Immigrazione e Ius Scholae: in classe si costruisce la cittadinanza

Nel settore dell’immigrazione potrebbero esservi importanti novità,  è iniziato l’iter alla Camera per l’approvazione dello Ius Scholae che prevede la possibilità di ottenere la cittadinanza italiana frequentando le scuole in Italia.

Immigrazione: come si ottiene la cittadinanza italiana?

La cittadinanza è alla base di molti benefici e privilegi che sono riconosciuti solo a coloro che vivono in Italia, da tempo si discute in Italia su una nuova base per diventare cittadini a tutti gli effetti e non mancano polemiche. Ora, dopo anni di tentativi, si prova di nuovo e stavolta con lo Ius Scholae, presentato alla Camera e in discussione alla Commissione Affari Costituzionali dal deputato del M5S Brescia, i tempi potrebbero essere maturi.

Attualmente la cittadinanza italiana si ottiene per:

  • nascita, cioè se si nasce da almeno uno dei due genitori con cittadinanza italiana (in questo caso si parla anche di ius sanguinis);
  • nascita su territorio italiano da cittadini stranieri, in questo caso per ottenere la cittadinanza è necessario il compimento del 18° anno di età, ma è necessario che in tale lasso di tempo, cioè dalla nascita al compimento della maggiore età, il soggetto abbia risieduto ininterrottamente e legalmente in Italia;
  • adozione, cioè un cittadino straniero adottato da un cittadino italiano;
  • matrimonio, quindi sposando una persona con cittadinanza italiana;
  • residenza.

Come si ottiene la cittadinanza per residenza?

Per la cittadinanza ottenuta per residenza è necessario fare qualche precisazione. Si può ottenere nel caso in cui il soggetto abbia un reddito nei tre anni antecedenti la proposizione della domanda di cittadinanza italiana di almeno:

  • 8.263,31 per richiedenti senza persone a carico;
  • euro 11.362,05 per richiedenti con coniuge a carico
  • il limite precedente viene aumentato di ulteriori 516 euro per ogni ulteriore persona a carico.

Tali redditi devono essere maturati ogni anno nei tre anni antecedenti alla presentazione della domanda.

Naturalmente questo requisito economico da solo non basta, ci vogliono ulteriori requisiti, le casistiche sono diverse. In particolare il richiedente deve:

  • essere legalmente residente in Italia da almeno 3 anni e deve esservi nato ( nasce in Italia, va all’estero, ritorna ed è residente per almeno 3 anni);
  • figlio o nipote in linea retta di cittadini italiani residente legalmente in Italia da almeno 3 anni (procedura utilizzata da molti calciatori);
  • cittadino straniero maggiorenne adottato da cittadini italiani e residente legalmente in Italia per almeno 5 anni successivi all’adozione;
  • cittadino straniero che ha prestato servizio per lo Stato Italiano per almeno 5 anni. Il servizio può essere stato prestato anche all’estero e la domanda deve essere proposta all’autorità consolare;
  • Cittadino UE residente in Italia da almeno 4 anni;
  • apolide residente legalmente in Italia da almeno 5 anni;
  • immigrato extracomunitario residente in Italia da almeno 10 anni.

Si ribadisce che in tutti questi casi deve coesistere anche il requisito reddituale.

Immigrazione: cosa prevede lo Ius Scholae?

Con la proposta di legge Ius Scholae l’obiettivo è semplificare questa procedura e dare la cittadinanza italiana a tutti quei bambini che frequentano per almeno 5 anni le scuole italiane. Secondo le stime fatte il provvedimento potrebbe interessare circa 800.000 persone, figli di stranieri, che di fatto hanno sempre vissuto in Italia, si sentono italiani e hanno frequentato le scuole italiane. Lo Ius Scholae andrebbe quindi a riguardare quelli che possono essere definiti gli immigrati di seconda generazione.

Il deputato Brescia nella presentazione del disegno di legge ha sottolineato che lo Ius Scholae potrebbe essere un importante fattore di integrazione. Questo anche grazie a un testo semplice che di conseguenza non può essere facilmente manipolato oppure strumentalizzato da chi fino ad ora si è sempre opposto a una riforma che rendesse più semplice l’ottenimento della cittadinanza italiana. Brescia ha sottolineato che il provvedimento pone al centro il sistema scolastico italiano alla base della costruzione della cittadinanza.

Nella proposta di legge si stabilisce che potrà ottenere la cittadinanza italiana il minore nato in Italia, o che vi abbia fatto ingresso entro il 12° anno di età, che abbia risieduto in Italia senza interruzione e frequentato le scuole in Italia per almeno 5 anni in uno o più cicli scolastici (ad esempio un anno di scuole elementari, tre anni di scuole superiore di primo grado, un anno di scuola superiore di secondo grado).

Per questo disegno di legge hanno già espresso soddisfazione Enrico Letta, segretario del Pd che ha sottolineato che si tratta di una questione di civiltà e di un provvedimento in linea con il sentire degli italiani

Brennero, la frontiera maledetta

La barriera al Brennero che l’Austria sta allestendo per controllare i flussi migratori e i controlli che, con il mese di maggio, dovrebbero partire sui mezzi in transito attraverso la frontiera italo-austriaca potrebbero causare gravissimi danni all’economia dei due Paesi.

Al di là degli aspetti ideologici del caso, c’è infatti un pesante risvolto economico che deriverebbe da una militarizzazione del Brennero. Qualche conto su quanto costerebbe all’Italia una sospensione di Schengen lo aveva fatto la Cgia qualche tempo fa. Ora la stessa Cgia, quantifica anche il “peso” delle merci in transito attraverso il Brennero analizzando i dati di Alpinfo-Ufficio federale trasporti svizzero, relativo al 2013, ultimo anno per il quale risultano disponibile.

Ebbene, secondo gli artigiani, un terzo delle merci che entrano ed escono su gomma dall’Italia attraverso le Alpi passano per il Brennero: 29 milioni di tonnellate sugli 89 milioni complessivi che passano le Alpi a bordo dei Tir.

A queste merci vanno aggiunti anche 11,7 milioni di tonnellate di merci che viaggiano su rotaia, quantità che fa salire il totale delle merci che attraversano ogni anno il Brennero a oltre 40 milioni di tonnellate. Tempi di attesa superiori alle 2-3 ore per i controlli, come si prospetta nella migliore delle ipotesi, sarebbero un colpo durissimo per il tessuto economico italiano e austriaco.

Una preoccupazione che è anche sentita dalle imprese austriache. Come ha dichiarato a Il Sole 24Ore Christoph Leitl, presidente della Camera di commercio federale austriaca, organismo che riunisce 500mila aziende, “l’ultima cosa che vogliamo è una barriera al Brennero”.

Secondo Leitl, il danno per l’economia austriaca potrebbero essere di 1,2 miliardi di euro all’anno, mentre Michael Berger, console commerciale dell’Austria per l’Italia, ha dichiarato sempre al Sole che “secondo i calcoli delle imprese di trasporto, nella situazione attuale si contano danni per 2,5 milioni di euro al giorno e se la chiusura fosse generalizzata il conto salirebbe a 8,5 milioni”.

Per l’Austria, gli effetti di un tappo al Brennero si sommerebbero a quelli già pesanti derivanti dai controlli messi in atto dalla Germania nei confronti di chi entra nel Paese passando proprio dall’Austria, oltre al blocco della rotta balcanica, che provoca pesanti ritardi per le merci in entrata e uscita verso Croazia e Serbia.

Insomma, le decisioni isolazioniste dell’Austria rischiano di avere controindicazioni pesanti sul piano economico più che su quello strettamente politiche.

Quanto ci costa sospendere Schengen?

Mentre i flussi migratori mettono in crisi l’Unione europea, divisa tra diffidenza e accoglienza, c’è chi sostiene che il ripristino dei controlli alle frontiere con una sospensione almeno temporanea del trattato di Schengen sia una soluzione almeno temporanea per filtrare gli arrivi.

Non è chiaro a tutti, però, che sospendere Schengen ha dei costi che, secondo l’Ufficio Studi della Cgia, potrebbero essere salatissimi. Per i Paesi, per le imprese, per le persone. Nel caso dell’Italia, la Cgia ha ipotizzato che una sospensione di Schengen avrebbe sul nostro Paese una una ricaduta economica negativa fino a 10 miliardi di euro all’anno.

La Cgia ha fatto delle stime ipotizzando uno scenario con controlli di polizia alle frontiere poco invasivi e uno con controlli più stringenti e rigorosi, con questi ultimi che allungherebbero di molto i tempi per l’ingresso nel nostro Paese, oltre che delle persone, anche dei beni e delle merci.

In entrambi gli scenari il settore colpito per primo da una sospensione di Schengen sarebbe l’autotrasporto. Per i Tir si allungherebbero notevolmente i tempi di ingresso/uscita alle frontiere, con un conseguente aumento del prezzo delle merci importate/esportate e delle ricadute macro economiche che interesserebbero l’Italia: riduzione del potere d’acquisto delle famiglie e calo dei consumi interni, con costi derivanti dall’aumento dei prezzi che oscillerebbero tra i 4,8 e i 9,8 miliardi di euro all’anno a seconda dello scenario.

Poi, ci sarebbero i turisti giornalieri e del week-end, che potrebbero decidere di non trascorrere qualche giorno di vacanza in Italia per il ripristino dei controlli pre – Schengen con conseguente aumento dei tempi di attesa: il danno per la nostra bilancia turistica andrebbe da 233 a 465 milioni di euro l’anno.

Ultimo ma non meno importante, l’impatto economico che il ripristino dei controlli alle frontiere avrebbe sui lavoratori frontalieri che dovrebbero restare in fila per attraversare il confine, stimato dalla Cgia tra i 53 e i 105 milioni di euro.

In totale, quindi, a seconda che si profili uno scenario più o meno invasivo, secondo i calcoli della Cgia l’eventuale sospensione di Schengen potrebbe comportare per l’Italia un costo tra i 5,1 e i 10,3 miliardi di euro, pari a un impatto sul Pil variabile tra lo 0,3% e lo 0,6%.

Ricorda il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo: “Le cronache riportano che dallo scorso gennaio la riattivazione dei controlli voluta dalla Svezia sul famoso ponte Oresund, quello che collega Copenhagen a Malmo, ha allungato i tempi di percorrenza di quasi un’ora, con un costo per i pendolari di circa 150mila euro al giorno. Il blocco a singhiozzo attivato in questi ultimi mesi dal Belgio sui confini francesi, invece, ha allungato le code di 30 minuti. Attese, ovviamente, che penalizzano soprattutto le aziende di autotrasporto che si sobbarcano interamente questi costi aggiuntivi”.

Gli imprenditori stranieri in Italia

Gli imprenditori stranieri in Italia sono una benzina importantissima per il motore della piccola e media impresa. Se nel 2014 risultavano oltre 335mila imprese individuali registrate da imprenditori stranieri, capiamo bene come i flussi migratori non generino solo tragedie, frustrazione e povertà, ma anche ricchezza.

Quali sono, però, gli imprenditori stranieri che hanno davvero trovato l’America in Italia? Ce lo racconta sempre l’indagine trimestrale di Unioncamere/InfoCamere, dalla quale emerge che Marocco, Cina, Albania e Bangladesh sono i Paesi d’origine del maggior numero di imprenditori stranieri operanti in Italia.

Gli imprenditori stranieri arrivati dal Marocco, le cui imprese rappresentano il 19,1% del totale delle ditte individuali guidate da extracomunitari in Italia, dominano in 11 regioni su 20, e sono i padroni assoluti nei settori dei trasporti e del commercio.

Dalla Cina arrivano invece 47mila imprenditori individuali, stando alle stime relative a dicembre 2014. La maggior parte di queste comunità di imprenditori stranieri si è stabilita in Toscana e Veneto, dove si dedicano principalmente alla loro vocazione manifatturiera (in special modo tessile), ma sono anche molto attivi nella ristorazione, nell’ospitalità e nei servizi alle persone.

Se un tempo, poi, almeno al Nord Italia muratore era sinonimo di bergamasco, ora gli orobici cedono il posto agli albanesi. Dal Paese delle aquile provengono infatti più di 30mila imprenditori stranieri, molti dei quali operanti nel settore delle costruzioni.

La Top 4 si chiude con gli imprenditori stranieri provenienti dal Bangladesh, titolari di quasi 26mila imprese, la maggior parte delle quali nel Lazio, che la fanno da padroni soprattutto nel settore del commercio (con più di 16mila imprese), ma non disdegnano, secondo Unioncamere, nemmeno i settori delle Tlc, dell’informatica, delle agenzie di viaggio e dei servizi alle imprese.

Meno numerosi ma comunque in forte crescita, sempre secondo Unioncamere, gli imprenditori stranieri provenienti da Pakistan (10.742 imprese, +1.490 sul 2013), Nigeria (10.563, +1.437), Senegal (18.192, +1.299) e India (4.730, +860). Insomma, per i migranti, oltre il Canale di Sicilia c’è di più, se il destino o la barbarie degli scafisti non decidono diversamente.

Immigrati ed economia, la Germania ci vede lungo

La recente svolta della Germania sulle politiche di accoglienza nei confronti degli immigrati è sicuramente figlia dell’ondata di emozioni suscitata dalle ultime tragedie e da alcune foto scioccanti che hanno fatto il giro del mondo, oltre che del fatto che, ora, gli immigrati bussano in massa ai confini del Paese con l’Italia a fare sempre meno da cuscinetto. Ma un certo calcolo utilitaristico, in un’ottica di pianificazione a lungo periodo è stato sicuramente fatto dalla cancelliera Merkel.

Non è un caso, infatti, che grandi aziende come la Daimler (capofila di Mercedes) abbiano capito la potenzialità che molti di questi immigrati hanno sul piano economico. Giovani, con istruzione medio alta e forte specializzazione tecnica, questi ragazzi rappresentano un formidabile bacino al quale le aziende tedesche possono attingere per avere manodopera qualificata.

Non è infatti un caso che proprio Daimler abbia annunciato di voler effettuare recruiting tra di loro e che persino il club calcistico del Bayern Monaco abbia annunciato di voler stanziare fondi per consentire agli immigrati più talentuosi di affrancarsi e affermarsi nel mondo del calcio.

E l’Italia? Purtroppo nel nostro Paese il sentimento che prevale è quello di sollievo quando Bruxelles annuncia che una quota di immigrati se ne andrà, ridistribuita in altri Stati dell’Ue. Certo, la lungimiranza non è un concetto proprio dei nostri politici e, a nostra parziale discolpa, possiamo dire che per troppi anni siamo rimasti soli a fronteggiare sbarchi e ondate migratorie e che il nostro tessuto economico e produttivo non è quello della Germania, uscito quasi indenne da una crisi che invece ha massacrato le Pmi italiane. Il che lo rende anche meno attrattivo agli occhi di chi, in Europa, cerca una nuova possibilità.

Resta comunque il fatto che l’Italia si sta facendo scappare un’opportunità per il presente e per il futuro, visto che più immigrati regolari che lavorano significano anche più contributi pensionistici e maggior respiro al welfare.

Del resto, secondo Bloomberg la capacità di accoglienza degli immigrati in Europa dovrebbe salire entro il 2020 a 42 milioni per riscontrare benefici sul welfare, per salire poi a 250 milioni entro il 2060. In questo modo sarebbero coperti gli impieghi, l’Irpef in entrata aumenterebbe, riequilibrando il bilancio tra lavoratori e pensionati.

Secondo uno studio dell’Ue, infatti, il rapporto tra occupati e pensionati è di 4 a 1, destinato a ridursi a parità, con la Germania poco al di sotto di questo tetto: 24 milioni di pensionati a fronte di 41 milioni di adulti. Anche in Italia si attendono in proporzione per il 2050 numeri simili: 20 milioni di pensionati e 38 milioni di attivi. Ecco dunque il beneficio di aumentare i contribuenti immigrati per evitare un aumento dell’Irpef in busta paga o il taglio delle pensioni stesse. In questo modo, sostiene l’Ue, gli immigrati occuperebbero posti di lavoro vacanti, infruttuosi per il fisco. Con un beneficio a lungo termine per gli stati.

Ma lo abbiamo detto: lungimiranza non è un concetto che si addice alla nostra politica. A maggior ragione sul tema degli immigrati…

Immigrati: quanto versano al fisco?

Mentre alcuni Paesi dell’Unione Europea sembrano avere aperto gli occhi sulla questione immigrati e deciso di effettuare un cambio di passo nelle politiche dell’accoglienza, chi in Italia ha messo radici da anni continua a dare una grossa mano all’economia del Paese.

Abbiamo visto ieri il contributo dato dagli immigrati alla nascita di nuove imprese nel nostro Paese, in anni nei quali la crisi economica ha continuato a mordere e a fare strage delle aziende italiane. Oggi vediamo un altro indicatore importante, quello del gettito fiscale che, ogni anno, gli immigrati riversano nelle casse dello Stato.

È una cifra consistente, pari a 6,8 miliardi di euro che ogni anno finisce nelle casse dell’Agenzia delle entrate. Sì, perché tra i 5 milioni di immigrati regolari si cela un popolo di contribuenti: 3 milioni e mezzo di persone, che dichiarano al fisco oltre 45 miliardi di euro l’anno.

Un calcolo, questo sulle dichiarazioni dei redditi 2014 degli immigrati, fatto dalla Fondazione Leone Moressa, in base al quale risulta che i contribuenti immigrati sono l’8,6% del totale e dichiarano 45,6 miliardi di euro. Spacchettando il dato per etnie, in prima fila ci sono i romeni (6,4 miliardi), seguiti da albanesi (3,2), svizzeri (2,8) e marocchini (2,4).

Sul totale di questi contribuenti immigrati, le donne sono meno il 43,9% rispetto al 48% delle italiane, impiegate prevalentemente come colf e badanti. Mestieri appannaggio soprattutto di alcune nazionalità dell’Est Europa come Ucraina (le cui donne contribuenti sono il 75,9%) e Moldavia (60,7%). Non è tutto.

Interessante anche il dato relativo all’Irpef versata dagli immigrati, nel 2014: 6,8 miliardi, il 4,5% del gettito complessivo, con un’Irpef media pro-capite per i nati all’estero di 3.070 euro, quasi 2mila euro in meno degli italiani.

Significativa, poi, l’analisi effettuata dalla Fondazione Moressa su come le tasse pagate dagli immigrati, tra contributi previdenziali e gettito fiscale, vengono controbilanciate dalla spesa pubblica che li sostiene, per le voci relative a politiche di accoglienza e integrazione, welfare e contrasto all’immigrazione clandestina. Ebbene, il saldo è in attivo di 3,9 miliardi.

Per quanto riguarda invece la distribuzione territoriale, circa un quinto dei contribuenti immigrati vive in Lombardia e oltre il 50% in sole quattro regioni: Emilia-Romagna, Lazio, Lombardia e Veneto. Tutti dati che, a giudizio della Fondazione Moressa, indicano che “gli immigrati risultano certamente più una risorsa che una minaccia per il Paese“.

Immigrati e ricchezza prodotta: le cifre

Da qualche giorno, sull’onda dell’emozione che le tragedie dell’immigrazione delle ultime settimane provocano in moltissimi italiani, Infoiva ha iniziato un focus dedicato a impresa, lavoro e immigrati nel nostro Paese.

Ci siamo occupati degli imprenditori stranieri in Italia, dei loro settori merceologici, di quanta ricchezza producono i lavoratori immigrati e di questa, quanta viene girata nei rispettivi Paesi d’origine. Oggi, partendo dai dati del Rapporto annuale sull’Economia dell’Immigrazione 2014 della Fondazione Leone Moressa, vogliamo capire se e quanto costano alla nostra economia gli immigrati.

Partiamo dunque dalla notizia: secondo i dati del Rapporto, se si comparano le uscite necessarie per “mantenere” gli immigrati regolari e quelle per tutte le operazioni di soccorso e accoglienza dei clandestini con le entrate derivanti da tasse e contributi versati dagli immigrati regolari, l’Italia è in utile di 3,2 miliardi. Stando ai conti relativi al 2012.

La cifra deriva appunto dalla differenza tra contributi previdenziali e Irpef versati dai cittadini immigrati regolari in Italia (15,6 miliardi, di cui 8,9 di contributi e 6,7 di Irpef), e le spese di welfare per gli immigrati e di remunerazione delle forze dell’ordine impiegate sul campo per combattere l’immigrazione clandestina (12,4 miliardi).

Se si volesse fare un calcolo sull’unità, i numeri della Fondazione Moressa ci dicono che mediamente gli immigrati versano a testa poco più di 7mila euro all’anno tra contributi e Irpef (3800 euro all’Inps e 3250 al fisco, per la precisione), mentre dallo Stato ricevono servizi per un controvalore pari a circa 2500 euro.

Tra gli immigrati, la classifica di coloro che versano più soldi allo Stato italiano riflette da vicino la classifica per etnie di provenienza che abbiamo delineato nei giorni scorsi. I più generosi verso Inps e fisco sono i romeni, che versano il 18,4% del totale e hanno una media pro capite di quasi 1800 euro (1793); vengono poi gli albanesi (7,3%, 1961 euro) e i marocchini (5,7%, 1683 euro).

Come si vede, quindi l’universo degli immigrati regolari in Italia ha sfaccettature diverse, senza contare che per tanti di loro l’avventura in Italia è iniziata proprio da un barcone. E, come riconoscimento per il Paese che li ha ospitati dando loro un futuro, da lavoratori o da imprenditori, gli immigrati contribuiscono per una parte non indifferente alla ricchezza dell’Italia.

Sempre secondo i dati della Fondazione Moressa, i lavoratori immigrati incidono per l’8,8% sul Pil italiano; spacchettata per settori, questa ricchezza arriva per il 45,8% arriva dai servizi, per il 18,4% dal manifatturiero, per il 13,3% dalle costruzioni. Senza contare che le 497mila imprese condotte da stranieri (di cui 335mila imprese individuali) producono un giro d’affari annuo di 85 miliardi, pari al 6,5% del Pil nazionale.

I trasferimenti dei lavoratori stranieri nei Paesi d’origine

Nei giorni scorsi abbiamo visto quanti sono gli imprenditori stranieri in Italia, soprattutto quelli che possiedono una impresa individuale, da quali Paesi vengono e in quali settori merceologici hanno specializzato le loro attività

Tra di essi, ma soprattutto tra i lavoratori stranieri che operano regolarmente in Italia, sono in molti coloro i quali, oltre a generare ricchezza per l’Italia, inviano al Paese d’origine parte del proprio stipendio o dei propri guadagni per mantenere le famiglie o sostenere chi li ha aiutati a trovare fortuna da noi.

Si tratta di un fiume di denaro, che i lavoratori stranieri mandano ogni mese oltre i confini italiani; soldi che il Centro Studi Impresa Lavoro ha provato a contare e, soprattutto, ha provato a vedere dove va a finire. Le cifre che escono sono da questa analisi, condotta su lavoratori stranieri di 176 nazionalità, sono di tutto rispetto.

Secondo le stime elaborate dal Centro Studi Impresa Lavoro, la cifra che i lavoratori stranieri hanno inviato nei rispettivi Paesi d’origine nel periodo 2005-2014 è stata di circa 60 miliardi. Un periodo caratterizzato per la maggior parte dagli effetti della crisi economica che, secondo quanto si legge nel rapporto, ha inciso anche sui trasferimenti monetari dei lavoratori stranieri.

Osservando la ripartizione per anno – scrive il Centro Studi Impresa Lavoro -, si osserva come la crisi economica italiana abbia comportato negli ultimi anni una significativa contrazione delle somme inviate da questi lavoratori alle loro famiglie di origine: dai 7,394 miliardi del 2011 ai 6,833 miliardi del 2012 (-7,6%) fino ai 5,533 miliardi del 2014 (-38%)”.

Limitandosi alle cifre dello scorso anno, l’analisi mostra che i lavoratori stranieri che hanno inviato più denaro al proprio Paese di origine sono stati di gran lunga i romeni (876 milioni) e i cinesi (819 milioni). Non c’è paragone con le altre etnie, visto che i terzi, i lavoratori stranieri provenienti dal Bangladesh sono stati più che doppiati (hanno inviato 360 milioni). Seguono poi i lavoratori originari delle Filippine (324 milioni), del Marocco (250), del Senegal (245), dell’India (225), del Perù (193), dello Sri Lanka (173) e dell’Ucraina (144).

Secondo quanto ha rilevato il Centro Studi Impresa Lavoro, il fenomeno dei trasferimenti ai Paesi d’origine riguarda trasversalmente tute le regioni d’Italia, anche se predominano quelle nelle quali la presenza degli stranieri è più massiccia. Sempre stando al 2014, i lavoratori stranieri che hanno trasferito in più denaro sono stati quelli residenti in Lombardia (1 miliardo e 119,4 milioni), nel Lazio (985,1 milioni), in Toscana (587,1), in Emilia-Romagna (459,7), in Veneto (426,3) e in Campania (306,7).

Qualcuno potrà obiettare che si tratta di ricchezza sottratta al Paese o al territorio, ma non bisogna dimenticare la quota di Pil che i lavoratori stranieri producono per l’Italia, numeri che troppo spesso si finge di dimenticare.

Immigrati fra tragedie e impresa

In questi giorni l’immigrazione è ovunque in prima pagina per le tragedie che si consumano quotidianamente nel Canale di Sicilia. Al di là delle strumentazioni politiche, degli scenari internazionali, della compassione che possono generare queste ecatombi, non dobbiamo dimenticare che gli immigrati regolari sono una risorsa per la nostra economia. Specialmente quando gli immigrati si trasformano in imprenditori.

Secondo l’indagine trimestrale di Unioncamere/InfoCamere su dati del Registro imprese delle Camere di commercio, nel 2014 le imprese individuali costituite da immigrati extracomunitari hanno superato le 335mila unità, +23mila sul 2013. Una impresa individuale su 10 è costituita da immigrati.

La geografia di queste imprese condotte da immigrati, che danno un grande contributo all’economia italiana, è la più variegata. Vincono gli immigrati marocchini (64mila imprese, soprattutto nel commercio), seguiti dai cinesi (47mila, soprattutto nel commercio e nel tessile), dagli egiziani e dagli immigrati albanesi (23mila imprese, soprattutto nelle costruzioni).

Quella che l’indagine di Unioncamere mette in luce è anche una caratteristica delle imprese capitanate da immigrati che fa invidia a quelle italiane: la maggiore capacità di resistere alla crisi, soprattutto grazie a una diversa dinamica di iscrizioni e cessazioni. Lo scorso anno, le imprese guidate da immigrati, hanno fatto registrare 4.264 unità in più rispetto al 2013, e 1.533 cessazioni in meno. Le imprese guidate da italiani, infatti, hanno sì frenato in quanto a numero di cessazioni (28.619 in meno rispetto al 2013), ma sono calate anche le iscrizioni (-12.540 rispetto al 2013).

Dinamiche chiare, che non sono sfuggite a Unioncamere, che ha così commentato i risultati dell’indagine per bocca del presidente Ferruccio Dardanello: “Le trasformazioni che sta subendo il nostro sistema produttivo rispecchiano chiaramente l’evoluzione in corso della nostra società, sempre più sollecitata dall’arrivo di persone provenienti da Paesi stranieri. La crescente diffusione di queste iniziative imprenditoriali dimostra che l’impresa resta una delle strade migliori per l’integrazione e la coesione sociale. Teniamo conto che, considerando anche le società di capitali, la presenza di immigrati in Italia nel mondo imprenditoriale sale ancora, raggiungendo le 500mila unità“.

Gruppo Europa, il franchising che si occupa di immigrazione

Come ormai si sa, il franchising può riguardare anche servizi alla persona, e non solo negozi.

Uno di questi casi, di assoluta attualità, riguarda Gruppo Europa, network che da vent’anni si occupa di immigrazione.
Ciò di cui si occupa questo marchio ha a che fare con gli immigrati e il disbrigo burocratico delle pratiche che riguardano lavoro, dichiarazione dei redditi, assistenza sanitaria e tutto ciò che deve essere svolto con l’aiuto di un professionista.

Per entrare in Gruppo Europa, è necessario ricevere l’adeguata formazione, oltre ad un aggiornamento continuo che riguarda le nuove leggi.
Anche l’aspetto del marketing è importante, perciò il supporto è relativo anche allo sviluppo di nuove aree business da proporre ai clienti.

Per ricevere ulteriori informazioni, è possibile collegarsi al sito Gruppo Europa.