Carburanti: nuovi rialzi dei prezzi per benzina e diesel

La diminuzione dei costi dell’energia e in particolare del gas e dell’elettricità hanno portato un po’ tutti a non guardare il prezzo dei carburanti. Un’ondata di ottimismo che però sembra non essere giustificata, infatti i prezzi di benzina e diesel sono di nuovo in rialzo.

Aumenti dei prezzi dei carburanti nel mese di marzo 2023

Per gli automobilisti sembra non esservi pace, infatti dopo che è stata rimandata la decisione sul divieto di vendita di auto con motore endotermico a partire dal 2035 a causa delle perplessità espresse da Italia, Germania, Polonia e Bulgaria, sono di nuovo in rialzo i prezzi dei carburanti.

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A rilevare l’aumento dei prezzi è Staffetta Quotidiana che ha registrato un aumento del prezzo della benzina al litro di un centesimo per Eni e Q8, aumenti di due centesimi invece per IP. Tamoil ha aumentato il prezzo di benzina e diesel entrambi di un centesimo.

Quanto costa fare il pieno di benzina e diesel?

La media dei prezzi al self service in Italia è di 1,858 euro/litro per la benzina, mentre per il diesel costa 1,817 euro/litro. Questo vuol dire che sembra essersi ristabilito il rapporto di prezzo tra gasolio e benzina visto che negli ultimi mesi vi era stato uno storico sorpasso e il diesel costava più della benzina. Per il servito naturalmente i prezzi sono più elevati e la benzina in media costa 1,998 euro/litro, mentre il diesel 1,959 euro/litro. Alcune compagnie hanno però prezzi al servito che superano i due euro, quindi prima di fare rifornimento è bene anche cercare di capire presso quali pompe è possibile ottenere un risparmio.

In autostrada è necessario registrare prezzi più elevati e per il verde la media è di 1,937 euro/litro, mentre per il diesel 1,898 euro/litro, anche in questo caso si tratta dei prezzi al self mentre per il servito sono più alti. Ricordiamo che attualmente non sono in vigore sconti sulle accise dei carburanti. Gli stessi erano stati applicati dai precedenti governi al fine di aiutare gli italiani a far fronte ai rincari dei prezzi dei carburanti ed erano alimentati dall’aumento delle entrate Iva determinate proprio dall’aumento dei prezzi.

Crisi: colpiti anche i ristoratori. Ecco le testimonianze

Clientela in calo in media del 30%, contro una media nazionale che si attesta al -40%, prezzi immutati dal 2011 e consumi in caduta. Pare che anche la Madonnina si sia messa a digiuno. Almeno stando alle interviste video che abbiamo raccolto in giro per Milano dove i ristoranti soffrono la crisi: prenotazioni in calo, clientela che opta per menù sempre più ‘light’, soprattutto per il portafogli, e incassi che scendono vertiginosamente rispetto allo scorso anno. Ma che cosa ne pensano i ristoratori? Abbiamo attraversato la città, dai Navigli a Brera, per chiederlo direttamente a loro.

Il risultato? La cena fuori è ormai un lusso per la maggior parte dei milanesi, soprattutto quando ci si avvicina alla fine del mese. Anche nella scelta del menù, i clienti optano sempre meno per carne e pesce e rinunciano spesso al vino. Le conseguenze sul settore gastronomico e della ristorazione sono inevitabili: personale in calo di almeno 2 unità,  incassi abbattuti in media del 30% e una torta da spartire sempre più piccola. Con qualche eccezione, dovuta soprattutto alla posizione favorevole e al passaggio di turisti. Ma qual è la ricetta da proporre al Governo per superare la crisi? Ce lo dicono i ristoratori in queste interviste.

 

 

Alessia CASIRAGHI

Calo dei prezzi del carburante: effetto valanga sulla spesa

Il calo dei prezzi del carburante è destinato ad avere un effetto valanga sulla spesa delle famiglie italiane in un Paese dove l’88 per cento delle merci viaggia su strada.

E’ quanto emerge da una analisi della Coldiretti in riferimento all’attesa del Governo per una ulteriore riduzione dei prezzi del carburante di almeno 4-5 centesimi al litro, oltre alla riduzione di 2 centesimi gà avvenuta. Il prezzo della benzina negli ultimi tempi – sottolinea la Coldiretti – ha via via scavalcato quello di un litro di latte, di un chilo di pasta e in alcuni casi anche quello del vino con pesanti effetti sul potere di acquisto degli italiani. Per effetto della riduzione del potere di acquisto le famiglie italiane – conclude la Coldiretti – hanno tagliato anche le spese alimentari con un calo del 2 per cento nel primo trimestre del 2012, come ha confermato Confcommercio dopo che lo scorso anno si erano ridotte dell’1,3 per cento con meno carne bovina (-0,1 per cento), pasta (-0,2 per cento), carne di maiale e salumi (-0,8 per cento), ortofrutta (-1 per cento) e addirittura meno latte fresco (-2,2 per cento).

Fonte: agenparl.it

Figisc: prezzo benzina stabile

Dopo gli aumenti senza sosta degli ultimi giorni, per le festività di Pasqua i prezzi dei carburanti dovrebbero rimanere sostanzialmente stabili.

E’ la previsione della Figisc Confcommercio.

”Le ultime due chiusure del Platt’s – sottolinea il presidente Luca Squeri – hanno fatto registrare una diminuzione di circa 1 cent al litro per la benzina e di circa 0,8 cent per il gasolio. Ci si puo’, pertanto, attendere per i prossimi 3-4 giorni una sostanziale stabilità dei prezzi”.

Fonte: ansa.it

Maltempo: agricoltura danneggiata per 500 mln

Mentre l’ondata di gelo polare sta avviandosi alla fine, l’agricoltura fa il suo doloroso elenco dei danni, che hanno già superato i 500 milioni di euro. Ma bisogna fare anche altri conti: quelli sui rincari, che da qualche giorno stanno facendo impazzire i prezzi di frutta e verdura sui banchi dei mercati e sugli scaffali della grande distribuzione.

“E’ il copione di un film già visto troppe volte – dicono al Centro Studi di Confagricoltura -. Il gelo ha colpito alcune produzioni come indivia, radicchio e cavolfiori, con una conseguente diminuzione dell’offerta. Ma i rincari al consumo non riguardano che minimamente gli incassi delle aziende agricole”. In altre parole, i prezzi di frutta e verdura, nei casi in cui sono aumentati per i consumatori, hanno determinato per gli agricoltori variazioni in positivo assolutamente marginali e solo per i prodotti colpiti da forti cali produttivi, mentre per la frutta le variazioni sono praticamente nulle. Il Centro Studi di Confagricoltura ha preso a riferimento i prezzi all’origine Ismea di alcuni ortofrutticoli dell’ultima settimana disponibile (5° settimana del 2012 che va dal 29 gennaio al 5 febbraio) e li ha confrontati con quelli della settimana precedente e della corrispondente settimana 2011. Ecco i risultati.

Per gli ortaggi, i maggiori rincari riguardano i prodotti più colpiti dal gelo (radicchio, indivia e cavolfiori). Per questi prodotti i rincari su base settimanale sono anche “a doppia cifra” (+22,4% per il radicchio, +13-14% per l’indivia e cavolfiori, +12% per finocchi e peperoni etc.) ma:

o   si tratta di rincari che in assoluto sono nell’ordine di qualche centesimo per chilogrammo! Stiamo parlando di 10-12 centesimi in più per un kg di radicchio o di peperoni, addirittura solo 2-4 centesimi in più a chilo per indivia, finocchi, lattuga e cavolfiori. Certo un aggravio che non può pesare più di tanto sul carrello della spesa dei consumatori. Evidentemente i rincari sono frutto di altri fattori e non certo dell’aumento dei prezzi all’origine.

o   Per alcuni prodotti orticoli le quotazioni all’origine sono ferme (pomodori in serra e ciliegini) e per altri, come le tanto “chiacchierate” zucchine, addirittura si registra un calo delle quotazioni all’origine, che sono arrivate a meno di un euro a kg con una riduzione di 14 centesimi per chilogrammo, quotazione pari al 12,5% in meno rispetto alla settimana precedente e leggermente inferiore a quella della stessa settimana dello scorso anno.

Non solo le zucchine ma anche altri prodotti oggi costano all’origine meno (anche considerevolmente in percentuale) di quanto accadeva un anno fa. L’indivia -6%; i finocchi -9% ed i peperoni -22%. Per ciliegini e patate comuni il calo è addirittura del 30 per cento. Per le cipolle le quotazioni sono inferiori di oltre il 47% rispetto al 2011.

·Per quanto riguarda la frutta, i prezzi sono praticamente fermi rispetto alla settimana precedente (e la cosa si giustifica anche considerando che a parte gli agrumi la fase di raccolta è già da tempo conclusa) e tutti in calo, anche fortemente (ad es. actinidia: -12,8%; mandarini: -17,4% e pere: -43,3%), rispetto alle quotazioni all’origine dello scorso anno.

“In conclusione – sottolinea l’analisi di Confagricoltura – se ci sono particolari rincari al consumo degli ortofrutticoli questi non dipendono dai produttori agricoli, che invece confermano, evitando eccessivi aumenti dei prezzi all’origine, il ruolo antinflattivo del settore a vantaggio dei consumatori. Questo anche se il reddito degli agricoltori è pregiudicato sia dalle minori entrate (influenzate dal calo di produzione dovuto al gelo) sia dai maggiori costi (collegati ai rincari energetici)”.

Fonte: agenparl.it

Pmi, il pricing come chiave dello sviluppo


di Davide PASSONI

Dopo l’intervista al prof Hermann Simon – presidente e cofondatore di Simon-Kucher & Partners – Strategy & Marketing Consultants -, pubblicata mercoledì scorso, oggi tocca al dott. Danilo Zatta – Senior Director Simon-Kucher & Partners Italia – parlare di piccole imprese e politiche di pricing.

Cogliere con successo le sfide della modernità: quali strumenti possono utilizzare le Pmi per riuscire in questo obiettivo?
C’è una serie di strumenti molto importanti sul lato ricavi. Se guardiamo ai profitti secondo la elementare formula economica che li vede come il risultato di prezzo X volumi – costi. In molte Pmi italiane sul lato costi è stato fatto molto, perché si tratta di un aspetto tradizionalmente ben presente al manager; sul lato prezzi, invece, ciò che è stato fatto è sempre nato grazie al fiuto dell’imprenditore, mentre sul lato volumi è difficile muoversi perchè ci troviamo spesso su mercati maturi e togliere qualcosa a un competitor grazie a un comportamento aggressivo, non fa altro che innescare una guerra che, alla fine, si ripercuote in modo negativo sui margini.

E quindi?
La Pmi italiana deve capire come passare, sul lato pricing, da un approccio “di pancia” a uno più sistematico. Molte aziende sono infatti brave nella “value delivery”, ossia danno molto valore ai propri clienti, con un approccio che però porta a minor eccellenza sul piano della cosiddetta “value extraction”, ossia l’estrazione di valore dal mercato. Per migliorare in questo ambito ci sono accorgimenti sui quali poter essere più bravi a cogliere valore e portare l’impresa a un aumento in termini di marginalità e a farsi pagare dal mercato ciò che realmente essa merita.

Di quali strumenti parliamo?
Uno di questi strumenti è il peer pricing, che permette di capire come indirizzare la performance dei venditori e vendere non quello che viene facile, ossia lo sconto, ma vendere il valore. Per far in modo che non sia il direttore commerciale a imporre le politiche di vendita ma che queste vengano impostate confrontando le performance dei migliori venditori e allineando le performance di tutti verso l’alto, verso quella di colui che vende con meno sconto, vendendo il valore. Da qui si originano altre tematiche, come allineare il proprio partner commerciale agli obiettivi aziendali, quando, come spesso capita, una piccola impresa non è in grado di dotarsi si una propria forza commerciale e si affida a degli intermediari. Anche in quel caso, è necessario offrire uno sconto non fine a se stesso ma subordinato a obiettivi: se mi paghi in tempo, se mi esponi in un certo modo all’interno della tua catena, se spingi i prodotti che per me sono più importanti, ecc… Per tutte le realtà imprenditoriali c’è una serie di possibilità per assicurarsi una crescita che io definisco profittevole, ossia assicurarsi che la Pmi possa prosperare e diventare quello che noi chiamiamo un “campione nascosto”: piccole e medie realtà di successo. Capire quali sono i fattori di successo che li hanno fatti diventare leader nei loro settori di mercato per poterne replicare il successo da parte di altre imprese.

Quanto il tessuto produttivo italiano può essere un freno e quanto uno stimolo all’adozione degli strumenti di cui parla?
Il nostro tessuto produttivo può dare più opportunità perché, se vediamo il saldo commerciale dell’Italia, gran parte delle esportazioni viene da realtà di piccole e medie dimensioni: riuscire a fare un upgrade di queste realtà da semplici player a leader di settore può fare la differenza per il benessere dell’Italia tutta. Ecco perché Paesi come la Germania hanno un numero elevato di “campioni nascosti”, ossia imprese poco note al grande pubblico ma leader mondiali nelle loro nicchie di mercato.

In un periodo difficile come questo, per una impresa italiana è più importante sopravvivere o avere il coraggio di innovare?

Questa è stata per noi una domanda chiave nel 2009, quando ci siamo trovati faccia a faccia con la crisi. Allora pubblicammo un libro dal titolo “Battere la crisi” in cui illustravamo 33 azioni a rapido impatto per superare la crisi, libro nel quale indicammo misure rapide per poter sopravvivere. Nel momento in cui ci si trova di fronte a una crisi così forte è importante assicurarsi ossigeno per sopravvivere nel breve termine, ma non può essere questo l’obiettivo; è fondamentale capire come assicurarsi una posizione nel lungo andare e l’innovazione è lo strumento principale che si può usare per farlo: con questa si avrà un vantaggio competitivo in più nei confronti dei concorrenti e non si rischierà di finire di nuovo stretti all’angolo delle commodities.

Come si pongono altre realtà europee di fronte a questo dilemma, secondo la sua esperienza?
Nella mentalità italiana c’è più paura a entrare in nuovi concept imprenditoriali, mentre nel mondo anglosassone e tedesco vedo maggior apertura, forse anche perché le imprese piccole e medie tedesche sono più grandi di quelle italiane in termini di dipendenti e fatturato, più lontane da una gestione e da una mentalità familiare tipica nostra che, spesso, è un ostacolo al cambiamento. Inoltre, i tedeschi sono più presenti di noi sui mercati esteri, il che favorisce una maggiore apertura mentale e la volontà di capire e conoscere approcci nuovi. In Italia gli imprenditori vogliono essere convinti dalle esperienze e dai casi di aziende simili alla loro per poter abbattere la diffidenza. Quando in Italia si fanno interventi di questo genere si tratta di veri e propri casi di change management: cambiare il modo in cui le Pmi approcciano i mercati e vendono, aiutarle a cambiare mentalmente.

La globalizzazione: una scusa o una opportunità per le Pmi?
Penso sia una grandissima chance, tuttavia bisogna capire che cosa significa precisamente in termini di presenza sui mercati. A tal proposito abbiamo battezzato un nuovo segmento emergente che è quello dell’ultra low cost, che può rappresentare un’opportunità importante anche per le aziende che operano in settori di mercato elevati, proprio perché questo segmento ha un numero molto elevato di clienti potenziali. Vedo come opportunità il continuare a servire segmenti di nicchia del medio e alto di gamma, ma capire come poter cambiare l’offerta commerciale sviluppando in loco prodotti diversi, che permettano di piazzarsi in nuovi settori. Pensiamo all’Adidas, che ha sviluppato una scarpa a 1 euro per i mercati emergenti: cambiando packaging e caratteristiche del prodotto si possono servire segmenti insospettabili di mercato.

Adidas è un colosso, ma si tratta di strategie replicabili in scala minore per realtà imprenditoriali più piccole?
Sì, nel nostro Paese in questo senso c’è un potenziale molto interessante da cogliere anche nel breve, anche da parte delle piccole imprese artigiane.

Pricing debole? I tuoi profitti calano del 25%

Il 65% delle aziende non è in grado di modificare i prezzi in modo conforme al valore offerto dai loro prodotti e servizi. La conseguenza è che il 25% dei profitti vanno perduti. Invece di concentrarsi sul profitto, il 46% degli amministratori delegati combatte una guerra di prezzo per conquistare volumi e quote di mercato. Infine, quando le aziende decidono di aumentare i prezzi, quello che ottengono è solo la metà di quanto previsto.

Sono i risultati del Global Pricing Study 2011, condotto dall’impresa di consulenza Simon-Kucher & Partners, presente sia in Italia che a livello mondiale. L’indagine getta luce su cultura del profitto, potere relativo al pricing e prospettive di profitto di più di 3.900 dirigenti di tutti i principali settori sia manifatturieri che di servizi, chiarendo anche il modo in cui intendono fronteggiare il rischio dell’inflazione. Circa la metà degli intervistati in Europa, USA e Asia proviene da aziende con un fatturato superiore a un miliardo di euro; un terzo degli intervistati è costituito da top manager. I risultati dello studio dimostrano che le aziende sottovalutano la minaccia dell’inflazione e sono scarsamente preparate quando si tratta di aumentare i prezzi. Ma l’inflazione è inevitabile. “Per garantire i profitti i dirigenti devono prepararsi a fronteggiare l’inflazione. Nella maggior parte dei casi è sbagliato usare il tasso d’inflazione come benchmark per stabilire l’aumento dei prezzi“, spiega Danilo Zatta, Senior Director in Simon-Kucher & Partners.
 
Il mancato sfruttamento del potere del pricing
Il potere del pricing consiste nella capacità delle aziende di spuntare dei prezzi in linea con il valore offerto ai loro clienti. Soltanto un terzo dispone di un sufficiente potere di pricing e di competenze per trasformare il valore in denaro. Il restante 65% delle aziende ammette di non avere alcun potere di pricing, o di averne poco, e ciò spiega per quale motivo non sia possibile raggiungere il prezzo obiettivo. Le scarse prestazioni sono costose e riducono di un quarto i profitti.
 
Sotto questo aspetto esistono profonde differenze tra i diversi settori e Paesi: il settore chimico (14%) e quello di trasporti & logistica (19%) detengono il minor potere di pricing. L’Italia e la Spagna, a causa del difficile contesto economico, sono i Paesi più deboli per quanto riguarda il potere di pricing. Le aziende situate in Polonia, USA e Francia, così come i settori farmaceutico e dei beni di largo consumo, si trovano all’altro opposto e spesso spuntano dei prezzi di mercato in linea con il valore offerto. Che cosa differenzia le aziende con un forte potere di pricing da quelle che ne hanno poco? “Le determinanti primarie di un elevato potere di pricing sono il valore per il cliente e il marchio“, spiega il dott. Zatta. “Ogni azienda è in grado di sviluppare un elevato potere di pricing. Se un’azienda offre ai suoi clienti un valore reale, comunicandolo mediante un marchio superiore, potrà tradurlo in denaro“. Le aziende che giustificano le loro scarse prestazioni attribuendo la colpa alla concorrenza si autoingannano.
 
La guerra dei prezzi continua
Il 46% delle aziende è ancora impegnato in una guerra dei prezzi. La grande maggioranza dei dirigenti (83%) ne attribuisce la colpa ai concorrenti – sebbene ciò non sia statisticamente possibile. Paragonando i Paesi, il Giappone risulta con l’84% il mercato più competitivo nella guerra dei prezzi, seguito dall’Italia (69%) e dalla Spagna (65%). “I dirigenti devono impegnarsi di più per incrementare i profitti e non puntare solo sulla quota di mercato. Il prezzo è la maggiore leva per il profitto“, afferma Zatta.
 
La sottovalutazione della minaccia dell’inflazione
Il pricing è un argomento che è sempre stato trascurato da molte aziende e, con l’inflazione dietro l’angolo, ne pagheranno le conseguenze: i risultati del sondaggio rivelano che la grande maggioranza delle aziende è in grado di ottenere solo la metà dell’aumento di prezzo target. Solo il 36% delle aziende raggiunge almeno i tre quarti dell’aumento di prezzo originariamente pianificato. L’industria delle telecomunicazioni (25%) è chiaramente al di sotto della media, ma anche gli USA (31%) risultano deboli per ciò che riguarda l’attuazione dei prezzi.
 
In mancanza di esperienza i dirigenti usano il tasso d’inflazione come benchmark per i target relativi agli aumenti di prezzo. Il 68% dei dirigenti pianifica un aumento dei prezzi inferiore o in linea con i tassi d’inflazione. “È fatale usare il tasso d’inflazione come benchmark, tenendo conto che la maggior parte delle aziende sono in difficoltà quando si tratta di aumentare i prezzi. Questo non è sufficiente“, conclude Danilo Zatta. Soltanto i settori delle costruzioni, dei beni industriali e dei trasporti & logistica prevedono di aumentare i prezzi oltre il tasso d’inflazione.
 
Nell’affrontare il rischio dell’inflazione il know-how nel pricing diviene lo spartiacque fra aziende profittevoli e quelle con scarsa marginalità. I risultati dello studio rivelano la formula del successo: quanto migliore è il know-how relativo al pricing, tanto maggiori saranno il potere di pricing e i profitti. Profitti superiori di almeno il 25% lo dimostrano.

Consumi fermi ma prezzi su: ad agosto inflazione +2,8%

C’era da aspettarselo. Dopo la fiammata dei prezzi dei beni energetici, l’Istat ha comunicato che l’inflazione ad agosto ha raggiunto il 2,8% dal 2,7% di luglio, toccando il valore più alto da ottobre 2008. L’Istat ha sottolineato che i prezzi al consumo sono cresciuti dello 0,3% rispetto a luglio, a causa, guarda caso, del traino dei beni energetici non regolamentati e dai servizi relativi ai trasporti. I prezzi dei beni energetici non regolamentati (carburanti e gasolio per riscaldamento) sono cresciuti dello 0,9% su luglio e del 15,5% su agosto 2010. La benzina ad agosto è aumentata dell’1,1% congiunturale e del 16% rispetto ad agosto 2010. Un impatto significativo sull’andamento dei prezzi è stato dato anche dai servizi relativi ai trasporti con un aumento dei prezzi del 2,5% rispetto a luglio e del 5,7% rispetto ad agosto 2010. Imbarazzante il dato sulla crescita delle tariffe dei traghetti: +61% rispetto ad agosto 2010.

Stabile invece il tasso di disoccupazione che a luglio è rimasto all’8% come a giugno, in calo di 0,3 punti rispetto a luglio 2010. I disoccupati nel mese erano poco più di 2 milioni, mentre la lieve crescita del numero degli occupati (+36mila rispetto a giugno, +8mila rispetto a luglio 2010), secondo l’Istat, si spiega con l’aumento proporzionale della popolazione nella fascia 15-64 anni.

L’Istat sottolinea che gli inattivi tra i 15 e i 64 anni diminuiscono dello 0,2% (-33mila) rispetto al mese precedente, portando il tasso di inattività nella fascia di età considerata al 38%. A luglio l’occupazione ha registrato variazioni positive sia nella componente maschile (+0,1% rispetto a giugno e + 0,2% rispetto a luglio 2010), sia per quella femminile (+0,2% in termini congiunturali, +0,6% su base annua). Il tasso di occupazione maschile risulta stabile sia su giugno sia su luglio 2010 al 67,5%, mentre quello femminile resta stabile al 46,3% rispetto a giugno mentre aumenta di 0,1 punti rispetto a luglio 2010. Il tasso di disoccupazione maschile a luglio era al 7,2% (stabile su giugno) mentre quello femminile era al 9,3% (stabile su giugno, in calo di 0,2 punti su luglio 2010.