Svizzera, una terra promessa

 

Con un fisiologico 2,9%, il tasso di disoccupazione in Svizzera rimane sostanzialmente immutato rispetto all’anno scorso. Anzi, il numero di disoccupati è diminuito di 1462 unità (-1,1%) insieme agli iscritti agli uffici regionali di collocamento (URC) calati a quota 127054.

Insieme al Ticino, i cantoni francofoni della Romandia rimangono i più colpiti. Con un tasso del 5,4% il primato negativo spetta alla città romanda più grande: Ginevra (invariato rispetto a luglio 2013 e giugno 2014). Percentuale oltre il 5% anche a Neuchâtel (5,1%; invariato su base annuale, +0,1 punti rispetto a giugno). Uri è invece il cantone con meno disoccupati (0,6%; -0,4 punti su base annuale, -0,3 punti rispetto a giugno), seguito da Obvaldo (0,9%; +0,1 punti su base annuale, invariato rispetto a giugno) e Nidvaldo (0,9%; -0,1 punti su base annuale, invariato rispetto a giugno).

La Svizzera, inoltre, continua imperterrita a importare manodopera dal mondo (e dalla vicina Italia…): nel periodo in rassegna gli occupati stranieri sono infatti aumentati su base annua addirittura del 5,0%, salendo a 1,47 milioni, mentre la crescita dei lavoratori con passaporto elvetico si è limitata allo 0,5% a 3,44 milioni.

JM

“Addio Italia, con le chiacchiere non si porta il pane in tavola”

di Davide PASSONI

Dopo la prima parte dell’intervista a Laura Costato, ecco il prosieguo.

Ce la fate ad andare in Svizzera prima che accada quello che secondo lei sarà l’irreparabile?
No, siamo un’azienda piccola e pensare di fare un salto del genere in poco tempo non è credibile. Per questo parte il progetto di un consorzio etico gestionale, per il quale manderò degli inviti alle aziende che mi hanno scritto per informazioni e illustrarlo loro; un consorzio che non produce utili, serve solo a gestire tutto quello che è il back office ma rimarrà composto da soggetti giuridici separati.

Vantaggi?
Uno per tutti: se io vado a trattare una linea di credito per un pacchetto di aziende che muovono 10-15 milioni di fatturato, otterrò senz’altro delle condizioni più favorevoli che non se andasse la Costato Srl che ne muove 1. Il progetto nasce dall’esigenza di approcciare il sistema economico svizzero con una forza diversa che la piccola azienda non ha; per cui anche tutte quelle figure professionali che il piccolo imprenditore non può avere (marketing, controllo di gestione…) possono, con il consorzio, diventare organiche a esso.

Di quante aziende parliamo?
Quando parlo di consorzio parlo di 8-12 aziende, non di più; un progetto che può essere replicabile N volte ma di fatto abbastanza chiuso. spero di riuscire a farlo con aziende compatibili tra loro, in modo da poter creare una filiera: insomma, non lasciare nulla al caso, perché muoversi da qui va fatto con grande coscienza, quando si fa un salto del genere si rischia di chiudere delle porte, trovarsi di fronte a un cancello sbarrato e restare intrappolati nel mezzo. Quello che è certo è che in Italia non ci voglio restare, non solo per una questione professionale ma anche personale: non mi riconosco più nell’italiano né nella politica che lo governa. Non vedo proposte mirate: vedo una maggioranza che distoglie l’attenzione dai veri problemi creando scandali paralleli e un’opposizione che passa il tempo a criticare questi scandali. Per parte mia non si tratta di essere ottimisti o pessimisti, ma realisti.

Quindi le IMPRESECHERESISTONO… non resistono?
Io sono una parte che non resiste, perché non mi posso permettere di resistere. Per me resistere significa sopravvivere e trovare un modo di creare quella continuità aziendale che qui non è più possibile ottenere e garantire un futuro alla mia famiglia che fa questo lavoro da 50 anni, ai miei figli e ai miei dipendenti. Sopravvivere a queste condizioni significa mettere a rischio tutto quello che si è creato in 50 anni di lavoro; io non ho mai avuto paura delle banche, delle istituzioni o delle risposte che non ho avuto: il mio incubo è quello di dire alle mie persone di stare a casa. A queste condizioni, non volendo lasciarle a casa, io posso vivacchiare ancora due anni al massimo, il mio piano industriale è chiaro. Voglio fortemente andar via prima dell’irreparabile, che vedo molto vicino non solo per la mia azienda ma per l’intero sistema.

Quanti siete oggi in IMPRESECHERESISTONO?
Prima dell’uscita di questi servizi eravamo 1300 circa, ora siamo quasi 2000. La cosa triste è che non contiamo nulla; tra tutti muoviamo il doppio dei dipendenti che muove Fiat ma di noi non importa niente a nessuno.

E siete nati?
A maggio 2009.

Triste pensare che non siate riusciti a muovere nulla finora…
Nulla! Siamo partiti con delle richieste che al governo non sarebbero costate nulla se fatte limpidamente: la deducibilità Irap, l’Iva per cassa per aiutarci nella liquidità, la moratoria dei debiti fiscali, garantire la certezza dei pagamenti su media europea… Niente. E poi assistiamo a operazioni come quelle dello scudo fiscale, che fa pagare per capitali che, a mio avviso, non sono nemmeno rientrati: chi ha l’occhio lungo paga ma i capitali li lascia all’estero, non li riporta in Italia. Se io vado il banca a chiedere dei soldi devo pagare il 12% di interessi mentre queste persone che hanno evaso, hanno creato un danno al Paese, si rifinanziano pagando un 5% facendo concorrenza sleale alle aziende oneste. E se io non pago l’Iva, pago il 3% più le sanzioni il mese dopo? E’ un sistema che premia l’illegalità. E io tutti questi aiuti alle Pmi, ribadisco, non li ho visti, gli aiuti sventolati sono stati rivolti alle aziende con fatturato da 10 a 100 milioni di euro, non certo alle micro e piccole aziende che sono il 96% del tessuto economico italiano. Per me è diventato un malessere non tanto il lavorare in se stesso quanto il vivere in questo sistema.

Ha superato la fase del dispiacere di andarsene?
Io non ho dispiacere. Mio fratello e mia madre sì, io no. Facevo fatica ad accettare l’idea di trasferire l’azienda in altre realtà tipo quelle dei Paesi dell’Est, senza nulla togliere a questi ultimi, ma non mi vedo a vivere là con i miei tre bimbi piccoli. In Svizzera ci sono scuole ottime e servizi eccellenti, in svizzera mi hanno fatto sentire benvenuta. Mi hanno detto che gli svizzeri sono spocchiosi, che guardano gli italiani dall’alto in basso… ma a me non importa, io so che con le chiacchiere il pane in tavola non lo porto e qui di chiacchiere se ne sono fatte già fin troppe.

Qualcuno però avrà anche detto che la loro fiscalità da noi ce la sogniamo…
Perché il nostro sistema fiscale è profondamente ingiusto. Se io lavoro 12 ore al giorno per guadagnare 100 e 70 e rotti li devo dare allo Stato, in questo modo mi si toglie la possibilità di crescere. E poi mi si accusa di non fare innovazione. Con che soldi? Qui si vive nel controsenso, nell’aria fritta, nella chiacchiera. Tutte cose che non portano il pane in tavola. E purtroppo mi rendo conto che, sempre più, la politica è lo specchio dell’italiano medio: è anche per questo che me ne vado.

Reazioni alla sua scelta?
Da quando sono comparsa sulla stampa o in tv, nelle mail o sul nostro blog nessuno, e dico nessuno, mi ha mai rimproverato di andarmene. Mi aspettavo qualcuno che dicesse cose del tipo “hai guadagnato qui e ora te ne vai a goderti i soldi in Svizzera“, oppure “io non scappo perché sono italiano e amo l’Italia“… niente. E questo è sintomatico. Ma quando qualcuno mi scrive “ammiro il suo coraggio“, non ci siamo. Se ancora oggi il fatto di mettere la propria faccia per denunciare quello che non va è definito coraggio, vuol dire che alla base non c’è speranza.

Suo padre, che ha fondato l’azienda, sarebbe andato in Svizzera?
Per come lo conoscevo, no. Forse avrebbe delocalizzato all’Est, ma non avrebbe lasciato l’Italia.

“In Italia nessun futuro per me né per la mia impresa”

di Davide PASSONI

Laura Costato è una bella signora di 45 anni. Una imprenditrice fiera del proprio lavoro e determinata a svolgerlo nel miglior modo possibile. Per questo ha deciso che l’Italia non è più il Paese per lei; dopo essere stata tra le fondatrici del network IMPRESECHERESISTONO e aver lottato per quasi 2 anni contro i muri di gomma della burocrazia, della mala politica e del Fisco, Laura ha deciso di dire basta e di attrezzarsi per trasferire produzione, fabbrica e famiglia in Svizzera. Una storia dura, pesante, che lei stessa racconta a Infoiva in questa lunga intervista, senza peli sulla lingua. Leggetela d’un fiato e riflettete: questa è solo la prima parte, ecco la seconda.

Perché siamo arrivati a questo punto, al punto di dire “basta, chiudo, trasferisco l’attività in Svizzera”?
Alla base c’è la stanchezza di dover lottare quotidianamente per poter fare il mio lavoro e dover lottare in un Paese in cui non c’è nulla che fino ad oggi sia stato programmato per dare sostegno alle difficoltà che incontriamo come Pmi. Tutto quello che è stato pubblicizzato finora, dalla moratoria dei debiti ai fondi messi a disposizione per le Pmi e le microaziende non ci hanno in realtà portato nulla. La stanchezza nasce da qui e dal fatto che, come IMPRESECHERESISTONO, chiediamo da 20 mesi le stesse cose e non abbiamo avuto una risposta in senso positivo né negativo: un silenzio che, a mio parere, è ancora più grave che aver ricevuto una risposta negativa. Si fa passare tutto coperto da una sorta di invisibilità: noi siamo quelli che pagano, che devono stare zitti e andare avanti da soli, in un modo o nell’altro. Io non vedo futuro. Dubito che ci sia un progetto per le Pmi ma che ci siano solo la volontà di non fare nulla o l’incapacità di fare qualcosa; ci dicessero almeno che come target non interessiamo, invece di aspettare e continuare a pagare nel silenzio fino al fallimento totale: chiuderemmo e ciascuno farebbe le proprie scelte.

Chi non risponde?
Non rispondono le banche, le istituzioni, la politica, non risponde nessuno. Da tutte le porte a cui bussiamo come IMPRESECHERESISTONO non arriva risposta. Come network siamo apartitico, dialoghiamo con tutti quelli che si mettono a disposizione, ma purtroppo in Italia c’è una politica a breve termine che è quella del sondaggio: si fanno le cose perché si vuole avere il sondaggio favorevole, ma di politiche a medio e lungo termine non se ne vedono, in nessun campo. Il rovescio della medaglia è che, denunciando queste cose e parlando di Svizzera, ogni volta che esce un articolo, una notizia, un servizio alla tv io sono subissata di mail di aziende che vogliono scappare ma soprattutto di dipendenti senza lavoro o a rischio che mi scrivono “portami con te in Svizzera“. Da tutta Italia. E’ un disagio che non sentiamo solo noi imprenditori, perché oggi la gente ha fame e da questo immobilismo nasce la sfiducia, oltre che da questa politica che si gioca il tutto per tutto per avere un punto in più di sondaggio.

In quanti siete oggi nella sua azienda, la Costato Srl?
Siamo 4 dipendenti e 4 amministratori-lavoratori. Non siamo mai stati un’azienda con enormi possibilità di crescita, in quanto operiamo in un settore di nicchia: vogliamo lavorare e vivere del nostro lavoro in maniera un po’ più dignitosa.

Che mercati avete, o meglio, avevate?
Principalmente l’Italia; avevamo clienti come Piaggio, Candy, Zerowatt, De Longhi, Bosch: tutti spariti o hanno le sedi fuori Italia, qui tendono a tenere quel poco di logistica che serve il mercato locale.

La globalizzazione è dunque davvero un grande dito dietro cui nascondersi per non vedere la vera origine di certi problemi?
Per conto mio sì, perché è un fenomeno che tocca ogni Paese e ciascuno la affronta alla propria maniera. Tanti Paesi almeno ci provano, l’Italia no. Anche in Svizzera c’è crisi, ma la qualità di un Paese si vede dalle misure che mette in campo per fronteggiarla: da noi semplicemente si scantona, si finge di credere che domani le cose cambieranno.

Perché proprio la Svizzera?
Vede, quello che a me attrae della Svizzera è sì la disoccupazione bassa, al 3%, ma anche il fatto che hanno ridotto il debito pubblico con delle politiche mirate e ora cercano di portarsi in casa quelle che loro chiamano produzioni di eccellenza, ma che sostanzialmente sono quelle che fanno stare sul mercato; noi di eccellenza non abbiamo nulla, a parte la capacità di realizzare qualsiasi prodotto nella viteria, che è un know-how che in Italia pochi hanno. Non siamo certo noi che portando quattro dipendenti in Svizzera ne possiamo cambiare le sorti economiche, e come noi tante altre aziende. Loro però si stanno muovendo prima per evitare che, da qui a 10 anni, i giovani svizzeri non abbiano lavoro. Qui invece si fa il contrario: si mandano via o si fanno chiudere le aziende che sono la vera ricchezza del Paese, anche perché sono quelle che pagano.

Le Pmi…
Per quanto possa sembrare antipatico quello che dico, le grandi aziende bene o male chiudono sempre in perdita, pagano un quarto delle tasse che paga la piccola azienda, cadono sempre in piedi e nessuno si chiede mai perché. Non voglio entrare troppo in questo ambito, ma di fatto il portafoglio dell’Italia siamo noi e chi sta nel Palazzo sta chiudendo questo portafoglio, per rappezzare sistematicamente dei buchi di bilancio. Stanno facendo morire il nostro tessuto economico per mettere una pezza a danni creati da loro, ma la coperta è corta. Da qui nasce l’idea di dire, sinceramente, non ci sto, non ci sto. Non credo alle fandonie che si raccontano da due anni a questa parte, che la crisi non è una crisi eccetera. Questa non è una crisi ma un cambiamento di mercato, non è una cosa che si risolve nel medio periodo, per cui si parla di almeno 10-15 anni. se pensano che aziende come la mia possano sopravvivere 10-15 anni con la prospettiva comunque di alzare la tassazione si sbagliano.

Perché?
Faccio un esempio. La moratoria dei debiti delle Pmi è stata sventolata come la panacea di tutti i mali e si è risolta in un anno di interessi non dovuti alle banche che, d’altra parte, hanno già guadagnato; la moratoria è scaduta e ora ci ritroviamo a dover pagare le rate intere in una situazione economica invariata se non peggiorata e in più scopriamo che dobbiamo pagare le imposte di registro anticipate al 31 marzo. Che significa? Che di fronte alla prospettiva di un fallimento di massa lo Stato vuole fare cassa fin che può. Non c’è più logica in quello che si sta facendo. Se uno ha memoria, questi sono gli stessi passi che sono stati fatti in Argentina: salviamo le assicurazioni, salviamo le banche, le aziende morivano e c’è stato il crac. Bisogna capire quando questo crac arriverà: secondo me il Paese non ce la fa a reggere fino alla fine del 2011.