Rivalutazione assegno familiare e di maternità

La tanto attesa rivalutazione dell’ assegno familiare e dell’assegno di maternità è arrivata. Lo ha comunicato l’Inps attraverso una circolare con la quale ha reso noto le rivalutazioni per l’anno 2016 degli assegni in oggetto, concessi dai Comuni.

Nello specifico, l’Inps ha comunicato che l’ assegno familiare è pari a 141,30 euro. Per le domande relative al medesimo anno, il valore dell’indicatore della situazione economica equivalente (Isee) è pari a 8.555,99 euro

A differenza dell’ assegno familiare, l’importo dell’assegno mensile di maternità, spettante nella misura intera, per le nascite, gli affidamenti preadottivi e le adozioni senza affidamento avvenuti dall’1 gennaio al 31 dicembre 2016 è pari a 338,89 euro per cinque mensilità, per complessivi 1.694,45 euro. In questo caso, il valore dell’indicatore della situazione economica equivalente (Isee) da tenere presente per le nascite, gli affidamenti preadottivi e le adozioni senza affidamento avvenuti durante lo stesso periodo di tempo di cui sopra (1 gennaio – 31 dicembre 2016) è pari a 16.954,95 euro.

Assegni familiari, valori fermi a quelli del 2015

Non arrivano buone notizie per i contribuenti percettori di assegni familiari. Il loro importo, infatti, rimarrà fermo ai valori del 2015, lasciando di fatto invariato il valore degli assegni familiari.

Lo ha comunicato la Presidenza del Consiglio dei Ministri, la quale ha informato che sì, sono state rivalutate, per il 2016, la misura e i requisiti economici degli assegni familiari per il nucleo familiare numeroso e degli assegni di maternità, ma con una importante precisazione.

Secondo un comunicato della Presidenza del Consiglio, infatti, l’articolo 1, comma 287 della legge 208 del 28 dicembre 2015 stabilisce che “con riferimento alle prestazioni previdenziali e assistenziali e ai parametri ad esse connessi, la percentuale di adeguamento corrispondente alla variazione che si determina rapportando il valore medio dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per famiglie di operai ed impiegati, relativo all’anno precedente il mese di decorrenza dell’adeguamento, all’analogo valore medio relativo all’anno precedente non può essere inferiore a zero”.

Dal momento che tali variazioni sono state negative, per il 2016 misura e requisiti economici degli assegni familiari per nucleo familiare numeroso e degli assegni di maternità rimangono fermi ai valori indicati nel Comunicato del Dipartimento per le politiche della Famiglia pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 70 del 25 marzo 2015.

Inaz: progetto famiglia-lavoro

Se la competitività tra i sessi gioca un ruolo fondamentale sul luogo di lavoro, il rischio è che essa si traduca in una competizione fra uomo e donna anche sotto il tetto domestico. In Italia crescono le coppie in cui lavorano sia lui che lei, secondo le stime dell’ultimo Rapporto sulla coesione sociale presentato da Ministero del Lavoro, Istat e Inps nei giorni scorsi.

L’Italia è però ancora molto lontana dall’adottare una politica di welfare aziendale che testimoni una reale parità fra i sessi: la retribuzione media femminile è infatti ancora minore (in media del 20%) rispetto a quella maschile, mentre in tema di congedi parentali, in 9 casi su 10 tocca alla donna assentarsi dal posto di lavoro.

Un passo in avanti nel tentativo di uscire dagli stereotipi di genere è stato compiuto da Inaz, azienda di oltre 400 addetti con sede a Milano, con il progetto Famiglia-Lavoro: “”Usiamo gli strumenti della flessibilita’ e della formazione – spiega la presidente e AD di Inaz, Linda Gilli – per gestire al meglio le situazioni individuali e mantenere la professionalità di chi si assenta per il congedo parentale”. “L’obiettivo – continua la Gilli – è incentivare il rientro dopo tre mesi, su base volontaria, seguendo sempre il dipendente durante l’assenza e applicando dove possibile il part-time e il telelavoro”.

Il progetto Inaz famiglia-lavoro prevede poi una serie di focus group, composti da dipendenti e da un Comitato Famiglia-Lavoro, che hanno lo scopo di sensibilizzare i colleghi a non considerare l’assenza per maternità o paternità alla stregua di un aggravio di lavoro e responsabilità. Impresa non facile perché si tratta “di cambiare mentalità radicate – continua la Gilli. – Bisogna superare stereotipi che mortificano sia le donne, viste solo nel loro ruolo di ‘brave mamme’, sia gli uomini, ritenuti incapaci di curare e crescere i figli piccoli”.

Lo scopo del progetto promosso da Inaz è stimolare il management a proteggere le competenze professionali e settoriali acquisite da ciascun dipendente anche e soprattutto durante il periodo di congedo. Occorre poi valorizzare le persone al rientro, attraverso opportuni percorsi di formazione che ne permettano il reinserimento in azienda dopo un periodo di breve o protratta assenza.

“La questione del lavoro femminile non e’ un problema esclusivo delle donne – conclude Linda Gilli – ogni lavoratore deve essere messo in grado di organizzare il proprio tempo e dare il meglio in azienda. Se questo si verifica, l’impresa può solo crescere”.

Riforma fiscale: le novità per le donne

Più spazio alle donne e ai giovani per superare l’attuale crisi. Sono queste le priorità espresse dal neopremier Mario Monti durante il suo discorso alle Camere, prima del voto di fiducia. L’obiettivo è trovare soluzioni che garantiscano un più facile accesso alle donne nel mondo del lavoro, in particolare per le mamme e le neomamme. Anche se è di oggi la notizia di un’infermiera che in 9 anni ha lavorato solo 6 giorni grazie a finte maternità, l’impegno di Monti è volto a trovare soluzioni alle “difficoltà di inserimento o di permanenza in condizione di occupazione delle donne”.

Ma quali sono le proposte?

Abbassare l’imposta pagata dalle lavoratrici, con corrispondente innalzamento per gli uomini, in modo da ridurre il costo del lavoro per le aziende che assumono donne. Questa iniziativa dovrebbe favorire l’accesso al mondo del lavoro da parte delle donne. Alzando di un punto percentuale l’Irpef degli uomini e abbassando corrispettivamente quella femminile si avrebbe un gettito fiscale invariato, ma di stimolo per l’assunzione “in rosa”. L’idea alla base d questo progetto nasce da un lavoro di due economisti, Alberto Alesina e Andrea Ichino.

Numerosi i riscontri favorevoli a questa iniziativa: l’aumento dell’imponibile sul lavoro maschile incrementa il gettito fiscale, ma non intacca la forza lavoro degli uomini, non causando cioè licenziamenti. Dall’altro lato, se si aumenta il numero delle donne impiegate a un’aliquota inferiore, si assiste ad una riduzione del costo del lavoro per le aziende, laddove il gettito fiscale rimarrebbe invariato.

Esistono però dei limiti a tale proposta. La disoccupazione femminile in Italia, la più alta in Europa, non è legata al costo del lavoro, ma è quanto più un deficit di tipo culturale. Il rischio per un’azienda che decida di assumere una donna al posto di un uomo è che la donna potrebbe lasciare temporaneamente il posto di lavoro per maternità. Inoltre, i maggiori problemi legati alla disoccupazione femminile sono riscontrabili nel Mezzogiorno, dove le famiglie in cui lavoro solo l’uomo sono più numerose. Un aumento dell’imponibile sul lavoro maschile colpirebbe dunque la capacità di spesa delle famiglie.

Una medaglia dalla doppia faccia, dunque la proposta avanzata dal nuovo governo Monti. Più facilmente attuabili appaiono invece le iniziative legate al sostegno alla famiglia per favorire il rapporto tra donne e lavoro. Qualche esempio? Garantire un accesso più facile agli asili nido e allungare il tempo scolastico. Ma siamo appena all’inizio, e la sfida si preannuncia difficile.

Alessia Casiraghi

L’imprenditoria in rosa vuole un primato di quantità e di qualità

Le imprenditrici in Italia hanno raggiunto un importante primato, sbaragliando le “colleghe” europee e ponendosi in vetta nel vecchio continente in quanto a numero di lavoratrici autonome.

E’ ciò che emerge dall’Osservatorio sull’imprenditoria femminile curato dall’Ufficio studi di Confartigianato.
Con 1.531.200 imprenditrici e lavoratrici autonome, dunque, l’Italia “batte” Germania, seconda con 1.383.500 imprenditrici e il Regno Unito, terzo con 1.176.500 donne lavoratrici autonome. Questa leadership italiana nell’Ue viene confermata anche dal peso che l’imprenditoria femminile ha sul totale delle donne occupate: in Italia è del 16,4%, di gran lunga superiore al 10,3% della media dell’area Euro.

Ovviamente, non si tratta di dati che interessano equamente tutto il territorio nazionale e, per quanto riguarda il belpaese, pare che l’habitat migliore sia in Friuli Venezia Giulia, che guida la classifica delle regioni con le condizioni ideali perché si sviluppino l’imprenditorialità e l’occupazione femminile. Sul podio anche Emilia Romagna e Umbria.
Per quanto riguarda le provincie, invece, quelle “amiche” del lavoro in rosa sono Udine, Gorizia e Rimini. Agli ultimi posti finiscono invece la Campania, la Sicilia e la Puglia. E tra le province con le peggiori condizioni per l’occupazione femminile si trovano Napoli, Palermo, Caltanissetta.

Franca Compestella, presidente regionale di Donne Impresa Emilia Romagna, ha commentato positivamente questo risultato: “Credo siano dati di cui andare fieri, siamo in presenza di una imprenditoria femminile forte e dinamica che va incoraggiata. Per farlo servono ovviamente quelle semplificazioni burocratiche e quelle riduzioni di costo che soffocano le iniziative delle imprese siano esse condotte da uomini o donne”. Anche se le esigenze specifiche delle donne lavoratrici andrebbero riviste e sviluppate con “maggiori interventi sul welfare che permettano loro di non rimanere schiacciate dall’impossibilità di conciliare lavoro e famiglia. Non possiamo nasconderci dietro un dito, sono le donne a portare il carico maggiore quando si tratta della cura dei figli, dei familiari anziani o nona autosufficienti, in questi campi ci attendiamo maggiore attenzione dalle amministrazioni, soprattutto quelle locali”.

Nonostante, però, questi dati, c’è il rovescio della medaglia che non è del tutto roseo, dal momento che la partecipazione femminile al mercato del lavoro rimane tra le più basse d’Europa. Il tasso di inattività delle donne nel nostro Paese è del 48,9%, a fronte della media europea del 35,5%.
Ciò significa che l’Italia arranca nei confronti dell’Europa, e il divario da coprire è ancora molto ampio, dal momento che il nostro attuale tasso di inattività delle donne è uguale a quello registrato nel 1987 dai Paesi dell’allora Comunità europea. E questa distanza diventa ancora più evidente nelle regioni del sud.
La Campania, tra le 271 regioni europee, fa registrare il più alto tasso di inattività femminile: 68,9%. All’altro capo della classifica la Provincia autonoma di Bolzano dove il tasso di inattività si dimezza al 34,9%. A livello provinciale la maglia nera va a Napoli, dove il tasso di inattività delle donne sale addirittura al 72,4%. Ravenna, invece, conquista il primato positivo della provincia con la più bassa percentuale di donne inattive: 30,7%.

E a spiegare questi numeri così “desolanti” è ancora una volta lo scarso investimento nei servizi di welfare che dovrebbero favorire la conciliazione tra attività professionali e cura della famiglia. Non investire in famiglia e maternità è una mossa non solo azzardata, ma anche controproducente per l’occupazione femminile, ormai indispensabile per trainare l’Italia fuori da una crisi infinita. Ma per ora non sembra che questo rappresenti, per lo Stato, un problema urgente, se pensiamo che nel nostro Paese solo l’1,3% del Pil è stato speso a favore di interventi per famiglia e maternità.

Tradotto in cifre, significa che in Italia la spesa pubblica per famiglia e maternità è pari a 320 euro ad abitante, vale a dire 203 euro in meno rispetto alla media dell’Europa a 27.
Nei maggiori paesi europei si spende ben il doppio: in Germania il 2,8% del Pil e in Francia il 2,5%. E nei Paesi del Nord aumenta ancora: in Danimarca il 3,8% del PIL viene destinato a spesa pubblica per la famiglia, in Irlanda la quota è pari al 3,1%, in Finlandia e Svezia è del 3%.

Di pari passo vanno i servizi pubblici per l’infanzia, altamente carenti da noi, con una percentuale di bambini che usufruiscono di asili nido e micronidi che non supera il 12,5%, ovvero un terzo dell’obiettivo di Lisbona del 33% programmato per il 2010.

Non va meglio per i servizi di cura e assistenza agli anziani. L’indicatore esaminato da Confartigianato è dato dalla percentuale di anziani trattati in assistenza domiciliare integrata (ADI) rispetto al totale della popolazione con 65 anni e oltre. Anche tale indice, in media nazionale, è sostanzialmente modesto e pari al 4,3%.

Ma se si vuole crescere ed essere all’altezza degli altri Paesi Ue, la mentalità deve cambiare.

Vera Moretti

Cosa succede se l’Agente di Commercio diventa mamma?

In caso di gravidanza e maternità, anche l’Agente di Commercio ha diritto ad un periodo di tempo per dedicarsi esclusivamente alla famiglia. Infatti, secondo quanto previsto dagli accordi economici collettivi (AEC), l’agente può richiedere alla casa mandante  un periodo di sospensione del rapporto lavorativo per gravidanza/maternità.

Ma quanto dura il periodo di sospensione per maternità che l’agente può richiedere?

Il periodo di sospensione per maternità che l’agente può richiedere la casa mandante può arrivare ad un massimo di dodici mesi consecutivi.
Durante quel periodo la casa mandante ha il diritto di affidare la gestione del portfolio ad un altro agente, sostituto, il quale si avvarrà dell’organizzazione dell’agente in maternità. Al termine del periodo di maternità, la casa mandante dovrà reintegrare l’agente che era in maternità e riaffidarle il suo portfolio clienti.

Ovviamente l’agente in maternità, durante il periodo di sospensione, non potrà avanzare diritti provvigionali sugli affari promessi e conclusi direttamente dall’azienda o da agenti sostituti, a meno che derivino da attività in precedenza svolte dall’agente in maternità.