Asset manager: la crescita sta nell’innovazione

E’ stata appena resa nota la 15esima edizione della ricerca annuale sull’industry dell’asset management, realizzata da The Boston Consulting Group, che ha coinvolto 153 tra i principali leader del settore, cioè più del 62% degli asset under management globali.

Ciò che principalmente emerge è che gli asset manager devono puntare sull’innovazione per potersi garantire una crescita ulteriore e duratura.

Il report è stato intitolato Global asset management 2017: the innovator’s advantage, e ha voluto partire dalle fragilità che caratterizzano le performance dell’asset management, che nel 2016 hanno subito una brusca battuta di arresto in termini di ricavi, profitti e margini.

Alla base del progresso, che davvero potrebbe garantire ottime opportunità, c’è lo sviluppo delle nuove tecnologie. Questo significa che gli asset manager dovranno ottimizzare la gestione degli investimenti attraverso un’innovazione customer-driven, nuove competenze ed efficienza operativa. Nei settori operations e IT, i player potranno ridurre i costi da un minimo dal 20% al 35%: opportunità da cogliere velocemente per avvantaggiarsi rispetto ai competitor.
Oggi, meno del 50% dei gestori di patrimoni usa i big data o gli analytics: solo i più innovativi già utilizzano questi acceleratori digitali per costruire nuove funzioni interne.

Per accelerare i tempi, The Boston Consulting Group, ha stilato un decalogo da seguire:

  • Gli asset manager tradizionali devono puntare sull’innovazione per trasformare il proprio modo di lavorare e crescere ulteriormente.
  • Il 2016 ha confermato le fragilità dalle performance globali dell’asset management. Per la prima volta dalla crisi finanziaria del 2008, ricavi, profitti e margini si sono assottigliati e la pressione sulle commissioni è in aumento.
  • Il valore globale degli AuM è cresciuto del 7% nel 2016, ma l’aumento è stato prodotto in gran parte dal crescente valore degli investimenti in mercati finanziari in rapida crescita, mentre i nuovi flussi netti sono stati esigui.
  • In Italia, i risparmiatori stanno spostando i propri risparmi dai conti deposito tradizionali verso prodotti gestiti: questi flussi non sono comunque sufficienti a compensare la performance debole di diversi mercati europei.
  • Lo sviluppo di nuove tecnologie creerà opportunità per alcuni e minacce per altri: i leader del settore di domani saranno diversi da quelli odierni.
  • Gli asset manager dovranno ottimizzare la gestione degli investimenti nell’era digitale attraverso un’innovazione customer-driven, nuove competenze ed efficienza operativa.
  • Nei settori operations e IT, gli asset manager potranno ridurre i costi da un minimo del 20% a un massimo del 35%.
  • Meno del 50% degli asset manager usa i big data o gli analytics: solo i più innovativi già utilizzano questi acceleratori digitali per costruire nuove funzioni interne. Il divario in capacità crescerà ancora se il gap non sarà ridotto.
  • L’attività di M&A accelererà e avrà un crescente valore strategico: i deal diventeranno più grandi e più internazionali; il mercato si polarizzerà tra player molto grandi e piccoli specialisti.
  • Gli asset manager, per avere successo, dovranno conformarsi a uno o più di questi quattro modelli di business: alpha shop, beta factory, solution provider e distribution powerhouse.

Vera MORETTI

Federmanager: valorizzare la figura del Data Protection Officer

Data protection, industria digitale e nuovo regolamento europeo sono stati i temi al centro del sesto convegno annuale di Federprivacy, tenutosi nei giorni scorsi a Roma. Tra gli ospiti è intervenuto anche il presidente di Federmanager, Stefano Cuzzilla, che ha parlato di come il contesto aziendale sia cambiato con la digitalizzazione, di protezione dei dati quale opportunità di business e dell’ingresso di nuove figure professionali nel mercato del lavoro.

Ci troviamo di fronte una rivoluzione normativa che ha origine in Europa con l’entrata in vigore del Regolamento Ue 2016/679 e che recepisce un cambiamento reale ineluttabile – ha detto il presidente di Federmanager -: la digitalizzazione delle attività e l’impulso della tecnologia applicata all’industria stanno rivoluzionando tutto, trasformando la protezione del dato in un tema urgente per chi fa impresa e per le amministrazioni pubbliche. Dobbiamo farci trovare preparati in breve tempo, consapevoli dell’impatto che la data protection produce sull’organizzazione aziendale e sulla competitività di impresa”.

Il modello europeo indica una nuova figura professionale, quella del responsabile della protezione dei dati (Data Protection Officer), e la propone per l’intera Pa, per le aziende private che sistematicamente trattano dati personali su larga scala e per quelle che più specificatamente trattano dati sensibili.

A questo ruolo, ricorda Federmanager, è richiesto un notevole bagaglio di conoscenze e competenze, oltre a un ampio background normativo e tecnico-informativo. Questo soggetto deve intervenire in tutti i processi aziendali, dimostrando di essere in grado di predisporre un articolato insieme di misure finalizzate alla tutela di enormi flussi informativi, misure che devono assicurare allo stesso tempo osservanza al Regolamento Europeo, riservatezza e sicurezza.

Il privacy officer deve conoscere l’organizzazione aziendale e i sistemi di gestione, saper prendere le decisioni e fornire pareri, interfacciarsi con le esigenze aziendali, le aspettative dell’utenza, le norme del Garante.

L’introduzione della figura del Data Protection Officer – ha concluso il presidente di Federmanagerè anche un’opportunità per i manager che vogliono ricollocarsi sul mercato. Oggi possiamo stimare che nel comparto industriale italiano siano circa 1.000 i manager inoccupati che, provenendo dalle aree legal affairs, sicurezza-qualità, IT, HR, hanno le carte per ricoprire questo ruolo in azienda, anche sotto forma consulenziale”.

Ecco i manager del futuro

Quali sono le professioni manageriali del futuro? In quali settori devono investire i manager per restare su un mercato del lavoro che muta rapidamente? Sono domande alle quali ha provato a dare una risposta Federmanager, l’associazione più rappresentativa nel mondo del management, che ha individuato quattro figure manageriali di successo.

Temporary manager

Si tratta di un professionista al quale l’impresa si affida temporaneamente per gestire situazioni di discontinuità o parte di progetti degli obiettivi aziendali, in modo da massimizzare le performance dell’azienda stessa. Lavora per obiettivi e, secondo Federmanager, deve avere 5 skill: orientamento a nuove attività e prodotti, crisis management, capacità di analisi dei problemi e di individuazione delle soluzioni, capacità di innovare l’organizzazione aziendale. Capacità di gestire i passaggi generazionali.

Innovation manager

Secondo Federmanager è “un vettore di cultura e di conoscenza innovativa“. La sua caratteristica principale è la ricchezza di competenze trasversali e di processo, utili per portare l’impresa sui profili produttivi più moderni. Come per il temporary manager, anche per lui ci sono 5 skill di base: pensiero innovativo, digital skills e competenze ICT, apertura alla contaminazione culturale e organizzativa, sensibilità per la digital reputation e la brand awareness, lean management.

Export manager

È forse il profilo più strategico per le Pmi che aspirano a una forte internazionalizzazione e, secondo Federmanager, ha una mission ben definita: aggredire nuovi mercati e individuare le principali opportunità di business e le nuove reti di vendita, grazie a una conoscenza approfondita delle strategie di marketing. Le sue 5 skill sono: esperienza e formazione internazionale, ottime capacità relazionale e linguistiche, supply channel management, padronanza della legislazione e delle norme di Paesi esteri, conoscenza delle strategie di marketing.

Manager di rete

Questa tipologia di manager aiuta le imprese ad agire in sinergia, in un contesto di filiera tipico dei distretti industriali italiani. Un manager molto utile per ottimizzare costi e servizi massimizzando il business, caratterizzato principalmente dalle cosiddette “soft skills”, come la capacità di guidare le relazioni e mediare tra le esigenze delle varie aziende. Le sue cinque caratteristiche di base sono: attitudine alla cooperazione e alla mediazione, forte capacità relazionale ed empatica, capacità di esercizio di “governance condivisa” e leadership positiva, capacità di project management e problem solving, strategia di sviluppo e creazione di valore.

Soffri di Amnesia Digitale?

Una interessante ricerca condotta da Kaspersky Lab e intitolata Digital Amnesia at Work – The risks and rewards of forgetting in business, mette in luce un nuovo disturbo che può colpire chi, durante le riunioni, preferisce prendere appunti digitali anziché ascoltare: la cosiddetta Amnesia digitale.

l 44% degli uomini d’aff­ari intervistati per lo studio, ha ammesso che prendere appunti su un dispositivo digitale durante una riunione fa in modo che essi non ascoltino ciò che viene detto o il modo un cui viene detto, perdendo così importanti indizi di contesto, sia emozionali sia comportamentali e favorendo l’insorgere della Amnesia Digitale, la tendenza a dimenticare le informazioni affidate a un dispositivo digitale.

Il 13% degli intervistati ha persino ammesso di aver perso un appunto digitale e di non essere riuscito a ricordare quanto fosse stato detto, esempio lampante di Amnesia Digitale per aver eccessivamente delegato ai device elettronici il compito della memoria.

Secondo la ricerca, l’ Amnesia Digitale ha un impatto negativo anche sul contesto lavorativo, poiché molti manager preferiscono non concentrarsi, durante le riunioni, ad ascoltare attivamente ma a prendere appunti rapidamente.

La ricerca ha evidenziato, per quanto riguarda l’Italia, che i manager intervistati sono a forte di rischio di Amnesia Digitale, perché preferiscono di gran lunga archiviare e condividere le proprie note digitali (79% dei casi) anziché confidare sui propri appunti personali (58%).

Inoltre, quasi metà degli intervistati (46%) ritiene che stendere accuratamente e archiviare i propri appunti sia più importante e utile che porre attenzione alle sfumature della conversazione in riunione; il 67%, infine, crede che l’archiviazione e la condivisione degli appunti sia più sicura del ricordo personale di quanto si è detto in riunione.

Chi ha paura della diversity?

PageGroup ha condotto una ricerca nazionale su un campione di 1.202 intervistati, di cui 372 impiegati in società dove sono applicate le politiche di Diversity & Inclusion, da cui emerge che per 2 aziende su 5, politiche di questo tipo sono gestite da meno di 3 anni.

Si tratta di un fenomeno nuovo, dove c’è ancora molto da fare, soprattutto nelle aziende di dimensioni minori – afferma Tomaso Mainini, Managing Director di Michael Page Italia, parlando dei risultati di questa ricerca sulla diversity -. Un aspetto che abbiamo deciso di approfondire per dare una fotografia di quale sia la situazione in Italia rispetto a un argomento delicato, ma fondamentale per il benessere dei luoghi di lavoro che sappiamo essere decisivo, e questa indagine lo dimostra, sulla motivazione e sulla produttività dei manager e dei dipendenti in generale”.

Dalla ricerca risulta infatti che l’82,5% delle aziende con meno di cento dipendenti non applica pratiche di Diversity & Inclusion. Gli ostacoli allo sviluppo di queste attività sono:

  • la convinzione che non si tratti di tematiche rilevanti per l’azienda nel 39,6% dei casi (54,2% per aziende con meno di cento dipendenti);
  • la mentalità del dipendente e in particolare la non accettazione di determinati gruppi di persone per il 37,1%;
  • uffici non adatti a ospitare personale con disabilità per il 27,5%.

Al contrario, le principali motivazioni per l’’attuazione di politiche di diversity nelle aziende sono l’’adattamento alle imposizioni legali per il 74,2% degli intervistati e ragioni etiche per il 67,4%. Il 62,9 delle donne ritiene che sia importante la ricezione di finanziamenti, mettendo quindi in primo piano l’’aspetto economico.

Sugli ambiti per cui sono state applicate politiche di Diversity & Inclusion nelle aziende in cui queste sono attive (campione 372 dipendenti), il 60,2% ha indicato il genere come area su cui queste pratiche sono state prevalentemente realizzate (il 68,2% per le aziende con più di mille dipendenti); a seguire, la nazionalità per il 59,1%, la razza per il 53,5% e l’’età per il 49,5%. Proprio l’’età è l’’ambito per il quale il 36,2% dei dipendenti pensa che sia più necessario implementare pratiche di diversity perché ancora troppo spesso oggetto di discriminazione.

Tra le principali attività svolte dalle aziende, il 38,7% degli intervistati ha indicato la promozione dell’’uguaglianza tra uomini, donne e razze. Al secondo posto con il 28% contratti e orari flessibili per consentire di conciliare vita privata e professionale. Infine, con il 26,9% le politiche per evitare la discriminazione sessuale, ad esempio durante il processo di selezione o sul posto di lavoro.

Dall’’indagine emerge anche una panoramica sulle caratteristiche che un manager dovrebbe avere per gestire al meglio un team di lavoro eterogeneo. Per il 55,2% degli intervistati la capacità più apprezzata è l’’ascolto attivo. A seguire, si trovano identificazione dei punti di forza e debolezza (47,3%), la capacità di lavorare con team differenti per cultura, usi e costumi (41%), la capacità di comunicare (33%), di identificare le criticità (33%) e di risolvere i conflitti (30,9%). Leggermente meno importanti sono, infine, l’’empatia (26,1%) e la capacità di apprendere dagli altri (18,8%).

Infine, un dato positivo quanto indicativo: il 58,3% delle persone intervistate esprime soddisfazione riguardo alle pratiche di diversity. Nello specifico, gli ambiti in cui sono stati percepiti maggiormente i benefici delle policy attuate sono il miglior equilibrio tra vita professionale e privata (28%), la maggior soddisfazione al lavoro (27,7%) e il miglioramento dell’’employer branding (20,7%).

Manager e viaggi di affari: ecco mete e durate

Milano si conferma la destinazione principale per i viaggi di affari, seguita a breve distanza da Roma, Varese e Firenze, secondo le rilevazioni effettuate tra gennaio e novembre 2015 da HRS, il portale di prenotazioni alberghiere specializzato in viaggi di affari.

Se tra le più visitate per i viaggi di affari nelle posizioni successive della classifica si trovano Torino, Genova e Bologna (rispettivamente in quinta, sesta e settima posizione), subito dopo sono le province venete a farla da padrone, in particolare Villafranca di Verona, Mogliano Veneto e Mestre.

Per quanto riguarda invece la durata del soggiorno, secondo HRS il 71% dei viaggi di affari in Italia va da 1 a 3 giorni, il 18% da 4 a 5, mentre l’11% dura 6 o più giorni.

A fronte di un 16% di business traveller che effettua la propria prenotazione con 28 o più giorni di anticipo e di un 18% che lo fa tra gli 11 e i 27 giorni prima, il 41% di viaggiatori d’affari che prenota i propri viaggi d’affari tra 10 e 3 giorni prima della partenza, una percentuale piuttosto alta (25%) è rappresentata da prenotazioni “spontanee” effettuate per lo più via smartphone o tablet il giorno stesso o fino a un massimo di due giorni dalla partenza.

A livello di categoria alberghiera, infine, il 98% dei manager sceglie un hotel a tre o quattro stelle (26% tre stelle; 72% 4 stelle), mentre solo l’1% opta per un due o cinque stelle per i propri viaggi di affari.

Il Jobs Act e i manager italiani

Sono molti gli aspetti del Jobs Act sui quali imprese e professionisti si dividono, specialmente per quello che riguarda gli incentivi alle assunzioni e, in generale, le dinamiche legate all’occupazione. Ecco perché Michael Page, società di ricerca e selezione di personale specializzato nel middle e top management, ha realizzato un’indagine a livello nazionale su un campione di 705 professionisti tra i 35 anni e i 45 anni, con provenienza da diversi settori e zone geografiche per capire quali effetti ha su di loro il Jobs Act.

Dai risultati dell’indagine emerge che solo il 5,5% dei manager intervistati sarebbe incline a cambiare lavoro per effetto del Jobs Act; ben il 44,3% è meno propenso a farlo e oltre il 50% ritiene che la nuova Legge non impatti su questa scelta.

L’influenza del Jobs Act non è determinante per il 75,5% dei candidati nel favorire la ricerca di un nuovo lavoro, mentre il restante 24,5% che ne riconosce l’utilità, afferma che la riforma lo aiuterà a trovare un lavoro a tempo indeterminato (17,4%).

Di fronte alla domanda su quanto fosse ritenuta interessante una nuova opportunità lavorativa con un aumento economico del 10/20%, in riferimento alla nuova Legge sulle tutele crescenti, oltre un quarto dei candidati (il 27%) si è dichiarato non interessato.

Quali sono, invece, le priorità dei candidati oggi, a fronte dell’attuazione della riforma, nella fase di negoziazione con il nuovo datore di lavoro? La retribuzione si distingue come l’elemento decisivo: il 53,2% sceglie un aumento dello stipendio superiore del 20% al consueto come prima opzione da poter contrattare. Seguono più mesi di indennizzo in caso di licenziamento illegittimo da parte del datore di lavoro (16,2%), il riposizionamento all’interno dell’azienda in caso di licenziamento illegittimo (15%) e il mantenimento delle condizioni del vecchio contratto per un determinato periodo (10,8%).

Sorprendente, invece, i dato sull’informazione dei manager riguardo il Jobs Act: dal sondaggio di Michael Page risulta che il 32,3% degli intervistati non conosce il contenuto della nuova legge sul lavoro.

Tecniche di hedging per le aziende

Le aziende che utilizzano materie prime, di qualunque genere, possono tutelarsi dai rischi di variazione dei prezzi delle medesime attraverso l’utilizzo di strumenti finanziari derivati. I derivati sono nati proprio per questo preciso scopo, fissare un prezzo, una quantità e una data di consegna del bene,  tutelando venditore e acquirente.

Il bene oggetto del contratto si definisce “sottostante”. Per evitare di impegnare troppi capitali, il derivato serve anche ad impegnare le controparti con un esborso ridotto di denaro, rispetto al valore della quantità complessiva del bene in oggetto.

Coprirsi dal rischio aiuta le imprese a raccogliere più facilmente capitale sul mercato. Attraverso le tecniche di hedging le imprese sono in grado di ridurre i costi di raccolta di capitale esterno, con la conseguenza di essere avvantaggiate rispetto ad altri competitor.

Le più recenti ricerche condotte negli Stati Uniti, in particolare rispetto alla copertura del rischio sui tassi di cambio e sul prezzo delle commodities, avvalorano questa ipotesi: le imprese che decidono di adottare tecniche di hedging su ricavi e costi operativi sono significativamente più favorite nel raccogliere capitale sul mercato, sia sotto forma di debito, che di equity.

L’abbattimento del rischio, ottenuto riducendo la volatilità dei flussi di cassa, consente innanzitutto di ridurre il costo del capitale. Inoltre la decisione di ricorrere a tecniche di hedging rappresenta un “buon segnale” rispetto agli

investitori, che apprezzano la maturità manageriale dell’impresa ritenendola più capace di affrontare eventuali crisi di liquidità e di gestire in modo più professionale i propri investimenti.

In questo momento di crisi industriale e di incertezza creditizia, coprirsi dal rischio – attraverso contratti derivati – può quindi costituire un vantaggio competitivo non indifferente.

Gli studi professionali che sono in grado di aiutare l’azienda ad acquisire questo vantaggio, sono senz’altro pochi e quindi ricercati da quei potenziali clienti che abbiano la lungimiranza di comprenderne i benefici.

Inoltre, lo studio professionale che propone un servizio di copertura dal rischio è valutato positivamente anche dai clienti meno attenti a queste problematiche, in quanto si evidenzia loro un problema e si fornisce la soluzione contemporaneamente. Può essere anche un’occasione per ottenere contatti da nuovi clienti.

Da ricordare che la maggior parte delle materie prime è quotata in Borsa e quindi le aziende che le utilizzano possono coprirsi dal rischio. A titolo di esempio posso citare oro, argento, palladio, nichel, rame, grano, caffè, cotone, carne di maiale, succo d’arancia, petrolio…

Inoltre possono essere coperte le variazioni dei tassi di cambio tra euro ed altre valute. Ricordo che le materie prime sono quotate in dollari Usa ed è quindi necessario coprirsi anche dal rischio cambio euro/dollaro.

dott. Marco Degiorgis – Life Planner / Consulente indipendente per la gestione dei patrimoni familiari, Studio Degiorgis

L’occhio dell’head hunter: consigli pratici per ripensare il proprio futuro

Il senior manager che cerca un nuovo lavoro ha l’indiscutibile vantaggio di avere alle spalle un’esperienza pluriennale, ma non deve cadere nell’errore di ingessarsi dentro il fantasma del ruolo rivestito in passato. Il mercato del lavoro oggi chiede a tutti maggiore flessibilità. Ecco le regole semplici ed efficaci.

1. Riflettere.
Chiarire le proprie aspirazioni professionali, aggiornare il cv e porsi delle domande concrete sulle possibilità, le strade da percorrere e il lavoro che si vorrebbe svolgere, dando contemporaneamente uno sguardo realistico a cosa offre il mondo del lavoro.

2. Informarsi.
Una volta identificato l’annuncio di proprio interesse è necessario scoprire il più possibile di quell’azienda (e del settore). Il colloquio resta il momento decisivo del recruiting e presentarsi come una persona consapevole dell’azienda e della posizione per cui ci si sta candidando è fondamentale.

3. Sintesi.
Il curriculum deve essere scritto con attenzione, senza dilungamenti eccessivi. L’invio al selezionatore deve essere ragionato. La sintesi è una regola d’oro anche durante il colloquio.

4. Unicità.
Gli invii di cv standard si identificano subito e sono motivo di esclusione. Durante il colloquio poi è necessario dimostrare di essere lì perché si è realmente interessati a quella posizione lavorativa.

5. Valorizzazione delle competenze.
E’ utile uscire dai limiti del ruolo che si è rivestito per anni, individuando le capacità trasversali acquisite, il valore reale della propria esperienza e le possibili applicazioni in nuovi contesti.

6. Determinazione.
Dimostrarsi determinati nelle proprie ambizioni di crescita professionale e nel voler intraprendere un nuovo percorso volto a raggiungere gli obiettivi del ruolo per cui ci si candida.

7. Curiosità.
Se è vero che a un colloquio ci si aspetta di dover rispondere a tante domande, farne a propria volta di interessanti e intelligenti darà al candidato una chance in più.

8. Consapevolezza.
Il cv avrà dato al selezionatore una prima idea del professionista, ma il resto sarà necessario raccontarglielo. Preparare una presentazione di sé, coerente con quanto racconta il cv e che sia onesta al punto da saper mostrare la consapevolezza dei punti deboli, renderà la candidatura apprezzabile.

9. Soft skills.
Le capacità che raggruppano le qualità personali, le conoscenze e l’atteggiamento in ambito lavorativo. Sono un aspetto fondamentale anche per un senior, da non trascurare e da mettere in rilievo anche più delle abilità tecniche acquisite.

10. Flessibilità.
Fare del cambiamento il proprio assioma di vita professionale. Adattabilità ed eventuale disponibilità a cambiare ruolo sono elementi indispensabili.

11. Esperienze extra professionali.
Quello che si è imparato nelle precedenti mansioni, come lo si è svolto, è di certo un punto importante da presentare durante un colloquio. Non è però l’unico; per rendere appetibile la propria candidatura è necessario fare leva anche sulle esperienze extra professionali se originali o rilevanti.

a cura di Diego Di Barletta, director di Finance Hunters

Da AIMBA e ATEMA un interessante convegno a Roma

AIMBA e ATEMA organizano un interessante incontro sul tema “La via professionale per il management di successo – Etica, formazione e regole“. L’appuntamento è per il 19 ottobre dalle 15.30 alle 17.30 a Roma allo spazio Roma Eventi, Sala Belli, Piazza della Pilotta 4

AIMBA e ATEMA da sempre si occupano dello sviluppo professionale del management d’impresa e dell’evoluzione della professione manageriale, affinché sia sempre più adeguata alle esigenze del sistema imprenditoriale e ai cambiamenti del mercato.

Le moderne sfide della competitività e globalità, unite alle esigenze di un nuovo modello di sviluppo, oltre l’attuale crisi economica e le sue cause strutturali, richiedono una crescita dei processi di direzione aziendale più orientati al riconoscimento del management come una disciplina portatrice di proprie conoscenze, competenze e regole di condotta e anche capace di potere affermare il proprio patrimonio culturale sui processi di governo istituzionale.

Il convegno si propone di affrontare insieme ad autorevoli esponenti del mondo manageriale queste tematiche per costruire “la via professionale a un management di successo”: che porti alla definizione di processi di cambiamento per lo sviluppo di imprese sostenibili: innovazione e nuovi modelli di business; la formazione interculturale e multidisciplinare; responsabilità, integrità e qualità; condivisione di principi e regole di etica professionale.

In particolare, si analizzerà la funzione della formazione per lo sviluppo di un management professionale, concependo questa materia in un’accezione innovativa, che tenga conto non solo delle modalità tradizionali ma anche quelle che favoriscono logiche più partecipative e coerenti con le abilities richieste dalle attuali sfide di cambiamento.

Intervengono all’incontro:

Maurizio Bottari
Amministratore Unico Ambire

Guido Carella
Presidente Manager Italia

Stefano Cordero di Montezemolo
Presidente AIMBA

Marco Croci
Partner at Concerto

Angelo Deiana
Presidente Comitato Scientifico CoLAP

Marco Minghetti
Docente di Humanistic Management presso l’Università di Pavia

Paola Palmerini
Presidente ATEMA

L’ingresso è libero previa iscrizione entro il 18 ottobre ai seguenti recapiti: plusitalia@hotmail.it, tel. 3346653142