Parmalat, tra shopping e condanne

 

Era nell’aria l’accordo tra la Parmalat e la brasiliana Brf, una delle principali società brasiliane operanti nel settore food, per l’acquisto di undici stabilimenti della divisione dairy (latte e derivati) e ieri è finalmente diventato realtà per una cifra di poco superiore ai 610 milioni di euro. Gli analisti di Equita Sim giudicano l’operazione «strategicamente opportuna» in quanto consente a Parmalat «un concreto rafforzamento sul mercato brasiliano dove Parmalat aveva una presenza diretta marginale».

Inoltre, Parmalat ha chiuso il primo semestre di quest’anno con un fatturato superiore ai 2,6 miliardi, in leggera crescita dello 0,9% rispetto all’anno scorso, con margine operativo lordo, però, in calo del 5,1% a 184,4 milioni e profitti operativi netti in crescita del 3,7% a 132,7 milioni. A turbare gli animi del gruppo di Collecchio arriva però la condanna dalla Corte d’Appello di Bologna a risarcire a Citibank 431 milioni di dollari. E forse qualche soldino risparmiato non avrebbe fatto male…

JM

Cia: difendiamo il Made in Italy dagli attacchi esteri

Alcuni dei patrimoni agroalimentari italiani, tra i quali ricordiamo Perugina, Carapelli, Buitoni e Galbani, hanno varcato i confini nazionali per trasferirsi all’estero, ma non è detto che non succeda anche ad altri, storici marchi.

Questo è quanto denuncia la Cia-Confederazione italiana agricoltori a commento della Relazione dei servizi segreti al Parlamento, dalla quale è emerso che sono molti i gruppi esteri interessati ad acquisire “patrimoni industriali, tecnologici e scientifici nazionali“ e anche “marchi storici del Made in Italy“.

Le imprese agroalimentari italiane sono diventate più vulnerabili negli ultimi anni a causa della crisi, spianando così la strada ai gruppi stranieri che, invece, godono di ottima salute.
Tutto ciò si ripercuote sugli agricoltori, che vedono ridurre le vendite in quanto l’approvvigionamento di queste società è rivolto ad altri mercati, ma anche sul Made in Italy, impoverito proprio dalle multinazionali che controllano oltre il 70% di ciò che, quotidianamente,m appare sulle nostre tavole.

L’allarme è reale e la Cia vuole impedire che la totalità dei marchi di eccellenza italiana vadano a finire in mani straniere.
La richiesta è chiara e parte dalla “esigenza di un serio e concreto intervento che impedisca scalate attraverso le quali si rischia di mettere sotto controllo un comparto fondamentale per il nostro sistema economico che, oltre a determinare una spesa complessiva che supera i 210 miliardi di euro l’anno, registra un export che si avvicina ai 30 miliardi di euro“.

Vera MORETTI

Investire sì, ma nella qualità

Partiamo con una puntualizzazione doverosa all’articolo sulla Bce della scorsa settimana: Draghi ha poi sostenuto che non intende stampare nuova moneta, che nessun Paese uscirà dall’Euro e che la Bce metterà a disposizione interventi illimitati. Ho la massima stima di Draghi, ma è un programma impegnativo, vediamo se sarà rispettato.

E veniamo al tema di oggi. Si parla sempre di rendimento, al massimo di diversificazione o di rischio, dell’investimento. Non si parla mai della qualità degli investimenti finanziari, cioè del loro comportamento di fronte ad eventi catastrofici (qualità della gestione) o della loro possibilità di subire tracolli (qualità dell’emittente). La qualità dell’emittente riguarda le scelte di gestione finanziaria, ma anche di gestione amministrativa ed economica, del prodotto.

Queste scelte condizionano l’andamento, nel tempo, del prodotto finanziario. Ad esempio basse commissioni di gestione per un fondo, la distribuzione costante degli utili per un’azione, il pagamento puntuale delle cedole per un’obbligazione sono tutti indicatori di una buona qualità. A ciò bisogna però associare la solidità finanziaria e la trasparenza dei bilanci societari dell’azienda (o dello Stato) emittente, nonché i buoni propositi per il futuro (piani strategici, industriali).

La qualità di gestione, invece, significa affrontare i mercati, mantenendo fede ai patti presi con gli investitori. E non è facile. Ad esempio, se un fondo comune di investimento si definisce “monetario”, non dovrebbe investire in derivati. Oppure se si chiama “obbligazionario”, non dovrebbe esagerare con le azioni in portafoglio. Di questi esempi ce ne sono a migliaia, il concetto è che le regole stabilite non sempre sono chiare e a volte lasciano una discrezionalità eccessiva al gestore. Un ‘comune mortale’ rischia di investire in un prodotto finanziario che credeva immune dai derivati o dalle azioni, e che invece non lo è.

E proprio i derivati sono gli ingredienti maggiormente utilizzati dai fondi. Il derivato è uno strumento, non è buono ne’ cattivo, dipende quale uso se ne fa. Il problema semmai è l’ effetto leva, cioè guadagno o perdo più di quello che ho investito, e l’ uso indiscriminato e non necessario. Infatti, se un fondo è obbligazionario, ma contiene derivati, il rischio percepito dall’investitore è inferiore a quello realmente sostenuto dal prodotto.

Altri protagonisti della qualità possono essere titoli “spazzatura”, valute “esotiche”, partecipazioni in società non quotate acquistati da gestori con pochi scrupoli.

Purtroppo, si può toccare con mano la qualità solo dopo che è avvenuto un disastro finanziario: casi Parmalat o Lehman, Grecia o Islanda hanno fatto capire, a chi aveva investito in questi prodotti, quanto fosse bassa la loro qualità. Se non avviene nulla di così eclatante, è abbastanza difficile, per il normale investitore, percepire quanto rischio si è evitato scegliendo prodotti qualitativamente superiori. E’ compito di un buon consulente ricercare prodotti di qualità elevata, mantenendoli sotto osservazione, nel tempo.

dott. Marco Degiorgis – Consulente indipendente per la gestione dei patrimoni familiari, Studio Degiorgis