Maternità e paternità per lavoratori dello spettacolo. Circolare INPS 182/21

Con la circolare 182 del 10 dicembre 2021 l’INPS ha dettato le regole per la maternità e paternità per lavoratori dello spettacolo dipendenti e autonomi.

Circolare 182 del 2021 dell’INPS: maternità e paternità per lavoratori dello spettacolo

Il decreto Sostegni Bis (DL 73/2021), entrato  in vigore il 26 maggio 2021, con l’articolo 66 comma 3 ha introdotto delle novità inerenti il sostegno alla maternità e paternità con modifiche al Testo Unico. Con la circolare 182 l’INPS mette invece in evidenza gli aspetti operativi di tale sostegno per i lavoratori dipendenti e autonomi. La circolare prevede che nel caso in cui la lavoratrice abbia sia rapporti di lavoro subordinato che rapporti di lavoro autonomo, si applichi la disciplina prevista per l’ultimo contratto sottoscritto. Inoltre stabilisce che nel caso in cui la lavoratrice al momento dell’inizio del periodo di maternità non abbia rapporti di lavoro in corso, è comunque prevista la tutela della maternità e paternità nel caso in cui negli ultimi 12 mnesi ci siano stati rapporti di lavoro.

Maternità e paternità per lavoratori dello spettacolo con contratto di lavoro dipendente

In base all’articolo 59 bis del Testo Unico sulla Tutela della maternità e paternità, così come modificato dal decreto Sostegni Bis i lavoratori dello spettacolo le tutele previste dalla normativa vengono riconosciute ai lavoratori dello spettacolo iscritti al Fondo Pensione Lavoratori dello Spettacolo, le stesse si differenziano in base alla tipologia di contratto.

Per i lavoratori dipendenti è previsto l’obbligo di astensione dal lavoro per la madre nei due mesi precedenti il parto e tre mesi successivi all’evento. Gli eventuali giorni non goduti prima del parto, possono essere goduti successivamente (ad esempio in caso di parto prematuro, oppure quando si decide di posticipare l’uscita dal lavoro). In questo periodo è prevista l’erogazione di un’indennità pari all’80% retribuzione media globale giornaliera.

Per i lavoratori dello spettacolo con contratto di lavoro dipendente sono previste le tutele riconosciute alle altre lavoratrici, cioè  tutela del parto prematuro, sull’interruzione volontaria o spontanea di gravidanza, rinvio e sulla sospensione del congedo di maternità, prolungamento del diritto alla corresponsione dell’indennità, adozioni e affidamento.

Ai lavoratori dello spettacolo si applicano anche le regole del congedo parentale. Lo stesso può essere usufruito durante i primi 12 anni di vita del bambino, può essere utilizzato da entrambi i genitori per un periodo massimo di 6 mesi, se il padre utilizza più di 3 mesi di congedo parentale, può usufruire in totale di 7 mesi. Il periodo complessivo di congedo parentale è di 10 mesi, elevati a 11 se il padre usufruisce di almeno 3 mesi.

Il congedo parentale può essere usufruito sull’intera giornata lavorativa o per un periodo frazionato nell’arco della giornata.

I genitori nel periodo in cui usufruiscono del congedo parentale hanno diritto al 30% della retribuzione.

Lavoratori dello spettacolo: maternità e paternità per i lavoratori autonomi

Sappiamo bene che i lavoratori dello spettacolo spesso sono inquadrati come liberi professionisti con partita IVA e non come lavoratori dipendenti. In questi casi le norme che si applicano per la tutela della maternità e della paternità sono diverse. Per le lavoratrici autonome è prevista l’astensione dal lavoro per gli ultimi due mesi prima della data presunta del parto e 3 mesi successivi. In questo caso l’indennità è pari all’80% della retribuzione media globale giornaliera. Per accedere è necessario essere iscritti al Fondo Pensioni Lavoratori dello Spettacolo.

Per le lavoratrici autonome vi è la possibilità di continuare a lavorare anche nel periodo di maternità, quindi non c’è l’astensione obbligatoria dal lavoro. Cambia anche il congedo parentale che può essere usufruito per 3 mesi con la retribuzione al 30% ma solo nel primo anno di vita del bambino, quindi il periodo risulta molto ridotto rispetto al caso dei lavoratori dipendenti.

Per poter fruire del congedo parentale è necessario che il lavoratore:

  • presenti la domanda all’Istituto (INPS) prima dell’inizio del congedo al massimo nel giorno in cui inizia il congedo;
  • comunichi ai committenti l’astensione dal lavoro. I periodi di congedo sono coperti da contribuzione figurativa.

Il periodo di congedo parentale viene riconosciuto solo alle lavoratrici e non ai lavoratori.

Come si calcola l’indennità di maternità e paternità per lavoratori dello spettacolo

La circolare chiarisce anche come viene calcolata l’indennità, sia quella all’80% sia quella al 30% riconosciuta per il congedo parentale. I lavoratori dello spettacolo non hanno solitamente retribuzioni fisse, i compensi cambiano in base al singolo lavoro e al singolo committente, quindi è necessario avere una base di riferimento. La circolare sottolinea che si fa riferimento agli importi ricevuti nei 12 mesi antecedenti rispetto all’inizio del periodo indennizzabile.

Sono esclusi i redditi derivanti da attività diverse rispetto a quelle svolte nel mondo dello spettacolo. Per i lavoratori autonomi e dipendenti con contratto a tempo determinato, le indennità sono corrisposte dall’INPS. Per i lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato sono erogati dal datore di lavoro e poi restituite dall’INPS al datore di lavoro.

Sostegno alla maternità per le lavoratrici autonome e legge di bilancio

La legge di bilancio per il 2022 all’articolo 69 prevede un’estensione della maternità riconosciuta alle lavoratrici autonome. La misura di sostegno alla maternità per le lavoratrici autonome prevede però condizioni e limiti.

Estensione dell’assegno di maternità per le lavoratrici autonome

La legge di bilancio per il 2022 prevede la possibilità di ottenere un’estensione dell’assegno di maternità per le lavoratrici autonome per un periodo di 3 mesi a seguire il periodo di maternità che ha la durata di 5 mesi (come per le lavoratrici dipendenti). Solitamente per questo ulteriore periodo il decreto legislativo 151 del 2001 prevede  un importo del 30% rispetto alla retribuzione tabellare per le varie categorie. La legge di bilancio consente però di avvalersi del periodo di astensione facoltativa a condizioni migliori per le donne che hanno redditi particolarmente bassi.

La norma è rivolta a:

  • lavoratrici autonome iscritte alla gestione separata INPS (articolo 64 decreto legislativo 151 del 2001);
  • coltivatrici autonome, artigiane e commercianti (art 66 d.lgs 151/2001);
  • libere professioniste con cassa privata (art. 70 d.lgs 151/200).

Tale misura non è però diretta a tutte le donne lavoratrici, ma esclusivamente a quelle che nell’anno precedente rispetto a quello di inizio della maternità abbiano dichiarato un reddito non superiore a 8.145 euro . Si tratta di una soglia davvero bassa, cioè inferiore a 1.000 euro mensili e di conseguenza saranno poche a poterne beneficiare. Emerge da questa misura che si tratta più che altro di un sostegno al reddito per chi vive nella fascia della soglia di povertà.

A quanto ammonta il sostegno alla maternità per lavoratrici autonome?

Deve essere sottolineato che vi sono delle differenze tra lavoratrici autonome facenti parti della Gestione Separata INPS e le altre categorie. Infatti per coltivatrici dirette, artigiane, professioniste e commercianti l’indennità di maternità ha una misura di 1000- 1200 euro (euro 33,90 al giorno per coltivatrici; 38,10 euro al giorno per le artigiane e le commercianti, per le professioniste dipende dalla cassa di appartenenza). Non è così per le iscritte alla Gestione Separata INPS. Per questa categoria l’assegno di maternità viene calcolato tenendo in considerazione i redditi prodotti (80% di quanto percepito).

Questo vuol dire che, per chi ha un reddito inferiore a 8.145 euro annui, si tratta di una somma pari all’incirca a 543 euro al mese e visto che la norma stabilisce che la misura del sostegno alla maternità ulteriori rispetto al periodo di astensione viene calcolato con le stesse regole dell’assegno di maternità, si ricava che le lavoratrici iscritte alla Gestione Separata INPS hanno comunque un trattamento deteriore rispetto alle altre categorie di lavoratrici autonome.

Per saperne di più sul congedo di maternità, leggi l’articolo: Congedo di maternità: come funziona per dipendenti e per autonomi

Aprire partita Iva, c’è ancora chi ci crede

Abbiamo visto nei giorni scorsi come, secondo la Cgia, il popolo delle partite Iva sia ormai il popolo dei nuovi poveri. Eppure c’è ancora chi ci crede e, in questo scorcio di 2014 si sta chiedendo se aprire partita Iva o no. Sempre che se ne voglia assumere i rischi, aprire partita Iva è una decisione da prendere entro il 31 dicembre.

Il Ddl di Stabilità cambierà un po’ di regole anche per i lavoratori autonomi che possono accedere alla posizione con il regime dei minimi. Aprire partita Iva dopo il 1 gennaio 2015 comporterebbe pagare un’imposta sostitutiva del 15% e non del 5% come ora. Inoltre, il monte dei ricavi non sarà più fissato a 30.000 euro, ma varieranno in base al tipo di attività svolta e la cifra sarà calcolata con un coefficiente di redditività variabile. Non sarà più uguale per tutti

Chi è scoraggiato dall’aprire partita Iva in regime dei minimi a fine anno perché dovrebbe sostenere fiscalmente i costi dell’operazione per poche settimane e pagare le imposte relative già nel 2015, può stare tranquillo se non percepisce alcun compenso, il timore è infondato. Deve anche tenere conto che, aprire partita Iva entrando adesso nel regime dei minimi, significa avere applicate le vecchie regole fino al termine del quinquennio concesso o fino al compimento del 35esimo anno di età se under 35.

Anche a fine 2014, il profilo del lavoratore che sceglie di aprire partita Iva in regime agevolato è quello di un autonomo che non ha un grande giro d’affari o investimenti cospicui da fare. Diverso il discorso per chi vuole aprire una start-up: il Ddl di Stabilità prevede per le start-up che il reddito imponibile considerato sia pari a un terzo del totale. Una spintarella per il neo imprenditore che vuole aprire partita Iva.

Nuove partite Iva o nuova povertà?

All’inizio della crisi, l’apertura di nuove partite Iva sembrava la via più facile per reinventarsi se espulsi dal mercato del lavoro. Purtroppo, la tendenza si è fermata ben presto e i numeri relativi alle aperture di nuove partite Iva hanno cominciato, mese dopo mese, un inesorabile calo.

Anche a settembre 2014 la tendenza si è confermata, dopo il calo già sensibile di agosto anno su anno (-4%): la flessione a settembre nel numero di nuove partite Iva è stata dello 0,2%, per un totale di 41.190 nuove partite Iva.

La distribuzione per natura giuridica mostra che le persone fisiche hanno avviato il 74,2% delle nuove partite Iva, il 20% lo hanno fatto società di capitali, il 5% società di persone, in fondo alla classifica i “non residenti” e “altre forme giuridiche” (1%).

Rispetto al mese di settembre 2013, si registra un aumento di nuove partite Iva per le sole società di capitali (+16%), mentre le altre forme giuridiche mostrano un calo, più marcato per le persone fisiche (-3,3%) e più contenuto per le società di persone (-0,9%).

Riguardo alla ripartizione territoriale, il 42,2% delle nuove partite Iva si è registrato al Nord, il 22,7% al Centro e il 35% al Sud e Isole. Crescono la Basilicata (+9,9%), l’Abruzzo (+6,4%) e la Liguria (+4,9%), calano la provincia di Trento (-11,4%), la Sicilia (-6,9%) e la Valle d’Aosta (-6,4%).

Il commercio continua a registrare il maggior numero di nuove partite Iva (26,1%), seguito dalle attività professionali (12,3%) e dall’edilizia (9,4%). Relativamente alle persone fisiche, la ripartizione è relativamente stabile, con il 63,7% di aperture di nuove partite Iva da parte del genere maschile. Il 48,6% viene avviato da giovani fino a 35 anni e il 34,4% da persone comprese nella fascia dai 36 ai 50 anni. Rispetto settembre 2013, tutte le classi di età registrano cali, ad eccezione di quella più anziana (over 65).

Da notare infine che a settembre 11.142 persone fisiche, pari al 27,1% del totale delle nuove partite Iva, hanno aderito al regime fiscale di vantaggio per l’imprenditoria giovanile e lavoratori in mobilità; un regime che limita per cinque anni l’imposta dovuta al 5% degli utili dichiarati, esonerando i contribuenti interessati dal pagamento di Iva ed Irap.

Nonostante questo, però, la sensazione che dietro al calo di nuove partite Iva ci sia il timore sempre più forte di andare incontro a un futuro di povertà è forte. In questo senso, la ricerca della Cgia di cui abbiamo parlato lunedì ha confermato il segnale.

Lavoratori a partita Iva, guerra tra poveri

Abbiamo visto ieri come, secondo la Cgia di Mestre, i lavoratori a partita Iva sono di fatto i nuovi poveri. Tra questa guerra di straccioni, però, c’è sempre chi è più povero degli altri: nello specifico, si tratta delle lavoratrici a partita Iva. In un recente convegno svoltosi a Roma, l’Associazione 20 Maggio ha fatto il punto su questa sconcertante realtà analizzando alcuni dati dell’Inps secondo i quali la media dei compensi di tutti i lavoratori a partita Iva 2013 è di 19mila euro lordi annui. Una miseria, ma se si considera che a parità di attività svolta, le donne guadagnano 11mila euro in meno rispetto agli uomini, il dato appare ancora più scandaloso. Gli uomini percepiscono in media redditi di 23.874 euro, mentre le donne di 12.185.

A proposito di cifre, l’Associazione fa notare che con un compenso lordo medio di 18.640 euro, il reddito netto annuo dei lavoratori a partita Iva iscritti alla Gestione separata si riduce a 8.679 euro, pari a 723 euro mensili. Osservando poi la distribuzione per fasce di età, si nota che su 1 milione e 259mila lavoratori, 607.198 hanno tra i 30 e i 49 anni (il 48% del totale) e il 33% ne ha più di 50 anni.

È quindi evidente che il lavoro parasubordinato riguarda soprattutto lavoratori e lavoratrici adulte e con famiglia, queste ultime in maggioranza nella fascia under 39; dopo questa età, a causa delle minori protezioni sociali e contrattuali di cui godono i collaboratori, tendono a lasciare il lavoro in concomitanza con la nascita dei figli. Inoltre, le più colpite dalla disparità di trattamento economico sono le fasce d’età dai 40 a i 49 anni, ossia le lavoratrici all’apice della carriera.

Per non parlare dei giovani lavoratori a partita Iva: tra il 2007 e il 2013 sono diminuiti di 230mila unità, con un calo del 59% tra gli under 25 e del 43% nella fascia 25-29 anni. Attenzione alla soglia di povertà…

L’high tech non ha più misteri per le donne impreditrici

L’Osservatorio sull’imprenditoria femminile curato dall’Ufficio studi di Confartigianato porta buone nuove a proposito, appunto, dell’imprenditoria in rosa. A quanto pare, infatti, nonostante la crisi e il clima funesto che avvolge l’economia italiana, le aziende al femminile del Belpaese non solo “reggono” ma sono le prime in Europa per quantità.

Nel 2011 risultano in Italia 1.531.200 imprenditrici e lavoratrici autonome e, se consideriamo che la Germania, seconda in classifica, ne conta 1.383.500, il primato è scuramente ragguardevole.

A conferma di questi dati è anche il peso che l’imprenditoria femminile ha sul totale delle donne occupate: si tratta del 16.4$, a fronte di una media europea del 10.3%.

Ma dove si concentrano le imprenditrici, per quanto riguarda il territorio? La regione leader è il Friuli Venezia Giulia, seguito da Emilia Romagna e Umbria. Maglia “nera”, invece, per Calabria, Sicilia e Puglia.

I settori che impegnano maggiormente questo piccolo grande esercito non sono più quelli prevalentemente femminili, perché, ormai, le donne si occupano anche di high tech. La presenza “rosa” in questo campo è di 12.261 imprenditrici, che ora è riduttivo definire pioniere, e che si occupano di robotica, elettronica, chimica farmaceutica, produzione di software e apparecchiature ad alta precisione, telecomunicazioni, ricerca scientifica e consulenza informatica, per un totale del 22.5% di imprese innovative capitanate da donne.

Un bel numero, che ci auguriamo possa aumentare ancora di più.

Vera Moretti

Imprenditoria femminile: Per l’Ue il primato va all’Italia

Le donne possono esultare anche in campo lavorativo. Secondo l’UE il popolo rosa è arrivato a toccare in italia 1,5 milioni di imprenditrici. Un risultato importante che fa vincere all’Italia il primato come stato europeo con il maggior numero di donne impiegate in mansioni manageriali. Secondo l’Ufficio studi di Confartigianato il nostro Paese registra 1.482.200 imprenditrici a fronte di 1.340.900 imprenditrici della Germania, 1.168.300 del Regno Unito, 1.016.800 della Polonia, 938.400 della Spagna e 798.700 della Francia.

In Italia la percentuale di donne occupate ai vertici d’impresa è del 16,2%, di gran lunga superiore al 10,2% della media dell’area Euro. Nel Centro e nel Mezzogiorno sembra sian il lavoro autonomo a fare da trampolino di lancio per carriera femminile. La quota di lavoro indipendente sul totale dell’occupazione femminile nelle regioni meridionali è del 20,9% e in quelle del Centro del 19,6%, in entrambi i casi superiori al Nord.

Sono in particolare le giovani donne a dedicarsi al lavoro autonomo: lo sono il 20,1% delle donne occupate sotto ai 35 anni, contro il 15,2% della media nazionale. In particolare, le 367.819 donne italiane a capo di imprese artigiane stanno occupando ruoli che finora sono stati ad appannaggio dei colleghi maschi: trasporto merci, taxi, autoriparazione, edilizia, produzione di macchine e prodotti in metallo, falegnameria non sono più solo lavori maschili. La prima regione per vocazione delle donne a fare impresa in settori tipicamente maschili è la Sardegna, seguita dall’ Emilia-Romagna, dal Piemonte e dalla Lombardia.

M. Z.