La ripresa? Arriverà solo nel 2014

Nel suo ultimo rapporto sull’economia italiana, l’Ocse ha approvato il piano di riforme che l’Italia si appresta ad avviare e che potrebbe farla uscire dalla recessione prima della fine dell’anno.

Nonostante questo buon auspicio, gli effetti benefici tarderanno a farsi sentire, perché il clima di scarsa fiducia permane, così come il ritmo lento che caratterizza la ripresa anche degli altri Paesi Ue.

Spiega l’Ocse: “In Italia é impossibile per il momento ridurre in modo significativo il livello complessivo dell’imposizione, ma l’eliminazione delle agevolazioni fiscali senza giustificazioni economiche permetterebbe di aumentare la base imponibile e quindi ritoccare le aliquote marginali senza impatto sulle entrate. Per l’Italia, la priorità resta la riduzione ampia e prolungata del debito pubblico, perché con un rapporto debito/Pil vicino al 130% e un piano di ammortamento del debito particolarmente pesante, il Paese rimane esposto ai cambiamenti improvvisi dell’umore dei mercati finanziari“.

Inoltre l’Ocse prevede un ulteriore ribasso delle stime del Pil per quanto riguarda il 2013, con una contrazione dell’1,5%, contro il -1% previsto nel novembre scorso.
Per questo motivo, risulta difficile che la crescita possa partite prima del 2014, quando si prevede un +0,5 ora irraggiungibile.

Per arrivarci, Ocse avvisa di “incoraggiare le banche ad aumentare gli accantonamenti per perdite e continuare a incitarle a soddisfare le loro esigenze di capitale tramite le emissioni di nuove azioni o la cessione di attività non strategiche“.

Vera MORETTI

L’Ocse prevede un miglioramento per Italia e Francia

L’Eurozona è pronta per ricominciare la sua crescita, dopo un periodo assolutamente negativo.

Lo dice l’Ocse, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che, anche relativamente a Italia e Francia, le due economie europee maggiormente colpite dalla crisi, non vede un ulteriore deterioramento della situazione economica e, anzi, prevede una leggera crescita.

L’indice che le riguarda, infatti, è aumentato rispettivamente dello 0,11 e 0,05% rispetto a dicembre, con la Germania in pole position con un confortante +0,16% su base mensile, che conferma l‘andamento positivo registrato già a dicembre (+0,13%).
Il confronto con lo stesso mese dell’anno scorso, però, resta negativo, con una contrazione dello 0,66% per l’Italia e dello 0,53% per la Francia.

Negli Usa, rileva ancora l’Ocse, prosegue il trend di “consolidamento della crescita“, con un superindice in incremento dello 0,08% su base sequenziale e dello 0,53% su base annua.

Vera MORETTI

L’Imu fa rimpiangere la vecchia Ici

L’Imu, ormai è confermato, si è rivelata molto più cara dell’Ici, tanto da aver raggiunto picchi del 160% in più rispetto alla vecchia tassa sugli immobili.

I motivi che hanno reso la nuova imposta così onerosa sono molteplici e non dipendono solo al ritorno del tributo sulla prima casa perché, confrontando i dati con l’ultimo anno in cui è stata pagata l’Ici sulle abitazioni principali, risulta che l’imposta lievita comunque a livelli considerevoli, con un incremento tra il 90% e il 100%.

Sono state messe a confronto le entrate dell’imposta comunale sugli immobili, fornite dall’Istat (pari a 9,07 miliardi nel 2011 e 11,98 nel 2007) e le stime sul gettito 2012 confermate dagli enti locali, di circa 23-24 miliardi per l’anno appena terminato.
La somma complessiva ricevuta dal pagamento dell’imposta, tra acconto di giugno e saldo di dicembre, è di 19,9 miliardi.
Si deve anche considerare che il 25% dei Comuni italiani ha deciso di incrementare ulteriormente l’aliquota sull’abitazione principale, mentre un Comune su due ha elevato l’aliquota sugli altri immobili.

Il governo, già a giugno, aveva fatto presente che l’Imu erariale ammonta a circa 8,9 miliardi di euro annui, mentre l’Imu comunale è di circa 12,2 miliardi di euro, per un gettito complessivo di circa 21,1 miliardi di euro annui.
Se si analizzano i dati Istat degli ultimi dieci anni, emerge che, in questo lasso di tempo, il tributo è aumentato del 3,7%, passando da 8,7 miliardi del 2001 a 9,1 del 2011.

L’incremento contenuto è dovuto soprattutto alla soppressione dell’imposta sulla prima casa, che ha portato l’imposta da 11,98 miliardi del 2007 a 9,1 l’anno successivo (-24%). E negli anni successivi il gettito è rimasto sostanzialmente stabile (8,895 miliardi nel 2009; si sale a 9,078 nel 2010 e resta sostanzialmente invariato nel 2001 a 9,070 miliardi).
Nonostante queste cifre considerevoli, il governo afferma che l’Italia è il Paese con la più bassa tassazione della proprietà immobiliare, pari allo 0,6%, contro il 3,1% di Stati Uniti, il 2,1% del Giappone, il 2,4% della Francia, il 3,5% del Regno Unito, il 3,1% del Canada e l’1,1% della media Ocse.

Se però si considera l’incremento che l’imposta ha subito negli ultimi anni, la posizione dell’Italia pare destinato a superare la media fissata dall’Organizzazione nazionale per lo sviluppo economico.

Facendo una media, per ogni immobile si dovrà versare una somma di 235 euro: su circa 24,3 milioni di proprietari di immobili, 17,5 milioni verseranno l’Imu e circa 6,8 milioni saranno esenti dall’ imposizione.
La media pro-capite per i soggetti che verseranno l’Imu è di circa 194 euro.

Secondo i dati dell’Agenzia del Territorio l’importo medio Imu per l’abitazione principale e’ pari a 206 euro, per un gettito complessivo che supera i 3,3 miliardi; mentre l’imposta media sugli altri immobili ammonta a 761,5 euro.

Per quanto riguarda l’analisi per tipo di immobili, il prelievo sulle abitazioni principali ammonta al 18,4% del totale mentre il restante 81,6% riguarda gli altri immobili.
Le proiezioni dimostrano inoltre che il 68% dei contribuenti ha effettuato il versamento sull’abitazione principale e il 62% su altri immobili. La distribuzione territoriale dimostra che oltre la metà dei versamenti complessivi dell’imposta municipale propria affluisce dal Nord (54,8%), un altro 27,1% dal Centro e il restante 8,1% dal Sud.

Vera MORETTI

Spazio alla Green e alla Blue Economy

Se questo è un periodo difficile per molti settori, certo non lo è per la Green Economy.

I risultati sono positivi per quanto riguarda produttività e opportunità lavorative, ma anche i dati relativi all’export sono in aumento, tanto da confermare le stime Ocse, che prevede 20 milioni di posti di lavoro entro il 2030, considerando il solo ambito dell’energia low carbon.
Se prendiamo in considerazione l’Italia, il 23,6% delle aziende ha attivato iniziative green con questo obiettivo.

Il secondo osservatorio congiunturale sulle pmi green curato da Fondazione Impresa ha individuato una criticità in circa 400 piccole imprese con meno di 20 addetti ma a metà 2012 le piccole imprese green sono risultate meno in difficoltà delle altre.

In questo caso, si tratta di piccole e medie imprese che operano nei settori delle energie rinnovabili, protezione dell’ambiente, certificazione di prodotti e processi, consulenza ambientale e riciclaggio dei rifiuti.
Gli indicatori chiave che sono serviti per verificare il vero stato di salute delle aziende sono stati: produzione, fatturato, ordini, esportazioni, prezzi dei fornitori, occupazione e investimenti.

Le imprese green hanno registrato una diminuzione della produzione dello 0,1%, senza alcuna variazione di fatturato. Sono calati di poco gli ordini (-0,4%) a fronte di un leggero aumento dell’export (0,6%), anche se è stata registrata una flessione dell’occupazione (0,8%).
Gli addetti ai lavori, considerando il futuro più prossimo, usano prudenza e ipotizzano andamenti contrastanti fra produzione (-0,1%) e fatturato (+0,1%). La ripresa degli ordinativi viene valutata in un +0,5% con un dato in crescita anche per esportazioni (+0,8%), occupazione (+0,3%) e incidenza degli investitori (16%).

E proprio in termini di investimenti, ad aver dimostrato una buona propensione sono proprio gli operatori “verdi”, visto che, ad investire somme superiori a 50mila euro, sono state il 26,5% delle imprese green, contro il 9,5% delle comuni aziende.

Ma il futuro può essere davvero roseo, se si pensa che il settore della green economy si appresta a lanciare nuovi profili lavorativi, come il sommelier della frutta, maestri falconieri a protezione della semina, esperti di erbe per trovare nuovi aromi a servizio dell’industria profumiera, e tanti altri che ne verranno.

E accanto alla gren economy, potrebbe presto apparire la Blue Economy, che permette di riprogettare i sistemi economici, le realtà imprenditoriali creando catene in cascata fra loro, in modo che l’emissione di inquinamento sia pari a zero: ogni nodo della catena riceve gli scarti dal precedente e vi costruisce sopra il proprio business, replicando la capacità in natura di creare senza produrre scarti.

Vera MORETTI

Sorelle d’Italia, l’Italia s’è impresa

Finalmente una buona notizia nella valle di lacrime della crisi economica. Tra imprese che chiudono, imprenditori che si uccidono, operai che perdono il lavoro l’Italia dell’impresa, se non si scopre un Paese per giovani si scopre un Paese per donne. Secondo il rapporto sull’imprenditoria dell’Ocse, basato su dati del 2009 riferiti a 40 Stati, l’Italia è al secondo posto in Europa per donne imprenditrici.

I dati dicono infatti che nel nostro Paese il 16% delle donne impiegate è imprenditrice o lavoratrice autonoma. Un dato che si posiziona ben al di sopra della media europea, ferma al 10%, e che stacca di brutto quello di Paesi ben più avanti del nostro in termini di politiche del lavoro al femminile come la Francia, il Regno Unito e la saccentella Germania (tra il 6 e l’8%).

Altro dato incoraggiante, il 26,8% delle imprese italiane con proprietario singolo e almeno un dipendente fa capo a una donna. Ma quali sono i settori che più attraggono le energie, gli investimenti e la creatività delle imprenditrici italiane? Trasporti, accoglienza e commercio la fanno da padrone, settori nei quali le aziende rosa sono di più e longeve quasi quanto quelle guidate da maschi: il tasso di sopravvivenza a tre anni dalla nascita delle imprese femminili è risultato del 37,6% contro il 37,8% di quelle dei maschietti. E se durano più o meno per lo stesso tempo, le donne battono gli uomini in termini di natalità – 13,7% contro 10,7% – mentre sul tasso di crescita non c’è proprio partita: 10,7% contro 0,2%.

La nota dolente dell’Ocse, però, arriva quando si parla di quote rosa nei Cda, per le quali l’Italia è ben al di sotto della media dei Paesi avanzati. In Italia, le donne nei consigli d’amministrazione sono il 13,8%, dato che si dimezza al 7% nelle società quotate, contro una media Ocse che è al 10%. Un dato che ci fa sprofondare in classifica al 26esimo posto su 40. Consoliamoci: se la graduatoria è guidata dall’Ungheria (35,5%), la virtuosa Germania è 38esima, con il 5,7%. Aufwiedersehen, frau Merkel!

Stipendi sempre più magri, fisco sempre più vorace

Non lo dicono solo le tasche vuote alla fine della terza settimana. Ora lo conferma anche l’Ocse nel suo rapporto “Taxing Wages 2011”: il fisco pesa sempre più sugli stipendi dei lavoratori italiani e fa scivolare il nostro Paese dal 22esimo al 23esimo posto per salario netto, con una media di 25.160 dollari per lavoratore senza senza figli a carico.

Un dato che non è solo minore della media Ocse (27.111 dollari) ma è molto distante da quello che caratterizza Paesi come, a crescere, Francia (29.798 dollari), Germania (33.019) e Gran Bretagna (38.952). Un divario che c’è anche con le retribuzioni degli stessi lavoratori in Paesi dalle economie più critiche della nostra come Spagna (27.741 dollari) e Irlanda (31.810).

Ma lo scandalo viene dal cuneo fiscale, ossia il peso delle tasse sulle retribuzioni per i lavoratori senza figli: il dato è infatti arrivato al 47,6%, (dal 47,2% del 2010). Un aumento che ci pone al sesto posto della classifica sulla pressione fiscale sul lavoro nell’Ocse, dietro a Belgio (55,5%), Germania (49,8%), Ungheria e Francia (49,4%) e Austria (48,4%). Dati molto più alti della media Ocse, pari al 35,3% (+0,3% sull’anno precedente) e anche oltre la media europea che è del 41,5%.

Per i lavoratori con due figli a carico la situazione è differente, ma il peso fiscale resta sempre elevato in Francia (42,3%), Belgio (40,3%) e Italia (38,6%).

Del resto, la tendenza complessiva vede un appesantimento del cuneo fiscale in quasi tutte le economie Ocse (dovuto all’aumento delle imposte sul reddito), tranne che negli Usa, dove è sceso dello 0,9% grazie alla riduzione dei contributi di sicurezza sociale. Insomma, si guadagna forse di più ma si pagano più tasse ovunque. Evviva la crisi!

Calderone: la riforma sulle professioni non deve diventare uno spot

“Negli Ordini c’è un problema di eccesso e non di accesso. E’ realmente difficile immaginare come si possa pensare di aumentare la produttività con la mera redistribuzione dei redditi. Credo che la riforma delle professioni sia una cosa seria che vada affrontata in modo organico, non con spot o slogan”. Con queste parole Marina Calderone, Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, esprime il suo scetticismo nei confronti delle affermazioni del segretario generale dell’Ocse, Angel Gurria, che ha quantificato nel 4% l’incremento che dovrebbe derivare dalle liberalizzazioni delle professioni ordinistiche.

“Sarebbe interessante comprendere come viene calcolato l’aumento della produttività proveniente dalla riforma delle professioni – continua la Presidente del Cup, il Comitato Unitario delle Professioni. – E’ errato individuare il comparto dei professionisti come un sistema chiuso considerato che negli ultimi dieci anni vi hanno avuto accesso oltre un milione di under 45enni”.

Poco efficace, a suo avviso, il metodo scelto per intervenire sull’annosa questione della riforma degli ordini professionali in Italia. La Calderone ci tiene poi a sottolineare “la differenza di trattamento tra lavoratori aventi la medesima rilevanza costituzionale”, che calpesta l’articolo 1 della Costituzione Italiana, che sancisce come l’Italia sia una Repubblica fondata sul lavoro, autonomo o subordinato. Due pesi e due misure, in sostanza, per gli ordini professionali, per i quali una nuova legge sembra imminente, e per la riforma sul lavoro, per la quale invece la stesura di una nuova legislazione appare sempre più lontana da venire.

“Non comprendo la differenza di trattamento riservata alle riforme relative al lavoro autonomo e a quello dipendente – precisa la Calderone. – Con i professionisti si è scelta la decretazione d’urgenza, mentre per le riforme del lavoro quella del percorso parlamentare ordinario. Per quale ragione?”

Manovra, verso una correzione da 20-25 miliardi

Cominciano a filtrare le prime cifre sulla manovra correttiva cui sta lavorando il governo Monti per raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013. Una manovra sulla quale pesa la revisione al ribasso del pil. Facendo riferimento al calo dello 0,5% nel 2012 previsto dall’Ocse, la correzione necessaria salirebbe dai 13-15 miliardi previsti inizialmente a 20-25 miliardi. Secondo indiscrezioni, al momento si starebbe lavorando sulla parte bassa di questa forchetta.

In tutto questo, arrivano segnali anche dalla politica, sempre meno indifferente di fronte ai propri enormi e ingiustificati costi. Secondo quanto riporta un comunicato congiunto di palazzo Madama e Montecitorio, il presidente del Senato Renato Schifani e il presidente della Camera Gianfranco Fini, si sono infatti incontrati assieme ai rispettivi Collegi dei Questori con il ministro del Lavoro e delle politiche sociali, Elsa Fornero, e hanno comunicato al governo di voler procedere entro la fine dell’anno a una radicale modifica della disciplina in tema di assegni vitalizi.

Dal 1° gennaio 2012 sarà introdotto il sistema di calcolo contributivo, in analogia con quanto previsto per tutti i lavoratori. Tale sistema opererà per intero per i deputati e i senatori che entreranno in Parlamento dopo tale data e pro rata per coloro che attualmente esercitano il mandato parlamentare.

Sempre dal 1° gennaio 2012, i parlamentari che avranno terminato il mandato percepiranno il trattamento di quiescenza non prima del compimento dei 60 anni di età per chi abbia esercitato il mandato per più di una intera legislatura, e al compimento dei 65 anni per coloro che abbiano versato i contributi per una sola intera legislatura. Un po’ alla volta qualcosa si muove…

d.S.

La stretta via per la banda larga

Ormai è un dato di fatto: Internet è un motore economico di straordinaria potenza, capace di creare posti di lavoro e ricchezza. Attraverso il web qualsiasi impresa può aprirsi a nuovi mercati, altrimenti inaccessibili, e recuperare così competitività. Certo, questo richiede uno sforzo di modernizzazione considerevole, ma il gioco vale sicuramente la candela.

Fin qui, tutti d’accordo. Ma esattamente quanto incide Internet sulla crescita economica di un Paese? Oggi, grazie ad un recente studio condotto dal colosso svedese Ericsson, in collaborazione con la società di consulenza Arthur D. Little e la Chalmers University of Technology, abbiamo numeri e dati certi a nostra disposizione.

Nello specifico, l’indagine in questione ha misurato il rapporto tra la velocità di connessione a banda larga e il PIL in 33 paesi dell’OCSE, tra cui l’Italia: secondo quanto emerso, a un raddoppio della velocità online corrisponde un aumento del Prodotto Interno Lordo pari allo 0,3%, oltre un settimo del tasso annuale di crescita medio fatto registrare dagli stati membri dell’organizzazione nell’ultimo decennio.

Gli effetti economici positivi che Internet è in grado di produrre sono stati suddivisi in tre gruppi: diretti, ossia nel breve termine (per esempio, nuovi posti di lavoro per realizzare le necessarie infrastrutture); indiretti, quando l’orizzonte temporale si dilata (maggiore efficienza complessiva a livello produttivo); indotti, derivanti cioè dall’introduzione di servizi di pubblica utilità d’avanguardia e modelli di business innovativi (telelavoro).

L’Italia purtroppo non brilla in nessuna di queste tre categorie. Anzi, da questo punto di vista, la situazione negli ultimi anni è andata progressivamente peggiorando.

Secondo un rapporto redatto dalla società di consulenza McKinsey in occasione del G8 dello scorso maggio, infatti, il digital divide che ci separa dalle maggiori potenze mondiali è preoccupante: solo per fare un esempio, negli ultimi quindici anni i posti di lavoro creati da Internet nel nostro paese sono stati 700mila, contro 1 milione e 200mila in Francia. Anche per quanto riguarda la penetrazione della fibra ottica i dati non sono incoraggianti: alla fine del 2010 con 348mila abbonati l’Italia figurava al penultimo posto nella classifica europea, davanti solo alla Turchia.

Nonostante i numerosi appelli alle istituzioni, gli investimenti nella banda larga sono stati finora insufficienti. L’ultima doccia fredda è arrivata con la nuova bozza della legge di Stabilità: i 770 milioni derivanti dall’asta per le frequenze 4G, che originariamente sarebbero dovuti andare alle telecomunicazioni, sono stati invece dirottati verso la Pubblica Istruzione e il Tesoro.

Senza una decisa inversione di tendenza, l’Italia rischia di restare al palo. E con l’attuale congiuntura economica sfavorevole, nessuno può permettersi di tenere spento un motore economico potente come Internet.

Manuele Moro

Crescita economica: quest’anno +1%, nel 2012 +1,6%. Le previsioni dell’Ocse sono abbastanza positive

Secondo una stima dell’Ocse nel suo Economic Outlook, l’economia italiana ha avviato una fase di moderata ripresa che dovrebbe rafforzarsi nel corso dei prossimi due anni.

La crescita italiana si attesterà nel 2010 all’1%, nel 2011 all’1,3% e nel 2012 all’1,6%.

Le misure finora introdotte dal Governo sembrerebbero sufficiente, secondo l’Ocese,  per raggiungere nel corso dei prossimi due anni l’obiettivo sul deficit; tuttavia si tratterebbe di una ripresa più debole rispetto a quella delle proiezioni ufficiali e si rischierebbe di non riuscire a tenere il deficit sotto il 3% del prodotto interno. Il debito pubblico italiano crescerà nel 2012 a circa il 120 in rapporto al prodotto interno lordo. Secondo le ultime stime del Governo italiano, quelle contenute nella Decisione di Finanza Pubblica, il debito italiano nel 2012 dovrebbe invece cominciare a scendere e attestarsi al 117,5%. La crescita economica nell’area Ocse si attesterà quest’anno al 2,8% per scendere al 2,3% nel 2011 e risalire al 2,8% nel 2012. La ripresa globale e in corso ormai da qualche tempo anche se la disoccupazione resta ancora alta in molti Paesi.