Le imprese edili fuggono all’estero

Anche le imprese di costruzioni si dirigono sempre di più all’estero.
Se, infatti, la crisi ha colpito duramente l’edilizia, le aziende del settore hanno pensato bene di difendersi facendo affari fuori dai confini nazionali dove, a quanto pare, le possibilità di lavorare sono molteplici.

A dimostrare questa “fuga” ci sono i dati: il fatturato realizzato all’estero, è triplicato in soli 8 anni, passando da 2,955 miliardi è passato a oltre 8,7.

Questo ed altro è contenuto nel Rapporto 2013 presentato dal presidente dell’Associazione nazionale dei costruttori edili, Paolo Buzzetti, il quale ha dichiarato: “Sono risultati incredibili anche perchè in Italia va molto male e ci stanno portando a mantenere molte aziende che sul solo terreno interno non sopravvivrebbero“.

L’industria edile italiana è presente in circa 90 paesi, ed ha registrato una crescita del fatturato dell’11,4% nel 2012 e 12 mld di nuove commesse all’estero.
Il mercato interno, invece, è ridotto al lumicino, con un giro d’affari del 4,2%.

Ha spiegato Buzzetti: “Nel 2012 è stata registrata una crescita del fatturato dell’11,4 per cento e ciò è dovuto prevalentemente al fatto che oltre il 50 per cento delle grandi aziende italiane sono orientate verso i mercati esteri“.

Le buone notizie riguardano il sistema Italia che dimostra di funzionare e di essere molto apprezzato in terra straniera, dove, inoltre, è aumentata la presenza di piccole e medie imprese del settore, soprattutto nei paesi emergenti del Nord Africa.
Sono 88 i Paesi dove nel 2012 hanno lavorato le aziende di costruzione italiane, 9 dei quali del tutto nuovi: Cipro, Irlanda, Camerun, Costa d’Avorio, Guinea, Malawi, Canada, Thailandia e Zambia.

Analizzando i primi 10 mercati in cui sono localizzate le nuove commesse, 4 appartengono all’area Ocse (Stati Uniti, Grecia, Cile e Messico) e un altro fa parte dei Bric (Russia).
Il rapporto di collaborazione tra l’Ance e il ministero degli Esteri italiano ha reso possibile raggiungere 25 paesi con missioni imprenditoriali di grande successo e che continuerà ad intensificarsi nel prossimo anno.
Ed è già ben chiaro quali sono i mercati su cui si punterà nel 2014: quelli dell’area Asean, Medio Oriente, Africa sub-sahariana, Nord America e Asia centrale.

Vera MORETTI

L’Italia maglia nera delle tasse

E’ stato reso noto il report annuale redatto da , che analizza le norme fiscali di 185 paesi del mondo e l‘Italia ne esce davvero malconcia.

Romania a parte, il Belpaese è la nazione europea dove il carico fiscale è il peggiore. Facendo una somma tra tasse sugli utili (22,9%)e sul lavoro (43,4%), infatti, va allo Stato ben il 68,3% dei profitti, contro una media europea che arriva al 42,6%.
Gli indicatori con i quali è stata fatta questa classifica, che ha piazzato l’Italia al 133esimo posto, comprendono non solo gli adempimenti fiscali annui, ma anche il tempo speso per portarli a termine.

In base a questi calcoli, l’Irlanda, come lo scorso anno, rimane il paese europeo con la tassazione alle imprese più conveniente, visto che si ferma ad una percentuale di 26,4%, con soli otto adempimenti l’anno. Seguono Danimarca, Lussemburgo, Gran Bretagna, e Olanda.
Nel complesso, le tasse meno elevate si pagano in Lussemburgo (21%) e a Cipro (23%).
Ecco la top ten internazionale: Emirati Arabi, Qatar, Arabia Saudita, Hong Kong, Singapore, Irlanda, bahrein, Canada, Kiribati (Oceania), Oman.

La maglia nera attribuita all’Italia è dovuta soprattutto al numero di pagamenti, che nel corso dell’anno è pari a 15. Ma, se questo dato, preso singolarmente, sarebbe anche positivo, tanto da farci risalire posizioni fino ad arrivare al 59esimo posto, è la burocrazia ad appesantire il meccanismo, visto che per tutti gli adempimenti un’impresa perde mediamente 269 ore l’anno.

L’unico paese europeo in cui le tasse sul lavoro sono più alte che in Italia è il Belgio, al 50,8%, livello però compensato dal 5,4% di imposte sugli utili.

Vera MORETTI

Ceramiche, il made in Italy che incanta l’estero

Le presenze di buyers e compratori stranieri alledizione 2012 di Cersaie ha raggiunto la quota record di oltre 30.000, ovvero il 32% del totale dei visitatori che hanno partecipato alla fiera di riferimento a livello internazionale della ceramica per l’architettura e dell’arredobagno. Numeri che trovano una perfetta corrispondenza nei dati export per il 2012 dell’industria della ceramica in Italia: circa l’80% della produzione made in Italy è destinata infatti a mercati extranazionali.

Ma qual è la geografia dei Paesi compratori delle ceramiche prodotte nei distretti industriali del Modenese e del resto d’Italia? Qual è il segreto delle ceramiche italiane apprezzate in tutto il mondo? Quanto l’export ha permesso una rinascita del settore, messo a durissima prova dalla crisi della domanda interna e dagli sfortunati eventi sismici che hanno messo in ginocchio le aziende del modenese?

Leggi i dati sull’export dell’industria della ceramica italiana

Le ceramiche italiane puntano sull’export

Oltre 2 miliardi di euro di fatturato nel primo semestre del 2012, grazie soprattutto al giro d’affari dell’export. L’industria della ceramica made in Italy reagisce con grinta alla crisi, segnando solo una leggera flessione (-0,56%) rispetto allo stesso periodo del 2011. Il risultato nasconde però luci e ombre su un comparto dell’industria nazionale che resta il principale player del settore ceramiche a livello internazionale (36,8%):  se la domanda del mercato interno, e in parte di quello Ue, ha subito un forte ridimensionamento, a farla da padrone sono i Paesi extra Ue che registrano aumenti a due cifre.

In Italia si produce, guardando ai metri quadrati, il 20,8% della quota mondiale di ceramica,  superata solo dalla Cina che ne produce il 29,5%. Le posizioni si invertono però se si guarda alla quota export: l’Italia è il principale esportatore internazionale con oltre il 36%, seguito dalla Cina, con il 20,1%, e dalla Spagna che si ferma al 14,9%.

Ma come si sono suddivise le fette di mercato interno ed export nella prima parte di 2012? Le vendite domestiche, riferite al territorio nazionale che ricoprono una fetta pari al 21,2% delle vendite totali, si sono fermate nel 2012 a 501 milioni, con una diminuzione del 16,2% rispetto al 2011. Estendendo lo sguardo al mercato Ue, che vale per il 42,4% delle vendite totali del comparto,  la flessione si arresta invece al -1,4%.

Nel dettaglio, il mercato che maggiormente ha risentito della crisi è stato quello greco (-40,9%), ma va specificato che l’export ellenico riguarda una fetta esigua del fatturato totale (1%). Maglia nera anche a Portogallo, Irlanda e Spagna, con flessioni stimate tra il -25 e il -16%. Il rigore imposto dal governo tedesco ha garantito un +9% nelle vendite del comparto ceramica in Germania che, un mercato che rappresenta una quota pari 10,5% delle vendite totali, performance positiva doppiata solo in Europa dall’Austria, che ha segnato +13,6%, ma che dispone di una fetta più esigua nella quota export (2,7%).

Estendendo lo sguardo fuori dal mercato Ue e verso i Paesi Emergenti, il dato che maggiormente colpisce riguarda l’area del Golfo Persico: il Medio Oriente segna un balzo in avanti del +43,7%, seguito a distanza solo dai mercati di Australia e Oceania, che hanno invece registrato nei primi 6 mesi del 2012 una crescita  pari al +20,3%. Ottime performance anche per il continente Africano che ha chiuso con un +16,5%, mentre al secondo posto fra i mercati più interessanti per l’export di ceramiche made in Italy si confermano il Sud America (+18,4%) e gli Usa (+17,8%).  A registrare la crescita più contenuta infine, come era facilmente prevedibile, il mercato del Far East (11,2%), principale produttore di ceramiche nel mondo.

Alessia CASIRAGHI

 

In Italia gli stipendi più bassi d’Europa

Un lavoratore italiano guadagna in media la metà che un dipendente in Germania, Lussemburgo e Olanda. Lo dicono i dati nell’ultimo rapporto diffuso da Eurostat “Labour market Statistics”, prendendo come riferimenti gli stipendi lordi annui del 2009: il Bel Paese si piazza al 12° posto nell’area euro, più in basso di Irlanda, Grecia, Spagna e Cipro.

“In Italia abbiamo salari bassi e un costo del lavoro comparativamente elevato. Bisogna scardinare questa situazione, soprattutto aumentando la produttività” ha commentati il Ministro del Lavoro, Elsa Fornero, che si è detta però fiduciosa sulla possibilità di un’intesa sulla riforma del lavoro e del temuto articolo 18.

Ma veniamo ai dati emersi dall’indagine Eurostat: il valore medio dello stipendio annuo in Italia per un lavoratore di un’azienda dell’industria o dei servizi (ovvero con almeno 10 dipendenti) è pari a 23.406 euro.
In Lussemburgo il medesimo valore medio si attesta a quota 48.914 euro, in Olanda 44.412 euro e in Germania a 41.100 euro. L’Italia è prima solo su il Portogallo (17.129 euro l’anno).

Il rapporto diffuso da Eurostat amplia lo sguardo anche sui dati di crescita delle retribuzioni lorde annue dell’Eurozona: l’avanzamento per l’Italia risulta però tra i più ridotti. Dal 2005 al 2009 il rialzo è stato del 3,3%, molto distante anche dai dati sulla crescita riportati da Spagna ( +29,4%) e Portogallo (+22%).

Una buona notizia per l’Italia, arriva quantomeno dalle differenze di retribuzioni tra uomini e donne, quello che Eurostat chiama “unadjusted gender pay gap”. Ma si tratta solo di un’illusione: l’Italia, con un gap tra uomini e donne attorno al 5% è di gran lunga sotto la media europea, pari invece al 17%, risultando seconda solo alla Slovenia.

In Europa i costi del lavoro sono più elevati

Il tasso di occupazione, e della disoccupazione, di un Paese, non dipende solo dalla discrepanza tra domanda ed offerta, ma anche da una serie di altri fattori e, tra questi, non è da sottovalutare il costo che implica, per un’azienda, assumere un dipendente.

Non si tratta solo di erogare lo stipendio mensile, perché nella busta paga, oltre alla retribuzione netta, appaiono le trattenute fiscali e previdenziali, oltre al Tfr, trattamento di fine rapporto, che il datore di lavoro ha l’obbligo di versare quando la collaborazione si interrompe.

Prima di assumere nuova forza lavoro, quindi, ogni impresa deve prendere in considerazione l’entità dei costi che deve sostenere. E in parecchi casi, soprattutto in Europa, tali costi sono molto elevati.

Nel vecchio continente, infatti, i salari lordi, ovvero i costi del lavoro, sono più altri che altrove e, facendo una stima più dettagliata, la Svizzera è in testa a questa particolare classifica, poiché la retribuzione lorda mensile è di 4.650,5 euro, per un Pil procapite annuo pari a 47.182,2 euro. Al secondo posto c’è un Paese membro dell’Unione europea, la Danimarca, dove le buste paga del lavoratori sono, sempre considerando la cifra lorda, di 4.332,8 euro, con un Pil pro capite di 41.141,6 euro. Al terzo posto, il Lussemburgo, con uno stipendio medio di 4.255,9 e un Pil di 78.935,4 euro, molto più elevato rispetto a quello dei primi due Paesi della classifica in virtù del numero di abitanti.

Al quarto e al quinto posto troviamo, rispettivamente, Norvegia, con una cifra lorda di 4090,6 euro e un Pil di 57.142,6, il che lascia intendere una retribuzione netta molto elevata. Dietro la nazione scandinava, ecco l’Irlanda, dove la paga mensile di un lavoratore è in media di 3.938,4 euro e il Pil di 35.659, anche se, in questo caso, considerando che si tratta di rilevazioni risalenti al 2009, la situazione potrebbe essere molto cambiata. Ricordiamo, a questo proposito, che l’isola celtica è stata colpita pesantemente dalla crisi globale, con un conseguente aumento del debito pubblico triplicato in pochi anni.

Questi dati, provenienti dalla Commissione economica per l’Europa delle Nazioni Unite (UNECE) e della Commissione statistica dell’Onu (UNSD), dimostrano come, tra i primi posti, non ci sia nessuna potenza economica europea, la prima delle quali, la Francia, si trova in decima posizione, dove i salari lordi sono in media di 2.902,3 euro e il Pil pari a 29.905,3 euro.

I cugini d’Oltralpe sono seguiti dal Regno Unito, che comprende Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord, dove imprese e enti pubblici sborsano in media 2.850,8 euro per la retribuzione dei loro dipendenti al lordo delle trattenute. Rispetto ai “rivali” transalpini, anche il Pil pro capite è più basso e ammonta a 25.562,3.

La maggiore potenza economica europea, la Germania, si trova al dodicesimo posto della graduatoria. In proporzione al reddito pro capite, piuttosto elevato, 29.399 euro annui, il costo del lavoro è relativamente basso: ogni dipendente percepisce in media uno stipendio lordo 2.686,1 euro al mese.

E l’Italia? In base ai dati dell’Onu rilevati nel 2009, il nostro Paese occupa la quindicesima posizione della classifica. I salari lordi sono in media di 2.321,2 euro al mese. I costi del lavoro sono quindi inferiori rispetto agli altri Paesi più industrializzati d’Europa. Ma il dato sul reddito pro capite annuo, pari a 25.598,6 euro, dimostra che anche la retribuzione netta è piuttosto bassa. Ciò significa che i costi che le imprese italiane devono sostenere per pagare i dipendenti sono alquanto elevati.

E da ciò si potrebbe spiegare anche l’alto tasso di disoccupazione e l’esercito dei lavoratori in nero, circa 3 milioni, nel nostro Paese.

Vera Moretti