in cui si insediano e guidate da maggiore responsabilità e senso civico. Quindi più ricorso alla cassa integrazione, ma meno licenziamenti e incentivi per la buona uscita. Mentre al vertice, dunque, il ricambio è necessario per migliorarsi, nella gestione del personale la parola d’ordine è continuità.