Pil e crisi, le cifre di un massacro

La crisi economica ha fatto strage del tessuto produttivo italiano e anche il Pil del nostro Paese ha subito un pesante colpo dal quale si riprenderà con moltissima fatica. È un dato di fatto certificato anche dai numeri, come ha rilevato l’Ufficio studi della Cgia.

Gli artigiani mestrini hanno infatti rilevato che dal 2007, anno di inizio della crisi, il Pil italiano è calato di oltre l’8%, trascinando a fondo anche i consumi delle famiglie (-6,5%) e gli investimenti, crollati di quasi il 27,5 %. Il rovescio della medaglia è dato dalla disoccupazione che, al contrario del Pil, ha subito un’impennata di quasi il doppio: dal 6,1% del 2007 al 12,1% atteso per il 2015.

Questo contraltare di Pil e disoccupazione è un trend ben presente agli artigiani mestrini, che vogliono sensibilizzare il governo sullo scenario italiano a medio e lungo termine. Secondo il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo ,“il Premier Renzi fa bene a trasmettere ottimismo e fiducia. La situazione, tuttavia, rimane ancora molto delicata. Per recuperare il terreno perso ci vorrà molto tempo. Se nel prossimo futuro il Pil crescerà di almeno 2 punti ogni anno, il nostro Paese tornerà alla situazione pre-crisi solo nel 2020”.

La Cgia ricorda che per far ripartire il Pil è necessario ridare vita agli investimenti che, come scritto sopra, negli anni della crisi sono calati di oltre un quarto rispetto ai livelli precedenti. In termini netti, il calo del 27,5% di cui sopra equivale a -109,4 miliardi, al netto dell’inflazione.

Gli investimenti – conclude Zabeosono una componente rilevante del Pil. Se non miglioriamo la qualità dei prodotti, dei servizi e dei processi produttivi siamo destinati a impoverirci. Senza investimenti questo paese non ha futuro. Ricordo, altresì, che le imprese contribuiscono per oltre il 60% del totale nazionale degli investimenti. Queste ultime, pertanto, saranno chiamate a giocare un ruolo determinante. Per fare ciò, il sistema creditizio, anche alla luce delle operazioni TLTRO e Quantitative Easing, dovrà sostenere le imprese con nuova liquidità: altrimenti, con quali risorse gli imprenditori potranno rilanciare gli investimenti?”.

Le piccole imprese sono più solvibili delle grandi

La crisi del credito e la difficoltà di molti soggetti nel restituire i prestiti avuti dalle banche è evidente ormai da anni, ma grazie a una recente ricerca dell’Ufficio studi della Cgia questa tendenza può essere osservata anche da un nuovo e interessante punto di vista. Un punto di vista che dice che le famiglie e le piccole imprese sono più affidabili e solvibili delle grandi imprese.

La conferma viene dal coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo: “Tra il giugno di quest’anno e lo stesso mese del 2014, le classi di grandezza delle sofferenze fino a 75mila euro hanno registrato una contrazione, mentre quelle da 75mila a 125mila sono aumentate appena dello 0,5%. Niente a che vedere con quanto è successo in quelle più elevate. Nella fascia tra i 500mila e il milione di euro la variazione è stata dell’11,4%, per quella successiva, tra 1 e 2,5 milioni, l’aumento è stato del 14,5% e per le classi ancor più elevate l’incremento ha superato il 18%. Se teniamo conto che il livello delle insolvenze è proporzionale alla dimensione dei prestiti ricevuti, possiamo affermare con un elevato grado di precisione che le famiglie e le piccole imprese continuano a essere più solvibili delle grandi imprese”.

Una tendenza che non interessa solo l’ultimo anno, sia per le piccole imprese, sia per le famiglie. Tra giugno 2011 e giugno 2015 (ultimo dato disponibile), fino a 125mila euro di sofferenze la variazione è aumentata progressivamente fino al 35,7%, ma per le classi successive si sono raggiunti livelli monstre: sopra il milione di euro l’incremento è più che raddoppiato e nella fascia tra i 5 e i 25 milioni di euro si è arrivati a un +147,4%.

L’andamento si replica per lo stesso arco temporale anche sui dati riferiti alle sofferenze bancarie analizzate per comparto di clientela: le piccole imprese familiari (quelle con meno di 5 addetti) hanno registrato un aumento delle sofferenze del 4%, le Amministrazioni pubbliche del 6,5%, le società non finanziarie (con oltre 5 addetti) del 12,7% e le finanziarie del 147,5%.

Infine, se due indizi fanno una prova e tre un colpevole, anche nel mondo delle piccole imprese, ecco che sempre nel medesimo periodo famiglie e micro imprese registrano una crescita delle sofferenze del 46,6 e del 47,6%, le società non finanziarie del 107,8%, le società finanziarie del 282,5% e le pubbliche amministrazioni addirittura del 484,6%.

Una, nessuna e… cento tasse

Che l’Italia sia un Paese di santi, poeti, navigatori e… tasse è cosa nota. Che ogni cittadino o impresa, tra imposte e tasse assortite, paghi ogni anno uno sproposito, altrettanto. Ma quante sono le tasse che paghiamo? Quali le più odiate? Quali le più strane? Quanto portano nelle tasche bucate dello Stato?

A tutte queste risposte ha provato a rispondere la Cgia, che ha sfruculiato tra tasse, tributi, ritenuti, accise, addizionali, imposte e chi più ne ha più ne metta, per arrivare alla sconcertante conclusione che gli italiani pagano in totale un centinaio di tasse diverse, tra imprese e privati cittadini.

Se, da un lato, il sistema tributario italiano non ha eguali nel mondo per quanto riguarda la fantasia delle cose da tassare, dall’altro è anche furbo nel tassare ciò che maggiormente porta gettito, dal momento che, come ha rilevato la Cgia, le prime 10 tasse della classifica valgono tutte insieme 417,7 miliardi di euro, pari all’86% del gettito tributario complessivo annuo.

Spacchettando il dato tra imprese e cittadini, per le prime le imposte maggiormente pesanti sono l’Ires (31 miliardi di euro nel 2014) e l’Irap (30,4 miliardi di gettito lo scorso anno). Per i secondi le imposte più gravose sono l’Irpef e l’Iva, che da sole costituiscono oltre la metà del gettito (53,1%). L’Irpef porta nelle casse dello Stato oltre 161 miliardi di euro (il 33,2% del gettito), l’Iva quasi 97 miliardi (19,9% del gettito).

Secondo il coordinatore dell’Ufficio Studi della Cgia, Paolo Zabeo, “nel 2015 ciascun italiano pagherà mediamente 8mila euro di imposte e tasse, importo che sale a quasi 12mila euro considerando anche i contributi previdenziali. E la serie storica indica che negli ultimi 20 anni le entrate tributarie pro-capite sono aumentate di 76 punti percentuali, molto di più rispetto all’inflazione che, invece, è salita del 47%”.

E per provare a non incazzarsi troppo per il modo in cui spesso lo Stato sperpera i soldi che imprese e cittadini gli elargiscono, direttamente dal sito della Cgia ecco la classifica delle 10 curiosità o stranezze delle tasse italiane.

  1. La tassa più elevata: l’Irpef;
  2. La tassa che paghiamo tutti i giorni: l’Iva;
  3. La tassa più pagata dalle società: l’Ires;
  4. La tassa odiata dalle imprese: l’Irap;
  5. La tassa più singolare: quella applicata dalle regioni sulle emissioni sonore degli aeromobili;
  6. La tassa più lunga (come dicitura): imposta sostitutiva imprenditori e lavoratori autonomi regime di vantaggio e regime forfetario agevolato;
  7. La tassa più corta (esclusi gli acronimi): bollo auto;
  8. L’ultima grande imposta introdotta: la Tasi;
  9. La tassa più odiata dalle famiglie (fino al 2015): l’Imu/Tasi;
  10. Le tasse più stravaganti: le imposte sugli spiriti (distillazione alcolici), sui gas incondensabili e sulle riserve matematiche di assicurazione (tasse su accantonamenti obbligatori delle assicurazioni), la tassa annuale sulla numerazione e bollatura di libri e registri contabili, le sovraimposte di confine applicate dalla dogana (sugli spiriti, sui fiammiferi, sui sacchetti di plastica non biodegradabili).

La mazzata dell’ Imu sui capannoni

Non bastassero gli effetti nefandi della crisi economica, che sulle imprese italiane continuano a farsi sentire nonostante i timidi segnali di ripresa, anche la tassazione locale non smette di pesare su di loro come un macigno. Come, per esempio, nel caso dell’ Imu sui capannoni.

Secondo un monitoraggio dell’Ufficio studi della Cgia sui principali capoluoghi di provincia italiani, nel 2015 l’applicazione dell’ Imu sui capannoni costerà alle imprese 10 miliardi di euro. Secondo la Cgia, infatti, la metà dei Comuni considerati nel monitoraggio applica sugli immobili produttivi l’aliquota Imu massima.

Non solo capannoni, comunque, dal momento che l’ Imu sugli immobili strumentali colpisce anche le attività commerciali. Tra queste, al netto delle deduzioni fiscali, secondo la Cgia nel 2015 saranno gli alberghi le attività economiche più penalizzate dall’applicazione dell’ Imu e della Tasi, con un esborso medio che sfiorerà i 12mila euro.

A seguire, le grandi attività commerciali (8mila euro), i grandi capannoni (6.500), i piccoli capannoni (4mila euro), gli uffici e gli studi privati (oltre 2mila euro), i negozi (986 euro) e i laboratori artigianali (759 euro di Imu).

La Cgia ha poi allargato l’orizzonte temporale della propria analisi rilevando come dal 2011, ultimo anno dell’Ici divenuta poi Imu, al 2015, l’incremento del peso fiscale sugli uffici ha sfiorato il 150%, sui negozi il 140%, sui laboratori artigianali il 110%, sui capannoni e sugli alberghi quasi il 100%. A testimonianza del fatto che gli amministratori locali hanno scelto di equilibrare il minor prelievo fiscale sulle abitazioni con un maggior prelievo sulle attività produttive.

Improntato al realismo il commento del coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo: “Ci preme sottolineare che il capannone non viene ostentato dall’imprenditore come un elemento di ricchezza, bensì come un bene strumentale che serve per produrre valore aggiunto e per creare posti di lavoro, dove la superficie e la cubatura sono funzionali all’attività produttiva esercitata. Accanirsi fiscalmente su questi immobili non ha alcun senso, se non quello di fare cassa, danneggiando però l’economia reale del Paese”.

Investimenti diretti esteri in aumento per l’Italia

L’Ufficio Studi della CGIA ha presentato i dati relativi agli Ide, gli Investimenti diretti esteri, relativi al 2014.
Ebbene, l’Italia, tra i Paesi dell’area euro, è quello che ha conseguito l’incremento maggiore, con un aumento percentuale del 3,5 rispetto al 2013.
Risultato positivo anche per Slovenia e Finlandia, unici, insieme al Belpaese, ad aver conseguito risultati positivi.

Questo dato, però, pur essendo positivo, non risolve i nostri problemi, perché la situazione dello stock degli Ide in percentuale al Pil italiano rimane allarmante. Con un misero 17,4%, anche nel 2014, così come è avvenuto dall’inizio della crisi, ci troviamo in coda alla graduatoria europea, con la sola Grecia dietro di noi.

Quali sono i motivi principali per cui gli stranieri sono diffidenti nei confronti del nostro Paese? Paolo Zabeo della CGIA ha spiegato e commentato questi risultati: “L’eccessivo peso delle tasse, le difficoltà legate ad una burocrazia arcaica e farraginosa, la proverbiale lentezza della nostra giustizia civile, lo spaventoso ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali, il deficit infrastrutturale e il basso livello di sicurezza presente in alcune aree del paese da sempre scoraggiano gli investitori stranieri a venire in Italia. Se queste sono le ragioni che rendono il nostro paese poco attrattivo, pensate in che condizioni operano gli imprenditori italiani che nonostante ciò continuano a credere nelle proprie attività, ad investire nel futuro e a dare lavoro a milioni e milioni di italiani”.

Zabeo ha poi rivolto la sua attenzione verso il buon risultato conseguito nel 2014: “Questo risultato è stato conseguito in massima parte grazie all’acquisizione, da parte dei grandi gruppi finanziari stranieri, di pezzi importanti del nostro made in Italy. Nel settore della moda, dei servizi, delle comunicazioni e dei trasporti, molti marchi storici sono finiti sotto il controllo degli investitori stranieri. Se queste acquisizioni non daranno luogo a una fuga all’estero delle attività progettuali e produttive di questi nostri brand, tutto ciò va salutato positivamente. Purtroppo, l’internazionalizzazione dell’economia che stiamo vivendo da almeno 20 anni si manifesta e prende sempre più forma anche in questo modo”.

Nel 2014 i principali paesi di provenienza dei flussi in entrata nel nostro paese sono stati il Lussemburgo (39 per cento del totale), la Francia (20,8 per cento del totale) e il Belgio (12,4 per cento del totale).

A livello territoriale, è il Nordovest l’area che riceve il più alto numero di investimenti.
Nel 2013, ultimo anno in cui i dati sono disponibili per ripartizione geografica, il vecchio triangolo industriale ha “attratto” il 65 per cento circa degli investimenti totali. Seguono il Centro (18,5 per cento del totale), il Nordest (13,8 per cento) e il Sud (2 per cento).

Vera MORETTI