Il mercato immobiliare rialza la testa

Negli anni bui della crisi, il settore dell’edilizia è quello che ha subito i contraccolpi più violenti e il mercato immobiliare ne ha risentito di conseguenza. Ora, però, qualche timidissimo segnale di ripresa si sta facendo vedere e il mercato immobiliare pare rialzare la testa.

Questo è ciò che traspare dalle rilevazione dell’Ufficio Studi del Gruppo Tecnocasa che, sulla base dei dati forniti dall’Agenzia delle Entrate, ha analizzato l’andamento delle compravendite nelle grandi città italiane nel primo trimestre del 2016.

Il ribasso dei prezzi sul mercato immobiliare, la maggiore disponibilità delle banche a erogare mutui, i tassi particolarmente vantaggiosi di questi ultimi e un ritorno all’investimento hanno rimesso in moto il mercato immobiliare italiano.

A livello nazionale, le compravendite residenziali nel primo trimestre 2016 sono state 115.135, con un aumento del 20,6% rispetto allo stesso periodo del 2015. Il mercato immobiliare di tutte le principali città della Penisola ha mostrato volumi in aumento; spiccano i casi di Torino (+37,3%), Genova (+27,8%) e Milano (+26%), mentre Roma, con 6.564 compravendite, è la città che fa segnare il maggior numero di transazioni.

Buoni anche i dati di Napoli e Firenze, entrambe sopra il 20% (rispettivamente +22,9% e +21,8%), anche se il capoluogo toscano è, insieme a Palermo, quello nel quale il mercato ha fatto registrare, nel trimestre, un numero di transazioni solo di poco superiore al migliaio: 1063 a Firenze, 1084 a Palermo.

Mercato del lavoro e flessibilità? Incompatibili

Il mercato del lavoro italiano non è certo uno dei più elastici in Europa. Sono diversi i fattori che contribuiscono alla sua rigidità e molti gli aspetti di modernità che ancora gli mancano per poter fare il salto di qualità di cui ha bisogno.

Uno dei campi nei quali si misura il ritardo dell’Italia è quello del lavoro flessibile, come testimoniato dalla survey Future People: Le postazioni di lavoro nell’era della trasformazione digitale, realizzata da Cornerstone OnDemand e IDC e svolta sul mercato del lavoro di 16 Paesi europei.

L’indagine ha analizzato il mercato del lavoro di Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Polonia Spagna, Svezia e Svizzera e ha posizionato il nostro Paese al decimo posto per quanto riguarda la capacità delle nostre imprese di implementare policy di digitalizzazione a favore della flessibilità di orari e spazi di lavoro. Una scarsa attenzione che porta i dipendenti italiani a raccomandare il proprio posto di lavoro solo nel 59% dei casi, contro una media europea del 71%.

In sostanza, il mercato del lavoro rigido ed eccessivamente regolamentato presente nel nostro Paese fa sì che le imprese di casa nostra diano poco valore al lavoro flessibile, senza comprendere le potenzialità che esso ha per il benessere dei dipendenti.

Secondo la survey, le imprese italiane si pongono dunque sul mercato del lavoro con percentuali non all’altezza per quanto riguarda alcuni aspetti determinanti nel campo della flessibilità lavorativa. Nello specifico solo il 67% di loro propone attività ricreative sul posto di lavoro, uno scarso 58% mette a disposizione postazioni di lavoro flessibili, il 66% si serve di open space, il 69% utilizza sistemi IT accessibili da nuovi device e il 76% attua orari flessibili. Percentuale dignitosa solo sul fronte della mobilità interna: 86%.

Conclude il quadro poco edificante la scarsa importanza che le imprese italiane attribuiscono, nelle loro policy, alla condivisione e alla collaborazione: solo il 53% dei dipendenti è incoraggiato ad assumersi nuove responsabilità, il 51% è stimolato a condividere la conoscenza o viene coinvolto nei processi decisionali aziendali e a un misero 43% è spinto sono affidate decisioni importanti da prendere in autonomia.

Energia, accordo ENEA MiPAAF

Promuovere l’efficienza energetica e l’utilizzo di fonti rinnovabili nel settore agricolo, forestale e nell’agroindustria, ottimizzando i consumi e migliorando i risparmi, in particolare delle attività a più alta intensità energetica. È questo uno dei principali obiettivi del Protocollo di intesa firmato dal sottosegretario al ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali (MiPAAF), Giuseppe Castiglione, e dal presidente dell’Agenzia Nazionale per le Nuove Tecnologie, l’Energia e lo Sviluppo Economico Sostenibile (ENEA), Federico Testa.

Il Protocollo prevede una rafforzata collaborazione fra ENEA e MiPAAF per migliorare l’efficienza energetica nel sistema agricolo-alimentare, diminuirne gli impatti ambientali e rafforzare il trasferimento di know-how e metodologie innovative, anche attraverso attività di informazione e comunicazione sui consumi di energia, in ambito nazionale e regionale, così come stabilito dalla Direttiva Europea 27/EU/2014.

L’ENEA, inoltre, collaborerà con il ministero per sostenere l’introduzione di processi e tecnologie innovative per la realizzazione di impianti di produzione di energia rinnovabile, l’efficientamento di quelli esistenti e di progetti pilota; verrà inoltre promosso l’utilizzo efficiente di prodotti agricoli e agroindustriali a fini energetici e per la produzione di biometano e di biocarburanti da filiere nazionali. Ma non solo. ENEA e MiPAAF, supporteranno imprese ed enti di ricerca nazionali nella partecipazione a progetti europei e internazionali anche attraverso la costituzione di partenariati e l’elaborazione delle proposte.

Il settore agricolo e agroindustriale consuma ingenti quantità di energia, soprattutto calore ed elettricità per la produzione, trasformazione, conservazione dei prodotti di origine animale e vegetale, per il funzionamento delle macchine e la climatizzazione degli ambienti di produzione e trasformazione.

Secondo l’ultimo Rapporto ENEA sull’efficienza energetica, a livello Ue il settore agricolo-alimentare assorbe il 26% dei consumi finali di energia, mentre in Italia circa il 13%. Con opportuni interventi di efficientamento tecnologico, a livello nazionale si potrebbero ridurre del 25% i consumi di energia nell’irrigazione e fino al 70% nei sistemi di ventilazione e raffrescamento, con un ritorno degli investimenti compreso tra 5 e 7 anni.

L’ e-commerce è donna

Le donne sono i più potenti decisori d’acquisto che esistano e sono in grado di determinare non solo le sorti di un prodotto, ma anche di interi trend economici, come per esempio l’ e-commerce.

Una prova in questo senso arriva da uno studio americano, Marketing to Women 2016, realizzato dai riceratori di Fluent sulla base delle abitudini di acquisto di 1500 donne americane altamente digitalizzate e in confidenza con e-commerce e dintorni.

Stando ai risultati della ricerca, il 72% delle donne che ha autorizzato la ricezione di informazioni commerciali via mobile, il 71% di quelle che seguono determinati brand sulle loro pagine istituzionali sui social media e il 53% delle donne iscritte a newsletter informative su prodotti di vario genere, affermano di essere molto propense all’acquisto tramite e-commerce.

Il fatto che queste donne digitali “ingaggiate” abbiano un’attitudine positiva nei confronti dell’ e-commerce è dato dal raffronto con le donne e gli altri media diversi da internet. Solo il 41% di loro è spinta all’acquisto da quanto visto in televisione, il 35% di riceve messaggi dalla carta stampata e solo il 26% di chi segue cartellonistica e radio.

Dallo studio emerge anche una conferma di quanto abbiamo scritto qualche giorno fa: il crescente peso del cosiddetto m-commerce, ossia l’acquisto online tramite dispositivi mobile, sul totale dell’ e-commerce. Con ampi margini di miglioramento. Se, infatti, più del 55% del campione sostiene di avere sul proprio smartphone una o più app per lo shopping, ben il 76% di queste donne le utilizza non per acquisti ma per visualizzare prodotti e confrontare le offerte.

Naturalmente giocano un ruolo chiave in questo processo i social network, Facebook in primis: il 77% delle intervistate lo ritiene il canale principale per informarsi su brand, sconti e offerte. In questo modo, l’offerta social completa in un certo senso il panorama digital che spinge le donne all’ e-commerce, ma il loro potere potrà diventare davvero importante se riusciranno a rinforzare il ruolo e la funzione del digital marketing in modo da rendere le offerte e la comunicazione dell’acquisto sempre più un’esperienza unica e personalizzata sulle aspettative della cliente.

Non a caso, rilevano i ricercatori di Fluent, le donne costituiscono da sole l’85% della spesa consumer, per un giro d’affari di settemila miliardi di dollari. Intercettarne i gusti e le abitudini di consumo indirizzandole verso l’ e-commerce è una sfida che può portare benefici planetari.

Software pirata? No, grazie

Gli italiani non amano più il software pirata come un tempo, almeno stando ai dati elaborati dalla Global Software Survey che BSA The Software Alliance ha diffuso nei giorni scorsi. Da questi dati emerge che la quantità di software pirata installati sui computer in Italia è del 2%, dal 47% al 45%, rispetto alla precedente rilevazione del 2013.

I motivi alla base di questo calo sono la maturazione del mercato dell’Ict nel nostro Paese e la riduzione della base installata e delle vendite di nuovi pc. Parallelamente, vi è anche un incremento dell’impiego di software in modalità subscription e di servizi di software asset management.

Nonostante questo, in Italia la percentuale di software pirata installati è molto più alta rispetto alla media dell’Europa Occidentale, che si attesta intorno al 28%. Un utilizzo, quello del software pirata, che aumenta il rischio di cyber intrusioni, tanto sui pc privati quanto si quelli aziendali. di cyber intrusioni: solo nel 2015, per esempio, il costo sostenuto dalle aziende nel mondo a causa di cyber attacchi è stato di 400 miliardi di dollari.

Sempre secondo i dati della ricerca, il tasso di software pirata è stimato al 39% a livello mondiale, in calo dal 43% rispetto alla precedente edizione della ricerca del 2013. Il software pirata è risultato elevato anche in settori imprevedibili come quello bancario, assicurativo e finanziario (25%).

Inoltre, secondo i CIO circa il 15% dei dipendenti carica software pirata sulle reti aziendali al di fuori del loro controllo. Una stima sicuramente ottimistica, poiché il 26% dei medesimi impiegati ammette di praticare comportamenti illegali col pc aziendale.

Secondo Paolo Valcher, presidente del Comitato italiano di BSA, il calo dell’utilizzo di software pirata in Italia “è un risultato che ci fa molto piacere in quanto premia il lavoro svolto da BSA nel nostro Paese in questi anni. Per quanto un tasso d’illegalità del 45%, in pratica poco meno di 20 punti in più rispetto alla media europea, resta ancora un dato inaccettabile per una nazione evoluta e moderna quale l’Italia, oltre che un freno in più alla ripresa della nostra economia e dell’occupazione qualificata”.

Lusso e Paesi del Golfo, opportunità per il made in Italy

Uno dei mercati storicamente più forti per l’export del lusso made in Italy è quello dei Paesi del Golfo Persico. Le tensioni che da qualche anno si registrano legate all’andamento del prezzo del petrolio hanno fatto rallentare le economie dell’area, con ripercussioni anche sugli affari dei Paesi esportatori anche se, per fortuna, il mercato del lusso pare resistere.

Secondo quanto emerge dalla quarta edizione del White Paper, documento che analizza la situazione economica nel Golfo, realizzato dal Chalhoub Group, il lusso ha visto una crescita media annua del giro d’affari del 5,6% tra i sei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo nonostante, nell’ultimo trimestre 2015, il 38% dei consumatori degli Emirati Arabi abbia ridotto le spese per abbigliamento e tempo libero.

Lo studio di Chalhoub mostra però che la dinamica relativa al mercato del lusso rimane favorevole, soprattutto grazie alla crescita del numero di persone con alto patrimonio e conseguente alto potenziale di spesa: una crescita che dovrebbe continuare nei prossimi anni, almeno del 40% in Medio Oriente, contro il 25% che registreranno Nord America ed Europa.

Il rapporto stima infatti che questi potenziali acquirenti del lusso siano oltre 72mila negli Emirati Arabi e 59mila in Arabia Saudita, per tacere di realtà come Qatar e Kuwait ancora in risalita. Del resto, evidenzia lo studio, tra il 2009 e il 2014 la ricchezza della regione del Golfo è cresciuta del 50% e il numero di ultraricchi del 7,7%.

Ma c’è una tendenza nuova, nell’area, che ricalca quanto già visto sui mercati asiatici, in Cina specialmente, che è incoraggiante per le aziende del lusso che continuano a puntare su quei mercati: la nascita e la crescita di una classe media forte (è il 67% in Arabia Saudita), potenziale consumatrice di beni di lusso. E, dato insospettabile, anche in quei Paesi i più potenti decisori d’acquisto si stanno rivelando le donne.

Secondo il rapporto, in Arabia Saudita sono 105 le donne che fanno parte nella categoria degli ultraricchi e negli Emirati Arabi le donne detengono un patrimonio di quasi 22 miliardi di dollari. Insieme a questo, le donne del Golfo stanno diventando sempre più autonome, grazie anche a un elevato tasso di scolarizzazione. E, si sa, che cosa attira i gusti delle donne più dei beni di lusso?

Infine, un discorso sui cosiddetti millennial, i ragazzi nati sul finire dello scorso secolo. Grazie ai patrimoni di famiglia e a una crescente voglia imprenditoriale, secondo il White Paper questi consumatori hanno un ruolo sempre più attivo nel definire le dinamiche socio economiche della regione, contando soprattutto sul fatto che il 50% della popolazione è sotto i 30 anni.

Assocalzaturifici: ripresa? E chi la vede?

Lo abbiamo detto e ripetuto tante volte: la forza del made in Italy, nel campo del lusso ma non solo, è data dalla grande diffusione di piccole aziende artigianali. Una forza che diventa debolezza nel momento in cui queste aziende non riescono a fare sistema per fronteggiare la crisi e agganciare una ripresa che, lusso o non lusso, se c’è è ancora assai debole.

Una conferma è venuta in questi giorni da uno dei settori simbolo del lusso made in Italy, quello delle calzature, con l’assemblea annuale di Assocalzaturifici tenutasi ad Arese, vicino a Milano.

L’industria calzaturiera, in Italia, dà lavoro a oltre 77mila persone ed è un’eccellenza riconosciuta nel campo del fashion, che però è ancora piuttosto scettica di fronte a chi, nel nostro Paese, parla di ripresa. Come testimoniato dalle parole usate dal presidente di Assocalzaturifici, Annarita Pilotti, nel tracciare il bilancio del primo anno di mandato dopo la gestione del predecessore, Cleto Sagripanti.

Per il nostro comparto la ripresa di cui si parla è ancora un miraggio – ha esordito Pilotti -. Il 2015 ha registrato risultati inferiori alle attese e la domanda interna ha accusato l’ottava contrazione in otto anni. Malgrado ciò, il settore è riuscito a limitare la flessione dei livelli produttivi (-2,9% in volume), a conseguire un nuovo record di esportazioni a 8,7 miliardi di euro, a segnare per la prima volta dal 2011 un lieve incremento dell’occupazione, in realtà risultato soprattutto delle misure di stabilizzazione del Governo”.

Le prime rilevazioni del 2016 confermano che la situazione resta complessa e il clima incerto – ha proseguito il presidente di Assocalzaturifici -. Nel primo trimestre è continuato il calo dei consumi di calzature delle famiglie italiane, con un’ulteriore diminuzione dell’1,3% in quantità e del 3,7% in valore. Dal canto suo il fronte occupazionale, dove si è fermato il lieve rimbalzo del 2015, è tornato ad essere allarmante. A fine marzo il numero di addetti risultava sostanzialmente invariato rispetto a dicembre (-0,1%), mentre altre 39 aziende avevano cessato l’attività e la cassa integrazione chiudeva il trimestre con un balzo del 32%, a 3,5 milioni di ore autorizzate”.

Nel bimestre gennaio-febbraio le esportazioni hanno mantenuto le posizioni, crescendo del 3,7% in valore. Ma debolezza economica e criticità finanziarie in diversi importanti mercati esteri continuano a penalizzare la domanda, soprattutto nella fascia di prodotto medio-alta e lusso. Le attese per i prossimi mesi escludono miglioramenti significativi a breve. Il portafoglio ordini dei primi quattro mesi è praticamente piatto e le attese delle aziende raggiunte dall’ultima indagine congiunturale rapida propendono per stabilità-ribasso sia per il mercato domestico, sia per i principali mercati esteri di sbocco”.

E, se il quadro è questo, da Assocalzaturifici l’accento viene posto sull’importanza dei mercati esteri e sulla necessità di sensibilizzare il cliente sulla qualità del prodotto che sta acquistando, sia esso di lusso o meno, relativamente all’autenticità del made in Italy. “Ci battiamo per una norma di civiltà che informi il consumatore circa la provenienza geografica del prodotto – ha sottolineato Pilotti -. Sono anni che tentiamo, senza risultati. Ma non arretreremo di un centimetro e non accetteremo surrogati come i certificati di origine volontari”.

Una stoccata, Pilotti, l’ha poi riservata all’assurdità delle sanzioni Ue alla Russia, uno dei principali mercati per il lusso e il made in Italy, specialmente nel comparto calzaturiero: “È una follia che sta costando carissima all’economia europea e si sta trasformando in un vero allarme sociale in tanti distretti calzaturieri italiani”. Non è un caso che, quello delle calzature, così come altri comparti come l’agroalimentare, sia stato tra i più penalizzati: -32% in valore per le vendite in Russia e -32% in Ucraina nel solo 2015. Se si inseriscono questi dati nel quadro di debolezza e incertezza che ancora regna nell’economia europea, si capisce il perché della preoccupazione di Assocalzaturifici.

La Giornata Mondiale delle Fiere

Oggi, 8 giugno 2016, è la prima Giornata Mondiale delle Fiere, iniziativa mondiale che AEFI, l’Associazione Esposizioni e Fiere Italiane, ha celebrato con l’evento “Meet Italian Excellence: Le Fiere come ponte di sviluppo”, che si è tenuto stamane a Roma nella Sala del Tempio di Adriano della Camera di Commercio.

Lanciata da UFI-Associazione mondiale delle Fiere a inizio 2016, e da subito sostenuta dalle principali associazioni di tutto il mondo, tra cui AEFI, la Giornata Mondiale delle Fiere o Global Exhibition Day punta a diventare un grande appuntamento annuale che riunisce l’intero settore fieristico globale, non solo per promuoverlo ma soprattutto per aumentare la consapevolezza del valore delle fiere quale volano per l’economia di ciascun Paese.

Il Global Exhibitions Day ha inoltre l’obiettivo di celebrare le persone che lavorano nel settore, facendo conoscere le opportunità di carriera che il comparto può offrire. Sono oltre 20 i Paesi che celebrano l’8 giugno con una serie di azioni dedicate.

L’evento organizzato da AEFI è stato l’occasione per evidenziare, a livello internazionale, le eccellenze Made in Italy e un’ulteriore opportunità per sensibilizzare le istituzioni sull’importanza del comparto fiere, sollecitandole sulla necessità di sostegno anche con la risoluzione di fondamentali problematiche legate a tematiche legislative e fiscali.

Grazie al contributo dei relatori sono stati sottolineati il valore delle esposizioni fieristiche per le imprese per guidare l’innovazione e la competitività e il ruolo chiave delle manifestazioni, per lo sviluppo degli scambi commerciali e l’internazionalizzazione.

Dopo il saluto del presidente di AEFI, Ettore Riello, e l’intervento “Buone pratiche per crescere” a cura di Giulio Sapelli, ordinario di Storia Economica dell’Università degli Studi di Milano, i lavori sono proseguiti con gli interventi delle fiere, che hanno illustrato come i settori in cui l’Italia è leader indiscussa, per le eccellenze che rappresenta, possono davvero essere la leva su cui puntare e un ponte con il mondo.

Simonpaolo Buongiardino, Vicepresidente di CFT, Giuliana Ferrofino, Presidente di CFI; Ettore Riello e Giulio Sapelli hanno animato il dibattito nella tavola rotonda di chiusura.

Lusso italiano ed export: la via dell’eccellenza

Anche e soprattutto per le imprese italiane del lusso vale il discorso secondo il quale l’internazionalizzazione e l’export sono le chiavi imprescindibili per sopravvivere e per competere. Una certezza che è emersa anche in occasione del recente Luxury Summit del Sole 24 Ore tenutosi a Milano.

Una convinzione che è stata confermata anche dai dati macroeconomici relativi al 2015 e al primo trimestre del 2016, quando il comparto del lusso ha rallentato proprio nel momento in cui la crisi sembrava essere alle spalle; esattamente il contrario di quanto ha fatto negli anni più bui della recessione.

Una frenata che non deve però spaventare le aziende italiane del lusso poiché, come si scriveva più sopra, i mercati esteri, specialmente quelli al di fuori dell’Ue, continuano a essere i principali driver per le eccellenze del made in Italy, anche se con crescite più contenute rispetto al passato.

Lo ha confermato Andrea Illy, presidente di Fondazione Altagamma, quando ha affermato che “il mondo del lusso ha rallentato, è finita un’età dell’oro che forse speravamo durasse di più e i consumatori di oggi e del futuro sono profondamente diversi da quelli di appena qualche anno fa. Le crisi, ammesso che di crisi si possa parlare, sono però sempre delle opportunità: le aziende devono interrogarsi e allo stesso tempo guardare con fiducia ai milioni di persone delle classe medie di Paesi come la Cina, che hanno fame di prodotti di qualità e soprattutto di made in Italy”.

E una delle eccellenze delle imprese italiane del lusso è quella del tessile moda che, come ha ricordato il presidente di Sistema moda Italia, Claudio Marenzi, “è una delle ricchezze manifatturiere dell’Italia e può continuare a essere volano di crescita per il Paese. Tra le priorità deve esserci la salvaguardia della nostra filiera, unica al mondo, il che significa in particolare tutelare le Pmi. Occorre poi lavorare sul reshoring, favorendo, anche fiscalmente se possibile, il rientro di produzioni delocalizzate”.

Rimane quindi fondamentale per le aziende italiane del lusso continuare a “mettere il naso” al di fuori di casa, guardando ai mercati esteri più ricchi. Lo ha dimostrato durante il summit Nicola Pianon, senior partner di Boston Consulting Group, commentando lo studio da lui curato, dal titolo significativo di True Luxury Consumers Behavior: From China to Chinese. “Il rallentamento della crescita del Pil dal 7-8% al 5-6% non deve allarmare le aziende del lusso italiane – ha commentato Pianon -. I cinesi continuano a desiderare il made in Italy e ne apprezzano qualità e artigianalità, con un’avvertenza però: chiedono servizi online e offline sempre più articolati e sofisticati ed è su questo che i marchi devono investire”. Introducendo così i grandi temi del lusso, dell’e-commerce e degli investimenti dei grandi marchi sull’online, che saranno oggetto in futuro di approfondimenti.

Lusso e turismo, come legarli e valorizzarli?

Abbiamo sottolineato ieri come l’industria del lusso comprenda buona parte delle eccellenze del made in Italy. E un ponte che unisce lusso e made in Italy è il turismo, come ben espresso durante l’ultimo Luxury Summit del Sole 24 Ore tenutosi nei giorni scorsi a Milano. Un legame sottolineato da diverse personalità intervenute all’evento, così come sono stati sottolineati anche i limiti di un’industria turistica che, spesso, mortifica le proprie potenzialità, non solo sul target del lusso.

Bisogna fare le riforme perché il Titolo V è stato la iattura che ci ha fatto perdere il mercato. Già i budget della promozione turistica italiani sono notoriamente bassi, se poi li dividiamo in 20 regioni non viene fuori niente. Uno oggettivamente viene a visitare l’Italia, non la Campania, piuttosto che il Molise, ecc. Quindi è veramente controproducente quello che è stato fatto col Titolo V”. Parole di Andrea Illy, presidente di Fondazione Altagamma, che ha poi rincarato la dose: “In conseguenza di ciò il turismo non è segmentato, non ha un’organizzazione, diciamo, tale da poter intercettare in maniera strutturata le varie fasce di consumo. Quindi noi, come Altagamma, stiamo studiando un progetto sul turismo, da due anni e mezzo ormai, che dovrebbe avere il primo esordio con una fase sperimentale il prossimo anno, rivolto agli High networking visual e gli Ultra high networking visual, con partner internazionali che ci portano l’inbound e dei partner fortissimi nazionali che ci curano la logistica. Però è qualcosa che abbiamo dovuto inventarci e che speriamo vada bene perché è esattamente quello che gli stranieri di élite che vogliono vedere il Paese si aspettano di trovarsi, ma non c’è. L’idea è di offrire degli itinerari, non affollare i turisti che vengono tutti solamente nelle città d’arte, in pochissime destinazioni, ma fare vedere la ricchezza incredibile che c’è nel territorio, nelle province”. Parole forti, che vengono da una delle istituzioni principe del lusso italiano.

Il turismo l’anno scorso ha fatto +5% – ha aggiunto ancora Illyma non è detto che sia sempre il turismo adatto, perché spesso è anche turismo di massa, ma quest’anno l’opportunità sul turismo è ancora maggiore in funzione dei problemi che stanno affliggendo il Mediterraneo, e non ultimo l’Egitto. E quindi il fatto di usare la vetrina d’Italia come la nostra vetrina nazionale per promuovere i nostri brand è un’opportunità da cogliere di nuovo tutti assieme”.

Sulla correlazione tra il mondo del lusso e quello del turismo si è espresso anche Diego Della Valle, presidente di Tod’s, che in occasione del Luxury Summit si è chiesto e ha chiesto: “Chi ci impedisce di pensare che il Governo possa creare un grande portale che attacchi il turismo culturale e il turismo della bella Italia, del cibo, dei posti, a tutta una rete di aziende che possono essere viste a quel punto? Calenda (ministro dello Sviluppo economico, ndr) sicuramente queste cose le conosce. Queste cose in cinque/sei mesi uno le mette in piedi, non è che ci si mette una vita, e possono essere cose che da qui alla fine dell’anno danno un po’ di speranza a tante aziende che adesso, quelle piccole, non passano un momento felice”.

E, a proposito di lusso e turismo, ha detto la sua anche Carlo Capasa, presidente della Camera della Moda Italiana, che ha sottolineato l’intervento diretto del mondo della moda in quello del turismo per favorire una maggiore attrattività internazionale dell’Italia: “Pensiamo a quello che hanno fatto Prada e Armani a Milano, a tutti questi spazi dedicati all’arte, quello che sta facendo a Roma Della Valle con il Colosseo, a Renzo Rosso, Rialto: gli stilisti stanno investendo direttamente nei beni culturali, nella cultura, perché migliorare il Paese, dare un esempio di Paese virtuoso, attirare il turista, rende l’Italia appetibile. Alla fine in un mercato globale si vendono i brand, e il brand Italia è importante potenziarlo per poi saperlo vendere. Giorni fa abbiamo incontrato una delegazione cinese, cui abbiamo detto che stiamo cercando di organizzare un week end lungo dedicato alla Cina, magari in un periodo un po’ morto in modo che i negozi retail possano lavorare di più con facilità sui biglietti aerei, sugli hotel, ecc. Quindi bisogna coordinarsi, coordinare quella che può essere l’esperienza retail, con l’esperienza dell’ospitalità per dare delle facilitazioni e rendere maggiormente Milano, che può esserlo, un fashion hub per l’acquisto. A Milano c’è un movimento pazzesco: abbiamo 800 showroom, 350 uffici stampa, c’è veramente tanto che succede e molta gente viene dall’estero per vivere la città. Possiamo fare meglio, però”.

Infine, su turismo cinese e lusso è intervenuto anche Nicola Pianon, Senior Partner e Managing Director di The Boston Consulting Group: “I consumatori cinesi rappresentano il 30% del mercato globale del lusso personale ed esperienziale, mercato che continua ad alimentare con nuovi consumatori. Mentre si riduce il digital gap che i cinesi soffrivano rispetto ad altri, il consumatore cinese del lusso chiede ai brand sia un In store sales support di elevata qualità, sia una digital experience di livello. Un messaggio importante per gli attori del settore anche nel nostro Paese, considerato che prevediamo come, nel 2020, i turisti cinesi che viaggeranno all’estero raggiungeranno la quota di circa 120 milioni e che i tre quarti dei consumatori cinesi del lusso fanno acquisti fuori dai confini della mainland China. Un altro elemento che emerge dalle analisi BCG è come Milano si stia affermando sempre di più come una meta alla moda per i consumatori luxury cinesi“.