Pmi, l’emorragia dei posti di lavoro

Ce la faremo a superare questa crisi? Se lo chiedono, ogni giorno, impiegati, imprenditori, professionisti, operai. E se lo chiede anche la Cgia di Mestre, che non ha perso la buona abitudine di elaborare cifre, studi e statistiche per metterci di fronte alla cruda realtà, ma anche per proporre soluzioni valide.

Secondo l’associazione mestrina, nel secondo semestre di quest’anno in Italia si rischiano oltre 200mila posti di lavoro. Di questi, 172mila sono tra le piccole e medie imprese. La stima è risultata incrociando i dati occupazionali dell’Istat e quelli di previsione realizzati da Prometeia.

Secondo il segretario Giuseppe Bortolussi, “premesso che negli ultimi quattro anni la variazione dei posti di lavoro riferiti alla seconda parte dell’anno è sempre stata negativa, la stima riferita al 2012 è comunque peggiore solo al dato di consuntivo riferito al 2009. Purtroppo in queste ore non si sta consumando solo la drammatica situazione dei lavoratori dell’Alcoa o dei minatori del Carbosulcis, ma anche quella di decine e decine di migliaia di addetti delle Pmi che rischiano di rimanere senza lavoro“.

Come detto, però, dalla Cgia non mancano proposte costruttive per aiutare le Pmi: “Le ristrutturazioni industriali avvenute negli Anni ’70, ’80 e nei primi anni ’90 – dice Bortolussi, presentavano un denominatore comune. Chi veniva espulso dalle grandi imprese spesso rientrava nel mercato del lavoro perché assunto in una Pmi. Oggi anche queste ultime sono in difficoltà e non ce la fanno più a creare nuovi posti di lavoro. Per ridare slancio alle piccole realtà imprenditoriali che continuano ad essere l’asse portante della nostra economia diventa determinante recepire in tempi brevissimi la Direttiva europea contro il ritardo dei pagamenti, per garantire una certezza economica a chi, attualmente, viene pagato mediamente dopo 120/180 giorni dall’emissione della fattura. Bisogna trovare il modo per agevolarne l’accesso al credito, altrimenti l’assenza di liquidità rischia di buttarle fuori mercato. Infine, bisogna alleggerire il carico fiscale premiando anche i lavoratori dipendenti, altrimenti sarà estremamente difficile far ripartire i consumi interni“.

Partite Iva: le norme mettono a rischio posti di lavoro

Le nuove norme che disciplinano le partita Iva, contenute nella riforma del lavoro che si appresta a iniziare il suo iter parlamentare, mettono a rischio molti posti di lavoro. E’ quanto sottolinea la Fondazione Studi dei consulenti del lavoro, che analizza gli effetti e i profili di criticità del ddl sulla riforma del mercato del lavoro, con la circolare n.6 del 2012. Si tratta di primo un esame tecnico giuridico, disponibile integralmente sul sito consulentidellavoro.it, che interessa soprattutto il lavoro a progetto e il lavoro autonomo.

Nel mirino dei consulenti, i tre requisiti che, secondo le nuove regole, fanno scattare per le partite Iva, il presupposto di lavoro subordinato: monocommittenza, durata della prestazione superiore a 6 mesi in un anno e il fatto che il collaboratore disponga di una postazione di lavoro presso una delel sedi del committente. “Qualora ricorrano -spiega la circolare- anche soltanto due dei tre presupposti indicati, opera dunque la presunzione del regime di parasubordinazione del rapporto”.

La conversione avviene automaticamente, “salvo che sia fornita la prova contraria da parte del committente”. Per i consulenti “la scelta, evidentemente discutibile, conferma l’approccio alla materia che nell’ambito del condivisibile obiettivo di perseguire le violazioni delle tutele in materia di lavoro, ritiene in maniera aprioristica in senso negativo qualsiasi rapporto di lavoro diverso dal ‘tempo pieno e indeterminato'”.

“Il problema è che da un approccio sbagliato, la correzione possa riverlarsi dannosa perlomeno quanto il vizio che si vorrebbe correggere”, aggiungono gli esperti della Fondazione Studi dei consulenti del lavoro.

E questo potrebbe comportare (come “ipotesi non affatto remota”, spiegano ancora) “l’effetto perverso negativo per l’occupazione, con la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro, scaturente dal timore di conversioni forzose e dei costi, ingiustificati quanto una conversione ex lege avulsa dalle modalità di attuazione effettiva del rapporto di lavoro, che ne conseguirebbero”.

Fonte: adnkronos.com

L’esercito dei 3000 green manager

di Alessia CASIRAGHI

Eco sostenibilità, efficienza energetica e energia pulita. Sono le 3 parole chiave del futuro dell’imprenditoria e non solo. E moltiplicando queste 3 parole per mille ecco la quota di professionisti di cui si andrà a caccia entro il 2012. Sono i Green Manager, ovvero coloro che sono in grado di gestire secondo principi ‘ecologici’ il tessuto produttivo delle aziende.

In Italia i green manager sono per ora solo 2.650, secondo quanto riportato dal FIRE Federazione Italiana per l’uso Razionale dell’Energia, ma secondo Confindustria queste figure professionali sono destinate a moltiplicarsi di 7 volte nell’arco dei prossimi 8 anni, per raggiungere nel 2020 quota 1,6 milioni.

In Europa in fatti si parla di una richiesta di professionisti dell’energia green che sfiorerà, entro il 2020, la quota di 3 milioni di addetti ai lavori, che raggiungerà la cifra impressionante di 8 milioni se lo sguardo viene ampliato allo scenario mondiale.

Ma quali sono le ragioni di questo boom delle professioni green? La legislazione in materia di risparmio energetico e ecosostenibilità, come conferma l’agenzia per l’Ambiente delle Nazioni Unite, diventerà molto più severa e restrittiva: l’esigenza di sostenibilità interesserà soprattutto i cicli di lavoro, le norme impiantistiche, la necessità di certificazioni aziendali ma non solo. I Green Manager svolgeranno infatti un’importantissima funzione anche per quanto riguarda la partecipazione delle aziende a bandi di concorso per l’ottenimento di incentivi statali, così come nell’intercettare nuovi trend e fasce di mercato green.

Ma qual è il profilo ideale di un Green Manager? Quali skills deve possedere? Un eco manager dovrà prima di tutto sapere interpretare in chiave verde settori trasversli all’azienda: dall’ideazione alla produzione, alla logistica, alla distribuzione sul mercato del prodotto, tutto secondo i canoni della green governance. Non solo: dovrà sempre supervisionare l’applicazione dei criteri di efficienza energetica, assicurarsi che il marketing e la comunicazione siano in grado di valorizzare il surplus green dell’azienda. Fondamentale essere sempre aggiornato sulla legislazione ambientale, intermini di normative, vincoli e contributi statali, nonché intercettare i nuovi trend di mercato globali in materia di green economy.

Il green manager avrà al suo fianco però degli alleati strategici: gli eco-auditor, che controllano gli impianti produttivi e la tipologia di rifiuti pericolosi, il risk manager, a cui spetta il compito di individuare i punti deboli e i rischi delle attività commerciali, e l’energy manager, lo specialista dell’ottimizzazione dell’uso dell’energia.

Occupazione: il terziario tiene, l’industria molto meno

di Vera MORETTI

La disoccupazione continua ad essere uno dei problemi più assillanti per gli italiani.

I dati provenienti dall’Ufficio Studi di Confcommercio sulle tendenze recenti del mercato del lavoro parlano chiaro e rivelano che, dopo un trend positivo iniziato nel secondo trimestre del 2010 che aveva lasciato ben sperare, tra settembre e novembre 2011 gli occupati sono diminuiti di 42mila unità e i disoccupati in cerca di nuovo lavoro sono, di conseguenza, cresciuti per toccare le 63mila unità.

Le “vittime” sono soprattutto giovani tra 15 e 24 anni, il cui tasso di disoccupazione ha raggiunto il 30%, addirittura dieci punti in più rispetto all’inizio del 2007.
Questa situazione è più diffusa nel Mezzogiorno, dove la disoccupazione ha superato il 13%, anche se il rischio che questa crisi raggiunga centro e nord è alquanto probabile.

Per quanto riguarda i settori produttivi, i comparti più dinamici sono quelli delle attività immobiliari e i servizi alle imprese, in aumento di 583mila posti di lavoro, ma anche alberghi e pubblici esercizi riportano dati positivi, con 145mila occupati in più.
Se consideriamo i lavoratori dipendenti che operano nell’ambito di commercio, alberghi e pubblici esercizi, i nuovi posti di lavoro sono stati, negli ultimi 10 anni, 395mila, contro i 347mila persi dall’industria.

Il terziario si conferma, in questo panorama, quello che ha “tenuto” di più, ma non solo, perché ha saputo anche creare nuova occupazione, cosa da non sottovalutare.

Se l’imprenditore straniero fa impresa

Hanno in media 33 anni, si trovano prevalentemente al Nord – con un tasso record nella provincia di Prato – e riescono a offrire occupazione ad almeno 5 dipendenti. Chi sono? Gli immigrati imprenditori, una realtà sempre più in crescita nel Bel Paese e che, secondo un rapporto stilato da Cnel possono offrire una valida via d’uscita dalla crisi.

Perchè? Innanzitutto perchè la resistenza delle piccole imprese allo shock della crisi economica si deve anche “alla progressiva sostituzione di imprenditori autoctoni con imprenditori immigrati”. Metà degli imprenditori stranieri si dichiara infatti “abbastanza ottimista” riguardo al futuro della propria attività, Primi fra tutti i commercianti d’abbigliamento e gli imprenditori edili.

Ma qual è l‘identikit dell’imprenditore migrante? Arrivato in Italia a 24 anni, dopo una formazione nel Paese di origine, ha trovato impiego prima come dipendente, avviando solo successivamente un’attività imprenditoriale. Il 77% ha fondato da sé l’azienda, il 21% l’ha rilevata, il 2% l’ha ereditata.

Gli imprenditori stranieri in Italia sono 628mila, e sono concentrati soprattutto nelle province del Nord e nelle aree dei distretti industriali. La maggior parte, il 64,5%, è titolare di impresa con un occupazione media di 4,7 dipendenti, mentre il 35,5% è un lavoratore autonomo, senza alcun dipendente,

Ma il dato più interessante della ricerca riguarda il fatto che molto spesso sono gli imprenditori immigrati ad assumere dipendenti italiani: “La media generale è un posto di lavoro per italiani ogni due imprenditori stranieri” rivela la ricerca di Cnel.

“Le loro attività non richiedono un’elevata dotazione di capitale, alta è infatti la capacità di autofinanziamento, resa possibile da un periodo lungo di occupazione come dipendente”. Il 66,8% degli intervistati ha dichiarato di non ha avuto bisogno di capitali di terzi, mentre il 10,6% ha coinvolto familiari e parenti nella nascita dell’impresa.

Ultimo capitolo: l’integrazione con il tessuto economico nazionale. Il 66,5% degli imprenditori migranti ha clienti italiani, mentre il 77,3% si rivolge a ditte fornitrici italiane. I comparti in cui si riscontra una maggior osmosi sono quelli della meccanica e dei trasporti, mentre si riduce per quanto riguarda l’abbigliamento.

Il 16% degli imprenditori mantiene stretti rapporti d’affari col Paese d’origine, e il 14% ha la cittadinanza italiana. Ma quali sono le richieste più diffusa tra i nuovi imprenditori migranti? Il diritto di voto e la possibilità di usufruire delle agevolazioni pensionistiche, tornando a vivere però nel Paese di origine.

Alessia Casiraghi

La stretta via per la banda larga

Ormai è un dato di fatto: Internet è un motore economico di straordinaria potenza, capace di creare posti di lavoro e ricchezza. Attraverso il web qualsiasi impresa può aprirsi a nuovi mercati, altrimenti inaccessibili, e recuperare così competitività. Certo, questo richiede uno sforzo di modernizzazione considerevole, ma il gioco vale sicuramente la candela.

Fin qui, tutti d’accordo. Ma esattamente quanto incide Internet sulla crescita economica di un Paese? Oggi, grazie ad un recente studio condotto dal colosso svedese Ericsson, in collaborazione con la società di consulenza Arthur D. Little e la Chalmers University of Technology, abbiamo numeri e dati certi a nostra disposizione.

Nello specifico, l’indagine in questione ha misurato il rapporto tra la velocità di connessione a banda larga e il PIL in 33 paesi dell’OCSE, tra cui l’Italia: secondo quanto emerso, a un raddoppio della velocità online corrisponde un aumento del Prodotto Interno Lordo pari allo 0,3%, oltre un settimo del tasso annuale di crescita medio fatto registrare dagli stati membri dell’organizzazione nell’ultimo decennio.

Gli effetti economici positivi che Internet è in grado di produrre sono stati suddivisi in tre gruppi: diretti, ossia nel breve termine (per esempio, nuovi posti di lavoro per realizzare le necessarie infrastrutture); indiretti, quando l’orizzonte temporale si dilata (maggiore efficienza complessiva a livello produttivo); indotti, derivanti cioè dall’introduzione di servizi di pubblica utilità d’avanguardia e modelli di business innovativi (telelavoro).

L’Italia purtroppo non brilla in nessuna di queste tre categorie. Anzi, da questo punto di vista, la situazione negli ultimi anni è andata progressivamente peggiorando.

Secondo un rapporto redatto dalla società di consulenza McKinsey in occasione del G8 dello scorso maggio, infatti, il digital divide che ci separa dalle maggiori potenze mondiali è preoccupante: solo per fare un esempio, negli ultimi quindici anni i posti di lavoro creati da Internet nel nostro paese sono stati 700mila, contro 1 milione e 200mila in Francia. Anche per quanto riguarda la penetrazione della fibra ottica i dati non sono incoraggianti: alla fine del 2010 con 348mila abbonati l’Italia figurava al penultimo posto nella classifica europea, davanti solo alla Turchia.

Nonostante i numerosi appelli alle istituzioni, gli investimenti nella banda larga sono stati finora insufficienti. L’ultima doccia fredda è arrivata con la nuova bozza della legge di Stabilità: i 770 milioni derivanti dall’asta per le frequenze 4G, che originariamente sarebbero dovuti andare alle telecomunicazioni, sono stati invece dirottati verso la Pubblica Istruzione e il Tesoro.

Senza una decisa inversione di tendenza, l’Italia rischia di restare al palo. E con l’attuale congiuntura economica sfavorevole, nessuno può permettersi di tenere spento un motore economico potente come Internet.

Manuele Moro

Istat: il tasso di disoccupazione scende al 7,9%

Disoccupazione italiana in calo, secondo i nuovi dati Istat. In agosto il tasso di disoccupazione è sceso al 7,9%, contro l’8% registrato a luglio. Una ventata di ottimismo, se si confrontano i dati rilevati nel secondo semestre 2011 con quelli dello scorso anno: nel secondo trimestre 2011 la disoccupazione è scesa al 7,8% rispetto all’8,3% del secondo trimestre 2010. Disoccupati ai minimi dal 2009, ovvero sotto quota 2 milioni.

Ma i dati non sono poi così rassicuranti. Anche se la disoccupazione è in calo, si rafforza al contrario quella di lunga durata, che ha registrato un’impennata nel secondo trimestre 2009, con un 52,9%. La disoccupazione femminile al Sud continua ad essere una piaga per il nostro Paese, registrando un tasso pari al 44%.
In Italia a preoccupare sono soprattutto la disoccupazione giovanile e la precarietà sempre più spinta, secondo quanto la Commissione Ue nell’ultimo rapporto sull’occupazione. I dati di Eurostat non sono rassicuranti: la disoccupazione dei giovani in Italia ad agosto è infatti aumentata dal 27,5% a 27,6%, contro una media europea del 20,4%. In aumento anche il numero di giovani che non studiano né lavorano: sono al 19,1%, una media che ci porta secondi solo alla Bulgaria (21,8%).

L’ultimo rapporto Istat rivela inoltre la diminuzione degli impiegati a tempo pieno, -0,2%, e l’aumento del lavoro a tempo parziale, +3,4%. Cresce il numero dei dipendenti a termine, +6,8%, mentre è in calo la riduzione dei lavoratori con contratto a tempo indeterminato -0,1 %.

La crescita dell’occupazione nel secondo trimestre 2011 è favorita dalla presenza di lavoratori stranieri. Nel periodo aprile-giugno 2011 infatti, l’occupazione è cresciuta dello 0,4% rispetto al secondo trimestre 2010, con un aumento di 87mila unità,ma mentre l’occupazione italiana perde 81mila unità quella straniera avanza di 168mila. Il tasso di occupazione per gli italiani rimane stabile al 56,6% mentre quello degli stranieri è in discesa al 63,5%.

I segnali di ripresa, rispetto al 2009, sembrano chiari. Ma per l’economia italiana la capacità di creare posti di lavoro resterà debole ancora a lungo.

A.C.

Tornano a crescere le assunzioni in tutta Italia

Secondo Unioncamere ci sarebbero ”segnali di miglioramento sul fronte dell’occupazione in Italia”, e anche ‘il Sud torna ad assumere. I dati ottimisti sono stati presentati all’ assemblea dei presidenti delle Camere di Commercio. In particolare sembra che nel Mezzogiorno siano poco meno di 100mila le assunzioni previste nel II trimestre 2011, 18.580 in pi del 2010.

Mentre ”il Nord-Ovest mette a segno l’incremento maggiore rispetto allo scorso anno”, con 78mila entrate, ‘quasi 20mila in pi di quanto previsto a fine giugno”. Anche nel Nord-Est si respira aria buona con quasi 83mila entrate, 15mila in pi del 2010 e anche il Centro da segni di miglioramento con 58mila assunzioni, 5.100 in pi dell’anno scorso.

Secondo le stime generali di Uniocamere sono quasi 317mila le assunzioni che verranno effettuate dalle imprese italiane entro la fine di giugno. Di queste, 220mila avranno carattere non stagionale. Rispetto al secondo trimestre dello scorso anno, le assunzioni totali dovrebbero essere oltre 58mila in pi e quelle non stagionali quasi 61mila. Il settore dei servizi sarà il più forte con una flessione del commercio al dettaglio e del turismo. In risalita le assunzioni anche nell’industria in senso stretto, che prevede di integrare entro fine giugno 52mila dipendenti, 43mila dei quali con contratto di lavoro non stagionale.