Reddito minimo garantito, la Svizzera dice no

E alla fine non passò. La Svizzera ha bocciato il referendum che intendeva introdurre nel Paese il reddito minimo garantito. Una bocciatura anche consistente, visto che i no si sono attestati al 77%.

La proposta era piuttosto clamorosa non tanto per la misura in sé, già presente in alcuni Paesi, quanto per l’entità del reddito minimo garantito: 22 franchi all’ora (circa 18 euro) per un totale a fine mese di 4mila franchi, pari a circa 3270 euro. Effettivamente una enormità, se si considera che in Germania siamo a 8,50 euro l’ora e negli Usa Obama ha proposto una cifra oraria di 10,10 dollari. Questa misura avrebbe interessato circa 330mila posti di lavoro concentrati soprattutto nel commercio al dettaglio, nella ristorazione, nei servizi alberghieri, nell’economia domestica e nell’agricoltura.

Probabilmente alla base della bocciatura non c’è tanto una ennesima riprova della proverbiale chiusura svizzera a ogni norma di apertura antiprotezionistica quanto una sana paura della crisi, che si fa sentire anche in alcuni settori della pur florida economia elvetica. Secondo gli imprenditori del Paese, un reddito minimo garantito così alto avrebbe bloccato le assunzioni dei giovani e la crescita dell’economia. Forse tutti i torti non li hanno.

Il risultato del referendum svizzero dovrebbe far riflettere quanti, anche nel nostro Paese, propongono l’idea di un reddito minimo garantito come antidoto contro la povertà sempre più diffusa, generata prevalentemente dalla crisi. È uno dei cavalli di battaglia di Beppe Grillo ma anche, in versione riveduta e corretta, del premier Matteo Renzi. Al di là delle preoccupazioni degli imprenditori, legittime e fondate il Paese ha le risorse per sostenere una misura del genere, anche se ampiamente al di sotto delle cifre svizzere? E quanto un reddito minimo garantito, travestito da sussidio di disoccupazione, può ingessare e rendere sterile un mercato del lavoro già agonizzante anziché rivitalizzarlo? Speriamo che la risposta a queste domande non debba passare dalle urne anche in Italia.

Il governo Renzi e le prime misure economiche

Dopo tanti proclami, per Matteo Renzi è arrivato davvero il momento di fare. Specialmente nel campo delle misure economiche e sul fronte della spesa pubblica, il governo Renzi è atteso da scelte importanti.

Tra le principali misure ci sono il taglio ai costi della politica, la riforma elettorale, la riforma del fisco, la scuola e novità per lavoro e imprese. L’aumento della tassa sulle rendite finanziarie dal 20 al 25% sarà la prima misura che Renzi e l’esecutivo adotteranno.

L’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie era già previsto nel Jobs act, presentato da Renzi a dicembre 2013, prima che stravincesse le primarie del Pd. Il piano di lavoro del nuovo governo parte dalla necessità di allargare le tutele economiche e sociali per i lavoratori e di introdurre un reddito minimo garantito per chi dovesse perdere il posto di lavoro, oltre che dalla necessità di creare occupazione. L’obiettivo è quello di avere 200mila occupati in più nei settori di punta dell’economia.

Del piano per il lavoro faranno parte gli incentivi alle assunzioni degli under 30, ma solo per le aziende che prima non licenziano. Queste assunzioni dovrebbero essere defiscalizzate e ulteriormente agevolate nel caso di lavoratori impiegati nei settori dell’innovazione e della ricerca; l’impresa pagherà solo i contributi previdenziali.

L’esecutivo Renzi punta poi a ridurre Irap e Irpef sui redditi da lavoro; l’ipotesi è quella di una riduzione di un punto delle prime due aliquote: quella del 23% che si paga ora fino al 15mila euro, e quella del 27% che si versa fino a 28mila euro. L’impatto sarebbe su tutti i cittadini, ma il dato importante è che con queste due aliquote pagano le tasse 34 dei 41 milioni di contribuenti che presentano la dichiarazione dei redditi ogni anno. Il problema è il costo elevato di questa misura necessaria: circa 5 miliardi di euro.