India, il prossimo obiettivo dell’export Made in Italy

Tra i Paesi BRIC, a sorpresa quello dalle maggiori potenzialità, anche a livello di export, si sta rivelando l’India, che, quindi, potrebbe rappresentare una risorsa fondamentale per le piccole e medie imprese italiane.

Più della Cina, infatti, l’India sta diventando una potenza a livello globale nel settore manifatturiero, e questo potrebbe dare vita a sinergie con le imprese italiane del comparto con opportunità di business impensabili fino a poco tempo fa.

Per aiutare le PMI a non farsi trovare impreparate, da SACE, SIMEST e ICE arriva la nuova guida all’obiettivo India dedicata alle imprese.

Tra i settori del Made in Italy che potenzialmente possono sfruttare maggiormente le opportunità offerte dall’India, SACE cita: automotive, infrastrutture e costruzioni, energie rinnovabili, meccanica strumentale, ICT e Farmaceutica.

Ciò è possibile grazie ai notevoli passi avanti compiti dall’India, che ha fatto crescere il PIL del 4,5% all’anno, con un ritmo di sviluppo dell’economia del 7%, superiore a quello della Cina, una classe media di 200 milioni di persone, circa il 15% della popolazione pari a 1,3 miliardi di abitanti e un Governo che punta proprio a far emergere la cosiddetta neo middle class, che conta ulteriori 380 milioni di individui.

Il Paese offre inoltre un’ampia e giovane forza lavoro a basso costo, poiché non ancora adeguatamente specializzata, che lo pone in una posizione di vantaggio competitivo rispetto ad altre nazioni vicine, come Vietnam, Indonesia e Cina.

Ovviamente, trattandosi di un Paese ancora in via di sviluppo, l’India presenta delle criticità che vanno assolutamente studiate, per studiare strategie su misura, come la distribuzione del reddito per nulla uniforme a livello territoriale e di fasce economiche, le infrastrutture che presentano ancora diverse carenze che provocano inefficienze all’economia del Paese, un apparato pubblico e privato ancora caratterizzato da lentezze e inefficienze, una crescita economica resa difficile da un debito pubblico in aumento e dai crescenti livelli di crediti deteriorati presenti nei bilanci delle banche, oltre ovviamente alle misure protezionistiche introdotte con lo scopo di favorire le produzioni locali.

Per poter essere aggiornati su tutti questi aspetti, c’è a disposizione delle imprese la guida ICE,SACE e SIMEST, che può essere richiesta direttamente sul sito SACE.

Vera MORETTI

Moda italiana e Bric, Russia e Cina non sono morte

Nonostante una congiuntura che negli ultimi anni ha fortemente indebolito i cosiddetti Paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina), per diverso tempo le motrici dell’economia mondiale, su alcuni di questi continua a scommettere la moda italiana per sostenere il proprio export.

Il Brasile vive ormai da tempo una profonda recessione, l’India si barcamena ma tutto sommato è la realtà con ancora i migliori margini di crescita, la Cina ha rallentato pericolosamente la propria crescita e, con la svalutazione dello Yuan, ha messo in crisi i mercati mondiali, la Russia è fiaccata dalla sanzioni economiche internazionali a seguito della crisi con l’Ucraina. Ma la moda italiana continua a credere specialmente in Russia e Cina.

Secondo le previsioni di Prometeia e del Centro Studi di Confindustria, presentate nei giorni scorsi durante il lancio del progetto Esportare la Dolce Vita, l’export della moda italiana crescerà del 37,4% nei Paesi emergenti da qui al 2020, ma il 2016 sarà l’anno della Russia, dopo il periodo duro delle sanzioni.

In particolare, il made in Italy e la moda italiana dovrebbero tornare a crescere a Mosca a partire dal prossimo anno, sostenuti dal Progetto speciale Russia ideato da Ice, Smi (Sistema Moda Italia) e ministero dello Sviluppo economico e la crescita dovrebbe proseguire anche nel 2016.

Secondo Prometeia e Confindustria, la ripresa in Russia dovrebbe essere sostenuta dai prodotti di fascia medio-alta della moda italiana, che entro il 2020 dovrebbero portare l’export a un +26,7%, per un controvalore di 1,3 miliardi di euro. Numeri da sogno se rapportati al -13% registrato nel 2014 e al -30% del primo semestre 2015.

Sarà invece la Cina in prima persona a venire da noi e a proporre la vendita dei prodotti della moda italiana di fascia medio-alta, semplificando le operazioni di vendita e azzerando i rischi per le aziende italiane. Lo farà con una iniziativa del colosso cinese della distribuzione IFF, che sarà presentata a Milano alle aziende italiane interessate il 6 e 7 ottobre.

Il progetto in questione prevede che i prodotti della moda italiana siano esposti in 8 nuovi Fashion Center posti nelle più note strade commerciali delle città di Pechino, Shanghai, Shenzhen, Changsha, Hangzhou, Wuhan, Shengyang e Xiamen, nei quali 300 distributori cinesi selezionati da IFF esporranno i prodotti italiani per venderli sia al dettaglio sia all’ingrosso. I centri di IFF si attiveranno anche come centrali di acquisto online, utilizzando una piattaforma di eCommerce.

L’arrivo di IFF in Italia a ottobre è mirato a selezionare circa 200 aziende della moda italiana operanti nel segmento dell’abbigliamento e degli accessori, con l’obiettivo di acquistarne i prodotti della collezione autunno/inverno 2016/17. Le aziende interessate possono accreditarsi agli incontri compilando il modulo sul sito di IFF oppure inviando una e-mail a info@retaily.it, per avere anche maggiori informazioni sulla formula di affiliazione adottata.

Gli stranieri tornano ad investire nel Made in Italy

Il Made in Italy sta ricominciando ad essere appetibile agli investitori internazionali.
Dopo un periodo nero, con gli investimenti ridotti all’osso, che aveva determinato, tra il 2007 e il 2013, un crollo del 58%, il 2014 ha finalmente registrato una ripresa, con un’impennata di acquisizioni di imprese italiane per un controvalore di 20 miliardi di euro.

Questi dati sono stati resi noti dal rapporto Italia Multinazionale dell’agenzia Ice, in cui, comunque, si evidenzia ancora un gap da recuperare con gli altri paesi europei.
Se, infatti, il rapporto tra investimenti esteri e Pil del nostro Paese è di circa il 20%, meno della metà rispetto alla media Ue, che è assestata al 49%.

Ma secondo Riccardo Monti, il presidente dell’Ice, questi segnali di ripresa rappresentano una rinnovata fiducia nei confronti dell’Italia.

Le premesse ci sono, e sembrano molto chiare: il 2015 è iniziato con l’acquisizione di Pirelli da parte di ChemChina, una maxi opa da 7,5 miliardi di euro, e quella del progetto urbanistico di Milano Porta Nuova, 2 miliardi di valore ora in mano al fondo del Qatar.

Ma, se questi sono investitori orientali, la maggior parte di coloro che sono interessati al Made in Italy provengono da Nord America ed Europa, circa l’85% del totale.
Ma potrebbe trattarsi di una percentuale destinata a scendere, in favore proprio dei Paesi emergenti, come Cina, India, Russia e altri Paesi asiatici, i cui investimenti sono cresciuti del 255% dal 2000 a oggi, contro il +17,5% di Usa e Ue.

Lo stesso trend si nota negli investimenti in Borsa: in 20 società nazionali quotate, è presente almeno un investitore rilevante, con più del 20% delle azioni, che arriva da Paesi Arabi, Cina e Russia.

Altri esempi illustri sono Dainese, lo storico brand di abbigliamento per motociclismo ceduto al fondo d’investimento del Bahrain Investcorp, e la casa di moda vicentina Pal Zileri venduta al fondo del Qatar Mayhoola for Investment.

A farla da padrone, comunque, rimane il settore della manifattura, che è interessato da un terzo degli investimenti. Alcuni pezzi importanti dell’industria tricolore sono, infatti, finiti in mani esperi, come la società di compressori per elettrodomestici Acc di Belluno, passata sotto il controllo dei cinesi di Wanbao Group; Mangiarotti SpA, produttore di componenti per l’industria nucleare, petrolio e gas con sede a Pannellia di Sedegliano (Udine) e stabilimento a Monfalcone, finita nel perimetro degli americani di Westinghouse.

L’interesse degli investitori, inoltre, è sempre più pressante nei confronti di Generali, dove Blackrock, colosso americano del risparmio gestito, ha in mano il 2,61% del capitale, e People Bank of China possiede il 2,2%.

C’è da dire, a onor del vero, che le imprese italiane non fanno esclusivamente la parte delle prede, poiché il saldo entrate-uscite è ancora favorevole al Made in Italy. Sono 11.325 le imprese italiane con partecipazioni all’estero per 1,537 milioni i dipendenti e un fatturato di 565,3 miliardi di euro.
Nel 2013 i maggiori gruppi manifatturieri italiani con organizzazione multinazionale hanno prodotto il 67% dei loro beni all’estero e solo il 9% del fatturato è realizzato in Italia contro il 91% all’estero.

Vera MORETTI

Negri Bossi diventa americana

Un altro marchio storico che rappresenta l’Italia è passato in mani americane.
Questa volta, però, non si tratta di griffe di moda ma di Negri Bossi, l’azienda di presse a iniezione che vale 100 milioni di euro e si avvale della collaborazione di 400 dipendenti, appartenente alla bolognese Sacmi.

Il colosso operativo meccanico con sede a Imola, e che comprende anche Bi-Power e Roboline Sytrama, ha ufficializzato la cessione alla Kingsbury, multinazionale di Rochester con più di 120 anni di storia nonchè player globale da mezzo miliardo di turnover nei settori automotive, aerospaziale e componentistica elettronica diventato famoso per il salvataggio di Kodak.

Si tratta di un’operazione da 50 milioni di euro che permette a Sacmi di tornare a concentrarsi sulle attività core delle macchine per ceramica e del packaging e, dall’altro lato, a Kingsbury di sfruttare le sinergie produttive per potenziare internazionalizzazione e occupazione delle divisioni italiane.

Su tutte il gioiello di famiglia Negri Bossi di Cologno Monzese ai vertici europei nella progettazione di presse per lo stampaggio a iniezione di materie termoplastiche, che Sacmi ha acquistato un decennio fa, e riportato in utile negli ultimi due anni con un investimento a otto zeri.
Poi Bi-Power di Imola, ramo Sacmi specializzato in presse di grandi dimensioni per l’industria automobilistica europea, fornitore tra gli altri del gruppo Fiat Chrysler.
Infine la Roboline-Sytrama di Vignate, attiva nelle soluzioni robotizzate per il settore plastica.

Nel passaggio di quote sono coinvolte anche le controllate Negri Bossi in Spagna, Francia, Inghilterra, India, Canada e appunto Usa, che portano il volume d’affari complessivo a quota 250 milioni di euro. “Con la prospettiva di un notevole rafforzamento grazie alla capillare presenza di Kingsbury nei mercati anglosassoni, che dovrebbero garantire non solo il mantenimento bensì anche la crescita degli stabilimenti italiani“ , come ha confermato l’ad di Sacmi, Pietro Cassani, che ora fa parte del nuovo Cda di Rochester.

Cassani ha voluto specificare che Sacmi potrà, grazie alla cessione, di ottenere liquidità con cui finalizzare a breve nuove acquisizioni nelle macchine per ceramica e per il confezionamento alimentare. In questo modo, dunque, ripartiranno gli investimenti non solo all‘estero, ma anche da parte dei clienti italiani, con un occhio di riguardo per i produttori di piastrelle.

L’Emilia Romagna è entrata nel mirino degli investitori italiani e l’operazione voluta da Kingsbury è solo l’ultima, anche se non lo sarà per molto, considerando che la regione è terza in Italia per presenza di investimenti Usa, come ha confermato anche Gianluca Settepani, neorappresentante dell’American Chamber of commerce per l’Emilia-Romagna.

Vera MORETTI

Il cibo Made in Italy conquista Mumbai

Il cibo italiano è sempre più amato, anche negli angoli del mondo che fino a poco tempo fa sembravano inespugnabili, perché dalle culture completamente diverse dalla nostra.

In questo caso, il food Made in Italy ha saputo conquistare l’India, grazie alla nuova edizione di Food Hospitality World, la mostra professionale che mette a frutto l’esperienza acquisita da Fiera Milano con Tuttofood, dedicata all’agroalimentare e Host, dedicata all’ospitalità professionale.

Il FHW è sbarcato a Mumbai per la terza volta dal 23 al 26 gennaio, ed ha fatto bella mostra di sé con ben 5.000 metri quadrati di spazio espositivo e una forte rappresentanza italiana, che comprendeva alcuni dei marchi simbolo della gastronomia del Belpaese.

Tra le oltre 60 aziende e i 115 marchi presentati, c’erano anche Barilla, Divella, Garofalo, Rustichella, Balocco, Pastificio di Martino, ospiti dello spazio curato da Aidepi (Associazione dell’industria del dolce e della pasta Italiane) e Ita (Italian trade promotion agency), dove 18 espositori diretti hanno animato le giornate espositive con degustazione di prodotti tipici che spaziavano dalla pasta al vino al gelato, senza disdegnare i prodotti da forno e il caffè.

Le regioni chiamate a partecipare a FHW Mumbai sono state Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte, riunite nel Progetto interregionale del ministero dello Sviluppo Economico e Ita, e Calabria.

Paolo Borgio ha commentato così l’evento: “FHW India è ormai un punto di riferimento nel calendario delle mostre estere di Fiera Milano. La manifestazione è cresciuta molto e stiamo raccogliendo sempre più consensi su un mercato in continuo fermento. La popolazione indiana spende in media il 57% del reddito familiare in acquisti legati al food e all’ospitalità ed è oggi più propensa al consumo di prodotti alimentari stranieri. Con queste premesse siamo convinti della bontà del nostro evento che, con la sua terza edizione a Mumbai, è pronto alla definitiva consacrazione. Abbiamo scelto Mumbai perché è la capitale finanziaria dell’India, ma non solo. Mumbai infatti vanta la più alta capacità d’importazione di alimenti e bevande di tutto il Paese”.

Vera MORETTI

Parte da Milano l’aereo del lusso

Il lusso Made in Italy piace sempre di più all’estero.
Sono molti, infatti, i marchi italiani che aprono store e showroom all’altro capo del mondo e, nella maggior parte dei casi, si tratta di successi annunciati.

Per far conoscere ancora meglio i prodotti del Belpaese, è nato un progetto che farà volare, letteralmente, il Made in italy nelle principali piazze del lusso a livello mondiale.
Alcune delle principali realtà del lusso nostrano, infatti, decolleranno a bordo di un aereo appositamente allestito, e prenderanno parte ad un tour che, in 45 giorni, le porterà a toccare il suolo di paesi come Dubai, Abu Dhabi, Qatar, Oman, Russia, Cina, Corea, Hong Kong, Giappone, India, Brasile e Stati Uniti

Il progetto si chiama Italian Luxury in the World (ILW) ed è stato ideato da Andrea Radic e Daniele Biagi, concepito come “una nuova forma di promozione delle nostre eccellenze nel mondo”, per usare le parole dello stesso Radic, promotore dell’iniziativa.

Saranno ben 100 le aziende italiane che saliranno a bordo di questo specialissimo aereo, appartenenti ai settori più disparati, dalla moda al cibo, senza disdegnare il design. I primi ad aver sposato l’iniziativa, finanziata esclusivamente da privati, sono stati lo studio legale internazionale Baker & McKanzie e il fondo di investimenti milanese Scm (Solutions capital management.

Tra i brand del lusso che hanno già detto sì, ci sono il gruppo di distillati Nonino, l’argentiere Ganci e lo studio internazionale di architettura Karim Azzab, anche se l’iniziativa ha incuriosito molti, a cominciare da Mario Boselli, presidente della Camera di Commercio della Moda, fino ai vertici di Federlegno Arredo e di Confindustria.

Anche Giuliano Pisapia ha mostrato il suo assenso al progetto, poiché considera ILW “una bellissima iniziativa, che permetterà di portare nel mondo, oltre che un messaggio di innovazione, anche quello che Milano ha da offrire, per attirare investimenti in Italia in un momento in cui ce n’è un gran bisogno”.

Vera MORETTI

Il legno pregiato come investimento alternativo

Salvaguardare il patrimonio in tempi di crisi non è un’impresa facile. In particolare vorrei attirare l’attenzione su quello che potrebbe accadere se le valute dovessero perdere di valore, un po’ quello che è accaduto in Germania durante la Repubblica di Weimar, quando la carta moneta valeva così poco che si pesava anziché contare le banconote. 

Nel 1923 un litro di latte è arrivato a costare 26 miliardi di marchi!

La ricetta che gli Stati Uniti stanno proponendo nel 2013 sembra simile: per rimanere competitivi, aumentiamo la quantità di moneta in circolazione, causando svalutazione e inflazione, così riduciamo anche gli indebitamenti.

Se beni e servizi non crescono in egual misura, ecco che la moneta perde il suo potere d’acquisto, cioè il valore.

L’indebitamento degli Usa verso l’estero è così forte che la manovra inflattiva indurrà anche gli altri Paesi ad usare la stessa medicina. Se questo accadrà, come si può proteggere il valore reale del patrimonio? Acquisendo beni reali, che incrementino il loro valore e lo mantengano, indipendentemente da quanto accade all’economia mondiale.

Un ben reale di cui ho già parlato, e di cui parlano in molti, è l’oro. Un altro bene reale, di cui non parla mai nessuno, è il legno pregiato, cioè il legno usato per arredamento o costruzioni. Tutto il legno usato nel mondo ormai deve provenire da foreste coltivate, non è più possibile tagliare le foreste naturali. Quindi si andrà verso una risorsa scarsa. Per alcuni tipi di legnami, ad esempio il teak, c’è una forte richiesta da parte dei mercati asiatici, che lo utilizzano per la costruzione di case e ponti. Siccome i mercati asiatici sono in forte espansione, questo porta alla considerazione che “domanda in aumento + risorsa scarsa = aumento dei prezzi”.

Certo, bisogna coltivare il legno in zone del mondo non ancora sviluppate e con condizioni geo climatiche ideali, il legno hai tempi di crescita abbastanza lunghi e bisogna aspettare parecchio se si vogliono ottenere le dimensioni più redditizie del tronco. Ma ha anche il vantaggio che più si aspetta, più cresce e più valore si ottiene. E se al momento del taglio ci sono problemi sociali o politici, si può aspettare, intanto continua a crescere e non va a male. E’ un investimento sostenibile, ecologico, reale.

Questo tipo di investimento alternativo è da tempo utilizzato da moltissimi investitori istituzionali all’estero (fondi comuni, fondazioni, istituti religiosi, banche, family office, in Germania, Belgio, Svizzera, USA). In Italia è pressoché sconosciuto.

Sarà cura del vostro consulente patrimoniale stabilire quanta parte del vostro patrimonio è corretto investire in questo modo e soprattutto se rispecchia i vostri obiettivi di vita e il piano finanziario che avete concordato. Ma vale la pena rifletterci.

dott. Marco Degiorgis – Consulente indipendente per la gestione dei patrimoni familiari, Studio Degiorgis

Se gli stranieri preferiscono gli spaghetti

 

Battuta d’arresto come non se ne vedevano dal 2009 per l’export italiano: secondo quanto diffuso dall’indagine Istat a settembre 2012 le esportazioni sarebbero calate del 2% rispetto ad agosto 2012 e del 4,2% su base annua. Ma a far risalire la china della crisi delle esportazioni ci pensa la buona cucina rigorosamente made in Italy: il settore dell’agroalimentare infatti avrebbe registrato, secondo Coldiretti, un aumento nelle esportazioni pari all’1,2%.

Ma vediamo nel dettaglio: la crisi dell’export si è fatta sentire sia per quanto riguarda i mercati di sbocco europei (-2,1%) sia per i mercati extra Ue (-2%). In calo sono state soprattutto le vendite di beni strumentali (-4,5%) e di prodotti energetici (-2,3%), mentre i beni di consumo durevoli hanno segnato un aumento dell’1,0%.

Rispetto a settembre 2011, la flessione delle vendite risulta accentuata per Cina (-18,8%), paesi Mercosur (-13,7), Romania (-13,6%), Spagna (-12,8%) e Germania (-10,3%), mentre aumentano i flussi verso Stati Uniti (+19,4%) e paesi ASEAN (+22,9%).

Un segnale di controtendenza, che fa ben sperare, viene invece dal settore dell’agroalimentare italiano: secondo un’analisi Coldiretti su base Istat, a settembre 2012 si è registrato un aumento nelle esportazioni pari all’1,2% per un valore totale di 2,731 miliardi.

La crescita dell’agroalimentare è dovuta ad un aumento del 5,4 % delle spedizioni di prodotti agricoli e dell`1,1 % di quelle degli alimentari e delle bevande – sottolinea Coldiretti. –  Ad aumentare sono state le esportazioni in valore dei prodotti simbolo della dieta mediterranea Made in Italy come la pasta, il vino e le conserve di pomodoro”. E se l’auspicio è quello di cavalcare il trend più che positivo del cibo made in Italy, “il valore dell`export agroalimentare è destinato a far segnare a fine anno il nuovo record con un valore delle spedizioni superiore ai 30 miliardi di euro fatti registrare lo scorso anno – stima Coldiretti. – Un risultato importante poiché l’agroalimentare svolge in realtà un effetto traino per l`intero Made in Italy all’estero dove il buon cibo italiano contribuisce in misura determinante a valorizzare l`immagine dell’Italia all’estero“.

Sul fronte importazioni, i dati registrati da Istat non sono invece per nulla positivi: la battuta d’arresto ha riguardato anche il settore import, gli acquisti sono calati del 4,2% a livello congiunturale e del 10,6% su base annua.

Segnali di forte flessione si rilevano per gli acquisti da Giappone (-35,0%), India (-30,9%) e paesi EDA (-26,0%), mentre sono in forte crescita gli acquisti dai paesi OPEC (+18,0%) e Russia (+16,7%). Gli acquisti di autoveicoli (-44,9%) sono in netta flessione.

 

Alessia CASIRAGHI

La filiera fa la forza del Made in Italy

di Alessia CASIRAGHI

Ai nastri partenza della Settimana della Moda milanese, che debutta quest’oggi, Infoiva ha chiesto a Michele Tronconi, Presidente di Sistema Moda Italia quale sia il segreto del successo di un settore, come quello della moda italiana e dell’abbigliamento, apprezzato e invidiato in tutto il mondo. Tante piccole aziende, che se da un lato rappresentano un omaggio alla tradizione e all’artigianalità, dall’altro sono la vera forza intrinseca dei capi che vediamo rinnovarsi di anno in anno sulle passerelle di tutto il mondo.

Oggi debutta la Milano Fashion Week: i capi che vedremo in passerella e che faranno il giro del mondo sono però sola la punta dell’iceberg di un’industria, quella della moda, che in Italia è fatta non solo di grandi maison ma da tantissimi piccoli imprenditori, artigiani e artisti. E’ questo il segreto del suo successo?
Il suo segreto è racchiuso nel fatto di essere ancora una filiera: in Italia sono presenti tutte le componenti che concorrono alla realizzazione di un prodotto finito. Un prodotto che ha elevate componenti simboliche e di gusto, caratterizzato da una continua innovazione, in linea con il cambio delle stagioni, che portano al cambiamento del guardaroba. Ma per arrivare al prodotto finito, celebrato attraverso liturgie particolari come le sfilate, il punto di partenza è sempre la materia prima. Il nostro settore, quello della moda e del tessile, ha vinto sulla saturazione della domanda, che caratterizza tutti i settori economici maturi, grazie all’innovazione di prodotto e grazie alla moda stessa, che è una costruzione sociale che richiede continua propositività e che spinge il consumatore a desiderare il prodotto nuovo, anche se il suo armadio è già pieno. Il nostro è un settore che si è specializzato per rispondere alle esigenze che si susseguono di stagione in stagione: non è un caso che nella filiera del tessile e dell’abbigliamento continuino a esistere piccole imprese specializzate, è da loro che deriva la forza complessiva del settore. Una forza che si basa però allo stesso tempo sulla fragilità di ogni singolo elemento, fragilità che deriva dal fatto di non essere mai importante né per i propri clienti né per i propri fornitori. Esiste un ciclo di vita delle aziende incessante, è l’altra faccia della medaglia, le sfilate sono la punta dell’iceberg di questa fragilità strutturale.

Il bilancio del primo semestre del 2012 parla di un calo generalizzato del settore del tessile in Italia. Quali sono le maggiori difficoltà cui si trovano a far fronte gli imprenditori della moda?
La fragilità odierna non è settoriale ma endemica e dovuta a una crisi di carattere macroeconomico: dalla cattiva finanza americana sui debiti sovrani alla debolezza dell’Euro, una crisi che atterra sull’economica reale, generando crisi di domanda e crisi di consumi. Il calo di fatturati del nostro settore si spiega in un orizzonte più ampio. La domanda interna si è fortemente ridotta, la pressione fiscale si è fatta sentire fin dall’ingresso dell’Euro, ma adesso si avverte in misura maggiore anche in tante imposte indirette: il caso più eclatante è quello della benzina. L’aumento del costo di un bene riduce la possibilità di spesa su altri beni. Il forte calo dei consumi colpisce anche il tessile abbigliamento perchè ha come conseguenza diretta una riduzione e una frammentazione dei volumi produttivi, sia sull’artigianato che sull’industria, con la conseguenza che le imprese non riescono sempre a coprire i costi produttivi. Un altro problema riguarda la contrazione del credito, non solo delle banche, ma anche tra gli imprenditori: il rispetto delle scadenze nei pagamenti fra aziende e fornitori diventa sempre più difficile. Quello che fa un po’ specie è vedere come anche le aziende di grandi dimensioni, che dovrebbero avere le spalle più coperte, non sempre comprendano la necessità e l’importanza di sostenere le realtà più piccole e con esse la filiera stessa, allineando le condizioni di pagamento alle condizioni europee. Da ultimo si aggiunge il problema dell’aumento dei costi di produzione, indotto dalla fiscalità crescente e dall’ incremento del costo dell’energia, che penalizza la filiera italiana e dilata ulteriormente il differenziale negativo dell’industria italiana su i competitor più lontani, come Cina e Turchia, ma anche quelli più vicini come Germania e Francia. Se si produce di meno, viene da sè che si contrae anche la nostra capacità esportativa.

Quali sono attualmente i Paesi dove si esporta maggiormente?
Le nostre esportazioni continua a crescere in Cina, anche se rappresentano ancora una piccola fetta rispetto al valore che importiamo: la Cina è il nostro principale fornitore sia di tessile che di abbigliamento, ed è solo il nostro 12mo cliente, anche se sta salendo in graduatoria con un ritmo molto sostenuto dall’inizio del 2012. In Cina esportiamo più tessile che abbigliamento: il tessile ha registrato quest’anno una crescita del 20-22% rispetto allo stesso periodo del 2011, mentre le importazioni dalla Cina sono diminuite della stessa percentuale nel medesimo periodo. Poi c’è la Russia, seguita da Paesi molti interessanti come il Brasile e l’America Latina stessa, dove però è più facile esportare quando si ha un brand molto noto, meno facile invece quando si tratta di middle brand, perché occorre superare lo scoglio di dazi molto elevati: in Brasile parliamo di una media del 35% per capi di abbigliamento.

I mercati BRIC continuano a rappresentare un’ancora di salvezza per l’export e il fatturato del tessile italiano?
Oltre al già citato Brasile, un mercato molto interessante è quello dell’India, anche se la moda italiana fa ancora fatica a penetrare per una questione prettamente culturale: paradossalmente in India si esporta più facilmente la calzatura italiana che non l’abbigliamento. L’export italiano non guarda soltanto ai Bric ma anche i Next Eleven – Bangladesh, Egitto, Indonesia, Iran, Messico, Nigeria, Pakistan, Filippine, Turchia, Corea del Sud e Vietnam – che stanno crescendo a ritmo sostenuto. Fra i Paesi dell’America Latina, grande attenzione è posta sul Messico, un Paese che nonostante venga spesso ritratto dai media come caratterizzato da un alto taso di criminalità è interessato da un fortissimo sviluppo economico, e ancora il Cile e l’Argentina. Tutti Paesi che crescono ad una velocità raddoppiata rispetto alla vecchia Europa.

I buyers stranieri sono indirizzati per lo più verso produzioni di altissimo livello o ad attirare l’attenzione è anche la produzione di medio livello?
I nostri sono prodotti desiderabili sia per chi ha un alto tenore di vita, quindi rivolti al comparto lusso, sia per la classe media, che in Paesi come quelli prima citati cresce a ritmo sostenuto, e desidera avere un prodotto che evochi il sogno, che sia di buona qualità, continuamente innovato, perché gli aspetti simbolici sono quelli a cui si fa più attenzione nel momento in cui si esce da situazioni di precarietà e povertà.

Come si difende l’industria del tessile made in Italy dalla concorrenza, non solo a livello economico ma anche di filiera produttiva, dei Paesi asiatici?
Occorre cambiare la prospettiva: quando noi 10 anni fa ragionavamo di sostegno della nostra filiera, la questione principale riguardava la protezione della produzione italiana. Oggi le cose sono cambiate, oggi siamo chiamati a sostenere le nostre esportazioni in quei Paesi che 10 anni fa erano i nostri principali acquirenti. La Cina ne è l’esempio più lampante: da Fabbrica del mondo si è trasformata in grande mercato del mondo, e paradossalmente, per sostenere la nostra filiera oggi occorre creare prodotti che siano esportabili e vendibili in quei Paesi. Una cosa è rimasta costante nel tempo: la necessità di strumenti di trasparenza, l’indicazione di origine dei prodotti è importante sempre e ovunque. La Cina compra da noi solo quando il prodotto è autenticamente made in Italy; oggi dobbiamo pretendere che anche gli altri Paesi rispettino la piena reciprocità e trasparenza.

Secondo lei, quali soluzioni alternative potrebbe /dovrebbe adottare il Governo per salvaguardare un settore tradizionale e fondamentale dell’industria italiana, quasi identitario, come quello del tessile?
Per esportare di più occorre risolvere i problemi a casa nostra. All’Italia manca quella capacità a fare squadra, i problemi che stanno venendo a galla sono più grossi, e non riguardano solo il tessile e abbigliamento, ma visto che questo settore rappresenta ancora, per fortuna, un’industria di filiera, una maggior attenzione da parte dei grandi poteri andrebbe prestata. Occorrono interventi che agiscano sul conto economico delle imprese: prima di tutto ridurre il costo dell’energia, che è stratosferico ed è un problema solo italiano. Occorre poi ridurre la fiscalità sulle imprese, primo fra tutti il problema dell’Irap che penalizza tutte quelle aziende che presentano una forte incidenza della manodopera. La principale riforma di cui ha bisogno l’Italia in questo momento è fiscale: nell’attività produttiva a livello industriale non si assiste ad uno spostamento verso il sommerso, ma ad un annullamento dell’attività produttiva. Si tratta però di interventi che riguardano unicamente il Governo, non le parti sociali o gli imprenditori. Quando si ha a che fare con una filiera, come la nostra, composta per lo più da piccole realtà imprenditoriali, non ci si può aspettare che i piccoli risolvano i problemi dei grandi.

Ai BRICST piace la ceramica italiana

In tempi di crisi, rivolgersi ai mercati esteri può essere la giusta soluzione. Non fa eccezione la ceramica italiana, che ha registrato vendite in grande crescita in India e Brasile.

Per monitorare l’andamento di questi due mercati, Confindustria Ceramica ha organizzato un meeting a Sassuolo, avvenuto il 24 luglio, durante il quale sono state presentate due indagini conoscitive e di marketing, commissionate per l’India allo Studio Octagona e per il Brasile allo Studio Roncucci & Partners.

Si tratta di due ricerche finanziate da Cersaie Business, una convenzione stipulata dall’Associazione con la Regione Emilia-Romagna e mirano a valutare nuove possibilità di sbocchi commerciali e modalità operative per le aziende ceramiche su questi importanti mercati in fase di grande sviluppo economico.
Anche se, in realtà, gli osservati speciali sono tutti i paesi BRICST (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica e Turchia), come ha sottolineato Ruben Sacerdoti, Responsabile del Servizio Sportello regionale per l’Internazionalizzazione delle Imprese della Regione Emilia-Romagna, partner dell’iniziativa.

A presentare la ricerca riguardante l’India è stato Enrico Perego di Octagona, il quale ha illustrato la struttura del mercato edilizio indiano, soffermandosi poi sui principali produttori ceramici locali. Altri aspetti esaminati dall’indagine sono stati i principali distributori nell’industria indiana della ceramica, i cluster produttivi, le fasce di prezzo, i principali importatori e fiere di settore.

La seconda parte della ricerca, relativa al Brasile, è stata illustrata da Andrea Ligabue, Consigliere dell’Associazione, il quale ha spiegato come, nel giro di soli sei anni, la produzione brasiliana sia arrivata, partendo da 594 milioni di mq, a ben 844 milioni. Le esportazioni di ceramica italiana erano pari a 1 milione di dollari nel 2006 e sono diventate 4 milioni di dollari nel 2011. La quota degli italiani sull’import totale era dello 0,6% nel 2006 ed è arrivata all’1,7% nel 2011.

Giovanni Roncucci, infine, della Roncucci & Partners ha illustrato le evidenze della ricerca effettuata sul mercato brasiliano, nella quale ampio risalto viene dato al mercato delle piastrelle di ceramica, sia del punto di vista dei consumi che delle strategie di marketing.
Nell’indagine si illustrano le strategie di penetrazione nel mercato brasiliano e la potenziale evoluzione del consumo di ceramica nel paese sudamericano.

Vera MORETTI