Campagne elettorali sempre più social

Domenica 5 giugno si voterà per le elezioni amministrative in diversi comuni italiani e le campagne elettorali sono ormai agli sgoccioli. Molte di queste si sono giocate e si giocano sui social network, evitando il fai da te ma affidandosi a imprese e agenzie in grado di far performare al meglio le campagne elettorali sui social.

Secondo un’indagine della Camera di commercio di Milano, che ha sentito oltre 30 agenzie di comunicazione, le campagne elettorali si giocano soprattutto sui social network: da uno a dieci valgono otto. I social sono importanti per l’immediatezza e perché vicini alle nuove generazioni.

Alle campagne elettorali in rete è destinato il 20% del budget dei candidati. Il social media più importante per la campagna elettorale è Facebook, con quasi la metà delle preferenze, seguito da Twitter. Le campagne elettorali valgono circa un decimo del fatturato del periodo delle imprese del settore.

Nelle campagne elettorali è cambiato il modo di fare pubblicità rispetto al passato – spiega Umberto Bellini, presidente di Asseprim, la Federazione Confcommercio dei servizi professionali per le imprese -. La campagna elettorale rappresenta un momento di coinvolgimento per molte aziende del settore. Un lavoro particolarmente intenso e concentrato nel periodo prima delle elezioni, spesso portatore di novità nel modo di comunicare che resteranno in futuro. Oggi la campagna si gioca molto online e sui social network che, grazie alla loro immediatezza, stimolano il dibattito anche da parte delle nuove generazioni. Ben si prestano rispetto ai tempi ristretti, all’immediatezza, alla possibilità di raggiungere e ampliare i propri interlocutori”.

Sempre secondo un’elaborazione della Camera di commercio di Milano, sono 8mila le imprese che si occupano di comunicazione e pubblicità in Lombardia e pesano un quarto sull’intero settore a livello nazionale, dove sono 32mila. Molte di queste sono impegnate nelle campagne elettorali sui social. Più numerose le agenzie pubblicitarie, con oltre 4mila attività, le imprese di rilevazione di opinioni e sondaggi, 2mila, le oltre mille concessionarie pubblicitarie.

Le imprese calano circa del 2% sia in Lombardia sia in Italia. Gli addetti sono 42mila in Lombardia (2mila in più in un anno) e 90mila in Italia (3mila in più). In Italia, una impresa su cinque è femminile e una su dieci di un giovane. Le città che ne hanno di più sono Milano con 5mila imprese, Roma con quasi 4mila, Torino, Napoli, Brescia con circa mille, Bari, Firenze, Bologna, Verona, Padova con circa settecento e Monza con circa seicento. In molte di queste città si voterà domenica, ragion per cui si nota come molte campagne elettorali social saranno gestite da imprese del territorio.

Le tasse crescono, i partiti ingrassano

di Davide PASSONI

Standing ovation per l’ennesima furbata dei partiti. C’era qualcuno disposto a scommettere che si sarebbero accordati per dare un taglio ai finanziamenti che ricevono, come richiesto a gran voce dall’opinione pubblica? Ma va! Il gran parlare di questi ultimi giorni, il riunirsi in vertici fiume, lo studiare le carte che cosa ha prodotto? Nessun taglio, of course, ma solo un’operazione trasparenza che non è null’altro che un atto di onestà e democrazia dovuto. Di ridursi il fiume di denaro, nemmeno a parlarne.

E sì che la gente è stufa. Stufa di vedere tesorieri che si fanno un tesoro personale con i soldi dei cittadini elettori, o trote che, pare, sguazzano allegramente in un lago di soldi pubblici. Stufa di vedersi aumentare le tasse, allungare l’età lavorativa, sforbiciare la pensione mentre, a palazzo, nessuna stretta ma prebende e vitalizi d’oro che continuano ad allignare, come se chi la governa vivesse su un altro pianeta.

In soldoni, ecco che cosa hanno deciso i principali partiti per rendere i propri bilanci più trasparenti: pubblicazione sul web, un Authority ad hoc, la “Commissione per la trasparenza e il controllo dei bilanci dei partiti politici” (mica pizza e fichi), composta da “alte personalità”, quasi certamente i presidenti (o da loro delegati) di Corte dei Conti, Corte di Cassazione e Consiglio di Stato e presieduta dal presidente della Corte dei Conti, l’ente “terzo” a controllare e verificare la regolarità dei bilanci dei partiti.

Qualcuno vede la parola tagli? Certo che no. Per quelli si pensa a una legge più organica per la riforma del finanziamento pubblico ai partiti. Certo, e Babbo Natale esiste. E non ci si venga a spacciare per un’operazione di coscienza la sospensione (non rinuncia…) alla prossima tranche del finanziamento pubblico ai partiti per la legislatura in corso, in arrivo per fine luglio: circa 180 milioni, secondo il tesoriere del Pd Misiani. Noccioline in confronto ai 2,2 miliardi annui che finiscono nelle tasche dei partiti. Non sotto forma di finanziamento, nooo! Quello era stato abolito da noi, stupidi cittadini, con un referendum 18 anni fa. Quello attuale, inventato per aggirare la volontà popolare, si chiama rimborso elettorale ed è dovuto per le elezioni politiche, amministrative ed europee: 4 euro per ogni avente diritto al voto, si rechi esso alle urne o meno. Capite bene: si può tagliare un simile bengodi? Mai e poi mai.

E intanto aumentano le tasse, ma la spesa pubblica non si taglia. Aumentano i sacrifici ma i partiti continuano a ingrassare. E poi si dà la colpa dello spread che risale ai cattivoni che, dall’estero, remano contro l’Italia. Sentire certe cose dalla bocca dei professori al governo, mette davvero tristezza e rabbia addosso all’Italia che produce. L’Italia che i finanziamenti li va a chiedere alle banche, non agli elettori, e si becca le porte in faccia. L’Italia che non taglia i finanziamenti ma i posti di lavoro. L’Italia che taglierebbe volentieri tante teste (metaforicamente, si capisce) che, oggi come ieri, la governano e l’hanno governata.

Manovra, verso una correzione da 20-25 miliardi

Cominciano a filtrare le prime cifre sulla manovra correttiva cui sta lavorando il governo Monti per raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013. Una manovra sulla quale pesa la revisione al ribasso del pil. Facendo riferimento al calo dello 0,5% nel 2012 previsto dall’Ocse, la correzione necessaria salirebbe dai 13-15 miliardi previsti inizialmente a 20-25 miliardi. Secondo indiscrezioni, al momento si starebbe lavorando sulla parte bassa di questa forchetta.

In tutto questo, arrivano segnali anche dalla politica, sempre meno indifferente di fronte ai propri enormi e ingiustificati costi. Secondo quanto riporta un comunicato congiunto di palazzo Madama e Montecitorio, il presidente del Senato Renato Schifani e il presidente della Camera Gianfranco Fini, si sono infatti incontrati assieme ai rispettivi Collegi dei Questori con il ministro del Lavoro e delle politiche sociali, Elsa Fornero, e hanno comunicato al governo di voler procedere entro la fine dell’anno a una radicale modifica della disciplina in tema di assegni vitalizi.

Dal 1° gennaio 2012 sarà introdotto il sistema di calcolo contributivo, in analogia con quanto previsto per tutti i lavoratori. Tale sistema opererà per intero per i deputati e i senatori che entreranno in Parlamento dopo tale data e pro rata per coloro che attualmente esercitano il mandato parlamentare.

Sempre dal 1° gennaio 2012, i parlamentari che avranno terminato il mandato percepiranno il trattamento di quiescenza non prima del compimento dei 60 anni di età per chi abbia esercitato il mandato per più di una intera legislatura, e al compimento dei 65 anni per coloro che abbiano versato i contributi per una sola intera legislatura. Un po’ alla volta qualcosa si muove…

d.S.

L’Italia non merita di fallire. Noi sosteniamo l’Italia

A volte dalle nostre pagine ci è capitato di non essere d’accordo con quanto affermato dai vertici di Confindustria. Ultimamente, però, su un’affermazione di Emma Marcegaglia ci troviamo d’accordo. Qualche giorno fa la leader degli industriali ha infatti affermato che l’Italia non merita di fare la fine della Grecia, ormai tecnicamente fallita. “Non merita”, appunto, non “non può”. Non merita di fallire. Per diversi motivi.

Intanto, i conti pubblici rispetto all’inizio dell’anno non hanno subito drammatici peggioramenti. Se è vero che il debito di Stato supera i 1900 miliardi di euro e ha una quota nel 2012 in scadenza, compreso il disavanzo, che si aggira intorno al 23,5% dell’ammontare – superiore a quella di ogni altro Paese dell’euroarea, Grecia compresa (che è al 16,5%) – è pur vero che la durata media del debito italiano è la più alta (7,2 anni) e la quota in mani straniere la più bassa, solo al 42%.

Poi, per quanto possa sembrare un inutile mantra, il fatto che i fondamentali economici italiani siano solidi è innegabile; del resto, siamo la prima economia europea per vocazione manufatturiera la seconda per volumi di export. Inoltre, la quota di risparmio privato nelle mani degli italiani è la più alta del mondo, un dato che ci distingue da sempre e che sbattiamo volentieri in faccia a quanti ci accusano di essere un popolo di cicale: l’italiano è formica, caso mai cicale si sono dimostrati i nostri politici negli ultimi 30 anni. Il fatto che li abbiamo votati noi non ci esime da colpe, ma il risultato è che il debito lo hanno fatto loro e quanti come loro hanno ricoperto posizioni istituzionali e amministrative di alto livello: il fatto che vogliano ripianarlo mettendo le mani nelle nostre tasche prima che nelle proprie, è solo un estremo atto di codardia intellettuale.

E ancora. L’Italia non merita di fallire perché è una fonte di contagio formidabile per il mondo e il mondo, nella veste dell’Fmi, non si farà scrupoli a intervenire con i carri armati (figurati, s’intende) per farci cambiare registro prima che sia troppo tardi per tutti. Del resto, un default italiano significherebbe il concreto deragliamento dell’euro che coinvolgerebbe gli altri Paesi in un effetto domino; prima fra tutti la Francia, le cui banche sono le più esposte in quanto a debito italiano in portafoglio e che, in questi giorni, si è sentita bruciare il fondoschiena per via dello scivolone di Standard & Poor’s che ha lasciato intendere un downgrade del Paese. Con Sarkozy terrorizzato di perdere la tripla A tanto quanto Berlusconi è terrorizzato di perdere la propria virilità. E un flop dell’euro tanto tabù non è, visto l’Europa ha una moneta unica ma non una politica economica comune e che Paesi come la grande Germania hanno già fatto i conti di quanto perderebbero o guadagnerebbero uscendo dalla moneta unica, stanchi di pagare sempre e per tutti.

Infine, l’Italia non merita di fallire perché il modo di raddrizzarne i conti e stimolarne la crescita esiste; interventi sulle pensioni di anzianità, dismissioni ciclopiche del patrimonio pubblico, taglio della spesa corrente e dei costi della politica. Interventi duri, in parte antipopolari in parte no, ma la cancrena è troppo avanzata per continuare con le aspirine: ora ci vuole la chemio, dura e aggressiva. Sperando che basti.

Per questo, perché siamo un popolo capace e tenace e per tanti altri motivi, noi pensiamo che l’Italia non meriti di fallire e non possa farlo. Siete con noi? Firmate virtualmente il nostro manifesto facendo Like sulla pagina Facebook SOSTENIAMO L’ITALIA.

ITALYNEWSWEEK

Cara, carissima politica…

L’Ufficio Studi di Confcommercio ha messo a punto un’interessante analisi, “I costi della rappresentanza politica in Italia“, dalla quale emerge una fotografia impietosa degli sprechi e dei costi legati alla politica italiana. Secondo Confcommercio, infatti, la scarsa efficienza dell’apparato pubblico insieme all’eccessivo livello di spesa pubblica rendono indispensabile agire anche su questo fronte per ridurre la pressione fiscale su famiglie e imprese.

Una possibile azione di contenimento della spesa pubblica potrebbe partire proprio dai costi della rappresentanza politica che, in Italia, ammontano a oltre 9 miliardi di euro l’anno, poco più di 350 euro per nucleo familiare, circa 150 euro a testa.

Applicando ai circa 154mila rappresentanti politici dei vari organi nazionali e locali l’ipotesi della riduzione di poco più di un terzo del numero dei parlamentari si avrebbe un risparmio di spesa di oltre 3,3 miliardi all’anno, una cifra sufficiente a ridurre in modo permanente di circa 8 decimi di punto la prima aliquota Irpef a beneficio di oltre 30 milioni di contribuenti; in alterativa il risparmio permetterebbe di ottenere permanentemente una somma di 2.900 euro all’anno da destinare a tutte le famiglie in condizioni di povertà assoluta. Sarebbe in ogni caso la più grande ed efficace operazione di redistribuzione mai effettuata nel nostro Paese.

Da molti anni la spesa pubblica nel nostro Paese si mantiene stabilmente al di sopra del 50% del Pil. È un dato comune alle principali economie europee, anche esse ispirate al modello che intende contemperare esigenze del mercato e coesione sociale, ma che presenta, nel caso dell’Italia, la scarsa efficienza dell’apparato pubblico e la modesta capacità delle politiche redistributive di attenuare/ridurre le disuguaglianze dal lato dei redditi. Ciò sarebbe possibile solo attraverso una graduale riqualificazione e una progressiva riduzione della spesa pubblica.

Nella definizione del perimetro dei costi, Confcommercio ha adottato un’impostazione restrittiva. Inoltre, per ragioni logiche e per l’esigenza di semplificare i conteggi, non è stata inserita nei costi della politica la spesa delle Pubbliche Amministrazioni per trattamenti di quiescenza. Sotto questo profilo, Confcommercio propone una possibile tassonomia dei costi della rappresentanza politica, distinguendo tra costi monetari e costi non monetari. I primi si suddividono in costi diretti (di rappresentanza), cioè riferiti agli emolumenti dei rappresentanti (eletti), costi di funzionamento, comprendenti sia le remunerazioni per personale dipendente e per le collaborazioni (costi indiretti), sia gli acquisti di beni e servizi intermedi della pubblica amministrazione (costi gestionali), strumentali all’esercizio effettivo della rappresentanza politica, e altri costi.

Nel complesso i costi monetari misurabili della rappresentanza politica, calcolati per il 2009, superano i 9,1 miliardi di euro e quindi, considerando i quasi 25 milioni di famiglie e gli oltre 60 milioni di abitanti, i costi della rappresentanza politica valgono circa 367 euro per nucleo familiare, pari a 152 euro a testa.

Quasi il 77% dei costi monetari è costituito dalle spese di funzionamento delle strutture di supporto alle assemblee legislative nazionali e locali. All’interno di queste, le sole spese denominate indirette, corrispondenti alla remunerazione dei dipendenti pubblici che operano in funzione di staff, valgono poco meno del 47% dei costi monetari totali. I costi diretti, invece, che rappresentano il totale delle indennità di funzione e di carica corrisposte ai rappresentanti politici, pesano per oltre il 19% del totale.

Infine, per ogni euro di risparmio sugli sprechi della politica, una catena di “euro” viene potenzialmente risparmiata grazie al fatto che le relazioni socio-economiche della collettività diventano più fruttuose e più dirette, grazie alla ridotta intermediazione e alla limitata invadenza della politica.

Cnf: norma su indennità allontana gli avvocati dal Parlamento

Secondo Guido Alpa, presidente del Cnf, “la norma sulla rinuncia a metà dell’indennità per il parlamentare che abbia altri redditi comporta il rischio di allontanare dalle aule parlamentari i professionisti“. La manovra del Governo “interrompe una tradizione di impegno politico dei ceti professionali, e in particolare degli avvocati, che ha radici antiche e ha offerto all’Italia, fin dai tempi della Costituente, il contributo di personalità come Piero Calamandrei, Giovanni Leone, Enrico De Nicola”.

Alpa suggerisce “sarebbe più ragionevole espungere tale previsione vagamente retorica, o almeno ridurre la misura della decurtazione. Deprimere ulteriormente le capacità rappresentative degli organi parlamentari non gioverebbe a nessuno”. Alpa sostiene che anche i professionisti avvocati possono svolgere egregiamente il loro servizio al Parlamento e quindi la manovra sarebbe ingiusta.

Giovani, battete un colpo. L’Italia vi aspetta

di Davide PASSONI

Giovani, imprenditoria e futuro: atto secondo. Sui social network non si è ancora spenta l’eco del dibattito sul calo dell’imprenditoria under 30 in Italia, ed ecco che al Forum dei Giovani Imprenditori di Confcommercio, in corso a Venezia, viene presentata un’altra ricerca le cui evidenze sono destinate a far discutere.

Si tratta dell’“Indagine sui giovani”, realizzata appunto da Confcommercio, che analizza il rapporto degli italiani non ancora trentenni con il lavoro, l’impresa, la famiglia, la politica e la visione che questi hanno del futuro. Come sempre in analisi di questo genere, i dati e le percentuali sono tanti (li potete leggere nel dettaglio qui), ma ce ne sono 6 sui quali vi invitiamo a riflettere:

1- Giovani che pensano di svolgere il lavoro cui aspirano entro i 30 anni: 60%.
2- Giovani che apirano al posto fisso: 50% (meditate gente, meditate…).
3- Giovani che pensano di lasciare il tetto paterno entro i 30 anni: 45% (bamboccione, dove sei?).
4- Giovani che pensano di aprire un’impresa entro 5 anni: 16%.
5- Giovani del tutto disinteressati a svolgere attività politica: 77%.
6- Fiducia nella politica di incidere sul destino professionale dei giovani: 15,9%.

Proprio su questi ultimi 3 dati vale la pena soffermarsi. La paura di mettersi in gioco e la mancanza di fondi frenano poco meno del 30% di quell’84% che non si vede come imprenditore; quello che allarma è quel 61,6% di loro che rinuncia a mettersi in proprio perché non ha alcuna idea imprenditoriale, nemmeno la più banale. Nell’era della flessibilità e della creatività, riecco quindi il mitico posto fisso, comodo anacronismo italiano.

Sul rapporto tra giovani e politica, le percentuali sono invece impietose e si commentano da sole. Noi ci limitiamo a lanciare uno spunto. Visto che, in questo strano Paese, proprio dalla politica, più che dal mercato, le imprese si aspettano risposte, proposte e indirizzi, stupiscono proprio tanto quel 16 e quel 77% dei punti 4 e 5? O non è vero che, nel loro essere agli antipodi, dimostrano quanto l’uno sia la conseguenza dell’altro?