Chi ha paura della diversity?

PageGroup ha condotto una ricerca nazionale su un campione di 1.202 intervistati, di cui 372 impiegati in società dove sono applicate le politiche di Diversity & Inclusion, da cui emerge che per 2 aziende su 5, politiche di questo tipo sono gestite da meno di 3 anni.

Si tratta di un fenomeno nuovo, dove c’è ancora molto da fare, soprattutto nelle aziende di dimensioni minori – afferma Tomaso Mainini, Managing Director di Michael Page Italia, parlando dei risultati di questa ricerca sulla diversity -. Un aspetto che abbiamo deciso di approfondire per dare una fotografia di quale sia la situazione in Italia rispetto a un argomento delicato, ma fondamentale per il benessere dei luoghi di lavoro che sappiamo essere decisivo, e questa indagine lo dimostra, sulla motivazione e sulla produttività dei manager e dei dipendenti in generale”.

Dalla ricerca risulta infatti che l’82,5% delle aziende con meno di cento dipendenti non applica pratiche di Diversity & Inclusion. Gli ostacoli allo sviluppo di queste attività sono:

  • la convinzione che non si tratti di tematiche rilevanti per l’azienda nel 39,6% dei casi (54,2% per aziende con meno di cento dipendenti);
  • la mentalità del dipendente e in particolare la non accettazione di determinati gruppi di persone per il 37,1%;
  • uffici non adatti a ospitare personale con disabilità per il 27,5%.

Al contrario, le principali motivazioni per l’’attuazione di politiche di diversity nelle aziende sono l’’adattamento alle imposizioni legali per il 74,2% degli intervistati e ragioni etiche per il 67,4%. Il 62,9 delle donne ritiene che sia importante la ricezione di finanziamenti, mettendo quindi in primo piano l’’aspetto economico.

Sugli ambiti per cui sono state applicate politiche di Diversity & Inclusion nelle aziende in cui queste sono attive (campione 372 dipendenti), il 60,2% ha indicato il genere come area su cui queste pratiche sono state prevalentemente realizzate (il 68,2% per le aziende con più di mille dipendenti); a seguire, la nazionalità per il 59,1%, la razza per il 53,5% e l’’età per il 49,5%. Proprio l’’età è l’’ambito per il quale il 36,2% dei dipendenti pensa che sia più necessario implementare pratiche di diversity perché ancora troppo spesso oggetto di discriminazione.

Tra le principali attività svolte dalle aziende, il 38,7% degli intervistati ha indicato la promozione dell’’uguaglianza tra uomini, donne e razze. Al secondo posto con il 28% contratti e orari flessibili per consentire di conciliare vita privata e professionale. Infine, con il 26,9% le politiche per evitare la discriminazione sessuale, ad esempio durante il processo di selezione o sul posto di lavoro.

Dall’’indagine emerge anche una panoramica sulle caratteristiche che un manager dovrebbe avere per gestire al meglio un team di lavoro eterogeneo. Per il 55,2% degli intervistati la capacità più apprezzata è l’’ascolto attivo. A seguire, si trovano identificazione dei punti di forza e debolezza (47,3%), la capacità di lavorare con team differenti per cultura, usi e costumi (41%), la capacità di comunicare (33%), di identificare le criticità (33%) e di risolvere i conflitti (30,9%). Leggermente meno importanti sono, infine, l’’empatia (26,1%) e la capacità di apprendere dagli altri (18,8%).

Infine, un dato positivo quanto indicativo: il 58,3% delle persone intervistate esprime soddisfazione riguardo alle pratiche di diversity. Nello specifico, gli ambiti in cui sono stati percepiti maggiormente i benefici delle policy attuate sono il miglior equilibrio tra vita professionale e privata (28%), la maggior soddisfazione al lavoro (27,7%) e il miglioramento dell’’employer branding (20,7%).

Risorse Umane, risorse per la crescita

Come sarà il prossimo anno sul fronte dell’occupazione in Italia e nel mondo? Al di là delle cifre e dei proclami che arrivano da fonti governative, chi ha maggiormente in polso della situazione in questo ambito sono i direttori delle Risorse Umane delle aziende, piccole o grandi che siano.

Secondo l’ultimo HR Barometer stilato da Michael Page, società di ricerca e selezione di personale specializzato a livello mondiale nell’ambito del middle e top management, nei prossimi mesi si verificherà una crescita delle assunzioni. Lo prevede il 35% degli HR leader italiani e circa la metà (48%) di quelli presenti in tutto il mondo. In aumento anche la rilevanza delle Risorse Umane – ormai viste come sempre più strategiche per il successo del business – e il budget dedicato alla divisione HR.

Nel primo semestre 2015 Michael Page ha infatti realizzato uno studio nell’ambito delle Risorse Umane a livello mondiale su 2.500 HR manager appartenenti a un gruppo rappresentativo di industrie, dalle Pmi ai marchi blue chip, in 65 Paesi. In Italia sono stati interpellati 133 manager e dirigenti.

Dall’indagine emerge una tendenza generale legata alla ripresa della corsa ai talenti e soprattutto dell’occupazione: il 35% degli HR leader italiani prevede nei prossimi dodici mesi un aumento della forza lavoro (48% secondo il report globale). In più, il 24% delle organizzazioni aziendali ha incrementato il budget dedicato alla divisione Risorse Umane.

Per quanto riguarda le priorità delle Risorse Umane, in Italia risultano ai primi posti la gestione del cambiamento e i progetti di trasformazione (38%), alla pari con la formazione e sviluppo, seguite con un distacco minimo dalla gestione delle performance (37%) e del talento (32%). Parametri come le relazioni con i dipendenti e l’acquisizione di talenti o recruitment hanno un peso pari rispettivamente del 32% e del 29%.

Al di sotto della media globale si trova invece l’employer branding (4%). Sia in Italia sia nel mondo la gestione delle diversità e l0integrazione sono considerate fondamentali solo dai responsabili Risorse Umane nel 4% delle aziende.

L’indagine di Michael Page ha inoltre analizzato le modalità sulle quali le Risorse Umane misurano il successo. Al primo posto, per l’Italia, con il 65% delle risposte si posizionano le performance dei dipendenti, seguite dalle competenze (58%) e dalle performance manageriali (39%). Il coinvolgimento del dipendente, che nel mondo ha una rilevanza superiore anche rispetto alle competenze e occupa il terzo posto in ordine di importanza con il 46%, ottiene in Italia il 31% delle scelte.

Una differenza ancora più sostanziale tra l’Italia e gli altri Paesi riguarda il turnover del personale: su dimensione globale è il secondo fattore più misurato per valutare le prestazioni dei dipendenti, in Italia è decisivo solo per il 17% dei leader nell’ambito Risorse Umane.

Ciò che accomuna la tendenza del ruolo HR tra Italia e resto del mondo è la crescita della sua influenza, sempre più strategica soprattutto per attrarre, assumere e trattenere talenti. Un aspetto che, in Italia, è rilevante per il 62% dei manager, ma a livello globale conta ben l’86%. Rimanendo nei confini nazionali, l’influenza delle Risorse Umane è importante per le relazioni con i dipendenti (87%), la formazione e sviluppo (85%), l’Hr policy (83%), la gestione delle performance (77%), retribuzioni e benefits (75%).

Infine, un dato importante per misurare il peso delle Risorse Umane in azienda: il 73% degli HR leader italiani nel senior management riporta direttamente alle figure apicali dell’azienda, Ceo, Cfo, presidente, direttore generale.

Manager italiani, il futuro è fuori dai confini

Se è in aumento il numero degli italiani che si trasferiscono all’estero per trovare lavoro, non bisogna pensare che questa tendenza sia limitata alle figure professionali più basse. Anche i manager italiani sono sempre più attratti dalle esperienze professionali oltre confine, che scelgono di fare per diversi motivi.

Lo ha rilevato Michael Page Italia, società specializzata nella selezione e ricerca di professioni a livello di middle e top management, che ha segnalato nell’ultimo anno un aumento del 35% del numero di manager italiani che hanno cercato maggior fortuna fuori dai nostri confini.

Secondo Michael Page, a partire dal 2010 l’aumento è stato del 30% anche a causa delle forti criticità del mercato del lavoro che hanno comportato spesso la perdita dell’occupazione e la difficoltà nel ricollocarsi.

Sempre secondo le rilevazioni di Michael Page, se da un lato la caratteristica imprescindibile per poter intraprendere una carriera all’estero è la conoscenza fluente dell’inglese, unita a quella di almeno un’altra lingua, dall’altro l’esperienza fuori confine consente ai manager di aumentare spesso la propria retribuzione, cosa che può influire sulla decisione di tornare a lavorare in patria.

I Paesi dove maggiormente si sono indirizzati i manager italiani sono quelli dell’America Latina (Brasile, Cile, Colombia, Perù) o dell’Asia (India, Cina, Indonesia), dove si trovano le economie più dinamiche. Restano comunque un cima ai sogni dei nostri dirigenti Svizzera, Cina, India, Brasile, Singapore e Usa.

Il Jobs Act e i manager italiani

Sono molti gli aspetti del Jobs Act sui quali imprese e professionisti si dividono, specialmente per quello che riguarda gli incentivi alle assunzioni e, in generale, le dinamiche legate all’occupazione. Ecco perché Michael Page, società di ricerca e selezione di personale specializzato nel middle e top management, ha realizzato un’indagine a livello nazionale su un campione di 705 professionisti tra i 35 anni e i 45 anni, con provenienza da diversi settori e zone geografiche per capire quali effetti ha su di loro il Jobs Act.

Dai risultati dell’indagine emerge che solo il 5,5% dei manager intervistati sarebbe incline a cambiare lavoro per effetto del Jobs Act; ben il 44,3% è meno propenso a farlo e oltre il 50% ritiene che la nuova Legge non impatti su questa scelta.

L’influenza del Jobs Act non è determinante per il 75,5% dei candidati nel favorire la ricerca di un nuovo lavoro, mentre il restante 24,5% che ne riconosce l’utilità, afferma che la riforma lo aiuterà a trovare un lavoro a tempo indeterminato (17,4%).

Di fronte alla domanda su quanto fosse ritenuta interessante una nuova opportunità lavorativa con un aumento economico del 10/20%, in riferimento alla nuova Legge sulle tutele crescenti, oltre un quarto dei candidati (il 27%) si è dichiarato non interessato.

Quali sono, invece, le priorità dei candidati oggi, a fronte dell’attuazione della riforma, nella fase di negoziazione con il nuovo datore di lavoro? La retribuzione si distingue come l’elemento decisivo: il 53,2% sceglie un aumento dello stipendio superiore del 20% al consueto come prima opzione da poter contrattare. Seguono più mesi di indennizzo in caso di licenziamento illegittimo da parte del datore di lavoro (16,2%), il riposizionamento all’interno dell’azienda in caso di licenziamento illegittimo (15%) e il mantenimento delle condizioni del vecchio contratto per un determinato periodo (10,8%).

Sorprendente, invece, i dato sull’informazione dei manager riguardo il Jobs Act: dal sondaggio di Michael Page risulta che il 32,3% degli intervistati non conosce il contenuto della nuova legge sul lavoro.

Professioni It tra lavoro e stress

Uno degli ambiti professionali nei quali la richiesta di profili elevati è sempre molto alta è quello delle professioni It. Un settore che Michael Page, società di ricerca e selezione di personale specializzato nell’ambito del middle e top management, ha analizzato attraverso un’indagine proprio sulle professioni It.

Lo studio si è basato su un campione di 586 intervistati in tutta Italia, formato da persone che si occupano nel 32,8% dei casi di progetti trasversali, nel 21,3% di software, per il 13,3% di infrastrutture e di progetti Erp per il 13,1%, distribuite secondo queste tipologie: il 91% uomini, il 9% donne; l’8% di età al di sotto dei 35 anni, il 54% fra i 36 e i 45 anni e il 38% oltre i 45 anni; il 26% degli esercitanti le professioni It coinvolti nel sondaggio le svolge nell’industria, il 25% nella consulenza e il 15% nel settore bancario e assicurativo; il 33% diplomati, il 24% laureati di secondo livello e il 23% laureati in ingegneria.

Ebbene, da questo studio di Michael Page sulle professioni It emerge intanto un altissimo livello di occupazione: 93,2%. Il 52,7% degli intervistati guadagna tra i 35 e i 55mila euro. In particolare, tra chi si occupa di software il 70,4% percepisce uno stipendio inferiore ai 55mila euro annui, mentre chi gestisce progetti trasversali guadagna oltre 55mila euro.

Svolgere delle professioni It fa mediamente bene alla proprio approccio al lavoro. Secondo Michael Page, si dichiara motivato il 52,9% degli intervistati. Il 54,2% lega la propria soddisfazione invece allo stipendio, mentre ben il 96,8% la lega al riconoscimento, che però pare un elemento poco diffuso all’interno dei contesti lavorativi esaminati: solo il 32,4% pensa di averne all’interno del proprio ambiente di lavoro.

Le più motivate tra chi svolge delle professioni It non sono le donne: il 39,1% delle intervistate pensa di non avere opportunità di carriera e il 30,4% si lamenta dello stipendio. Sia uomini (95%) sia donne (84%) sono concordi nel chiedere al datore di lavoro l’opportunità di affrontare nuove sfide, sia in termini di progetti sia tecnologie, tanto che la richiesta di obiettivi sfidanti appare una delle più importanti leve a disposizione dei datori di lavoro per trattenere i talenti in azienda.

Talenti che, secondo i risultati della ricerca, nell’ambito delle professioni It si possono trattenere anche impostando in azienda un buon rapporto tra della qualità di vita e lavoro, dando la giusta visibilità del ruolo all’interno della struttura societaria, adeguando la retribuzione in base alla seniority, e alla crescita professionale, ma soprattutto investimento nella formazione costante.

Un’ultima occhiata al capitolo stress, che nelle professioni It pare presente, eccome. Solo il 37,5% degli intervistati dichiara infatti di non vivere situazioni stressanti. Dai dati emerge anche che il settore It è caratterizzato da una certa staticità delle posizioni: i due terzi del campione (64,8%), lavora da almeno quattro anni nella stessa azienda. Interrogati circa il futuro, il 74,4% ha una percezione positiva del mercato e dell’evoluzione dei settori e delle professioni It.