Gli indiani vogliono Pininfarina

Motori e stile italiani piacciono da sempre agli stranieri e non solo se si tratta di comprarsi un’auto o una moto. Piacciono soprattutto quando si tratta di comprarsi un’intera azienda, o quasi. È di pochi giorni fa la notizia dell’accordo di Pirelli con China National Tire&Rubber, che ha fatto diventare cinese parte dell’azienda milanese. Ora si sussurra di nuovi occhi orientali sull’automotive italiano. L’indiana Mahindra&Mahindra sarebbe interessata a Pininfarina.

La mitica carrozzeria torinese Pininfarina, secondo Bloomberg, avrebbe da tempo colloqui in corso con gli indiani e la chiusura dell’accordo sarebbe a un passo. Anche se Pincar, socio di controllo di Pininfarina, afferma in una nota diffusa su richiesta Consob (l’azienda è quotata in Borsa) che “pur in presenza di un interesse manifestato da Mahindra&Mahindra, non esistono accordi vincolanti di qualsiasi natura tra le parti che prefigurino una operazione di acquisto” della società.

C’è da dire che l’azienda è ormai da tempo focalizzata più sull’engineering e sul design che sulla carrozzeria, specialmente dopo la scomparsa del fondatore Sergio Pininfarina nel 2012, e che negli ultimi anni ha avuto qualche difficoltà economica che ne ha minato la solidità e reso incerto il futuro.

Ai valori di Borsa, il gruppo Pininfarina capitalizza circa 120 milioni di euro e ha chiuso il 2014 con un margine operativo di 7 milioni. Alla fine del 2014, Pininfarina aveva un debito verso gli enti creditizi di 104,8 milioni, scesi rispetto ai 119,3 del 2013. Tutt’altra dimensione per Mahindra&Mahindra, un gruppo da 6 miliardi di dollari di fatturato, nei settori degli autoveicoli, delle attrezzature agricole, della tecnologia delle informazioni. Un boccone fin troppo facile da inghiottire, Pininfarina, e che riapre l’ipocrita questione della salvaguardia dell’italianità delle aziende.

Si fa da anni un gran parlare intorno allo shopping che i grandi gruppi e colossi stranieri vengono a fare in Italia, portandosi in casa marchi storici del made in Italy di qualunque settore, dalla moda all’agroalimentare, dai motori alla meccanica. Spesso si tratta di chiacchiere miopi e demagogiche, che parlano solo di una sacrilega violazione dell’italianità dei marchi, da deprecare o, se possibile, scongiurare.

Fermo restando che “è la globalizzazione, bellezza”, e che può essere una brutta bestia o una benedizione a seconda di come ciascuno vede la questione, più che alzare la voce e le barricate al grido di “non passa lo straniero” anche in economia, quello che davvero varrebbe la pena di chiedersi è per quale motivo certe aziende, orgoglio e vanto del tricolore, finiscono in mani di ricchissimi gruppi esteri.

Se si tratta di marchi in salute, come per esempio Bulgari o Pirelli, è indiscutibile che chi acquista lo fa attratto dall’allure che il brand porta con sé e dal fatto che, grazie a questo, può posizionarsi in segmenti di mercato appetitosi nei quali, magari, ancora non ha messo piede. Se si tratta di aziende decotte e sull’orlo del fallimento come Alitalia o altre è lecito domandarsi se, a fronte delle responsabilità dell’azienda stessa, delle logiche di mercato o delle fallimentari politiche fiscali e del lavoro seguite dal Paese negli ultimi decenni che possono aver condotto sull’orlo del baratro, il salvataggio straniero è proprio così orrendo di fronte all’unica alternativa: la chiusura e la messa su lastrico di centinaia di famiglie.

Crisi dell’auto: i carrozzieri sempre meno italiani, sempre più cinesi

Sempre più orfani della Fiat, i carrozzieri italiani rischiano di essere assorbiti dal mercato estero. E’ il timore espresso da Leonardo Fioravanti, Presidente del gruppo Carrozzieri Autovetture ANFIA, l’associazione della case automobilistiche italiane: “dietro alla maggior parte dei carrozzieri oggi non c’è più capitale italiano, la proprietà è sempre più straniera. Un tempo tutti lavoravano per la Fiat, oggi nessuno. I committenti sono aziende cinesi. Il rischio è che un enorme patrimonio di eccellenza venga disperso“.

Dati alla mano, il comparto della carrozzeria conta oggi 3.500 dipendenti, poco meno di un terzo di 20 anni fa, quando il numero dei carrozzieri in Italia era di almeno 10.000. Anche se il fatturato supera ogni anno il mezzo miliardo di euro, il quadro complessivo del settore assume proporzioni molto differenti rispetto al passato: la ex Bertone, che compirà 100 anni nel 2012, è ormai un satellite Fiat, mentre su Pininfarina, la cui produzione è ferma, ha già messo l’occhio il finanziere bretone Vincent Bolloré. In materia di acquisizioni, l’Italdesign di Giorgetto Giugiaro è ora di proprietà di Volkswagen, mentre l’Idea, che ha in Cina una sede operativa e rapporti con la Chang’an, è stata rilevata dalla società Quantum Kapital. Costretta al fallimento invece la Carrozzeria Maggiora.

Quella dei carrozzieri italiani come produttori dell’alta moda dell’auto, autosufficienti è un’esperienza conclusa” ha sottolineato Giorgio Airaudo, responsabile Auto della Fiom, “Torino ha perso una grande occasione perché aveva un’alta concentrazione dal punto di vista progettuale e industriale. I buoi sono ormai scappati e la classe dirigente piemontese rischia di non governarne neppure gli effetti“.

Un tempo tutti lavoravano pressoché per la Fiat, oggi quasi nessuno” spiega Leonardo Fioravanti, “la parte manifatturiera che ci caratterizzava è scomparsa perché con la lean production le grandi case automobilistiche realizzano da sole le piccole-medie produzioni. Il comparto però non è finito: la parte creativa c’é ancora ed è riconosciuta a livello mondiale. In fondo le acquisizioni fatte da società automobilistiche di livello mondiale sono una conferma di questo, e dietro ai più bei modelli prodotti ci sono degli italiani.’

Ma quali sono le prospettive per il futuro del comparto carrozzeria in Italia? I carrozzieri non potranno di certo sparire, ma la loro sopravvivenza dipenderà anche dal sostegno che l’intero sistema darà alla filiera. “Tramite la partecipazione attiva al Tavolo Istituzionale per la Ricerca Automotive avviato a ottobre 2009 – ricorda Fioravantil’Anfia nel 2010 ha presentato formalmente al ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca un Piano strategico di filiera, costituito da 23 progetti, tra cui il progetto Tris, per realizzare un veicolo ibrido o elettrico, ultra low cost. Un progetto che richiede 10 milioni di euro in due anni e che, per la prima volta in 100 anni, vede una collaborazione fra i carrozzieri italiani. Purtroppo, per ragioni varie, finora è rimasto nel cassetto. Eppure servirebbe a far crescere l’occupazione e a rimettere in funzione gli stabilimenti. Siamo una risorsa del made in Italy, un fiore all’occhiello, abbiamo tutto il diritto di dire ‘dateci una mano’ per resistere e contribuire alla crescita.’

Alessia Casiraghi